giovedì 31 maggio 2018

ORE 13:15, LEZIONE DI STORIA (di Piero Nicola)


Prima del telegiornale regionale di Rai 3 va in onda una lezione di storia condotta dal celebre giornalista Paolo Meli, che interloquisce con un cattedratico professore di storia, e fa intervenire, dall'altro lato, tre studenti invariabilmente lodevoli riguardo al tema del giorno.
  Il conduttore si premura di chiarire, ripetutamente, che sulla storia di qualsiasi periodo e paese non è mai stata detta l'ultima parola, né sarà mai scritta in modo definitivo. Il che solletica l'interesse del pubblico, allettato dalle novità e dalle scoperte. Io, diffidente in buona compagnia, sospetto che questa apertura consenta di convalidare le interpretazioni conformiste, i tabù inamovibili, e di aggiungervi libere e appetitose osservazioni, in linea con gli amati pregiudizi, senza i quali ai docenti come a molti cittadini verrebbe a mancare la terra sotto i piedi.
  Vedete - e ben si dovrebbe sapere - la storia scritta ha un difettaccio insanabile: quello dei giudizi di merito, degli aggettivi, che gabba i migliori intenzionati a riportare scientificamente gli avvenimenti, le loro cause, i loro effetti, i pesi e le misure. Per quanto si incaponiscano a voler  essere obiettivi, per quanto passino le loro coscienze sulla  fiamma purificatrice come fa la massaia quando brucia le ali spennate e il petto del pollo per mondarli delle peluria, i poveri storici non riescono a mondarsi del tutto del loro io non santo. Alcuni scrupolosi, rileggendo il sudato testo pronto per la stampa e per la gloria, attanagliati dal rimorso, pencolano fra il rogo del caminetto in cui gettare l'opera e il suicidio.
  Però si tratta di casi estremi. I più non solo sono sicuri del fatto loro, godono bensì delle scoperte dovute a lampi di genio, sono talmente innamorati di essi che se ne fregano addirittura della  stravaganza, della disinvoltura, del tradimento. E non esiste forse il fedifrago che si bea del piacere clandestino? Il fatto poi che la storia sia interpretabile e sempre da riscrivere rende agevoli le gloriose scappatelle.
  Con tutto questo, prima di trinciar giudizi ed essendo impenetrabile il segreto della buona o della cattiva fede, bisogna ammettere il semplice errore, la cantonata, che nondimeno è giusto denunciare.
  Quindi torno da dove ho preso le mosse: la trasmissione di Rai 3 tenuta da Paolo Mieli.
  In uno di questi giorni, si trattava del fascismo e degli USA, delle ragioni americane di avversare il regime del Duce negli anni Trenta. Al termine della disquisizione il moderatore, dopo aver chiesto al super-professore di segnalare i testi migliori da leggere sull'argomento, dopo aver elogiato gli studenti per le loro doti di acume e di preparazione, come di prammatica, rilascia le finali conclusioni.
  Per la verità, il suo compendio è stato parziale, e giustamente, perché aggiungere qualcosa alle accuse mosse al fascismo avrebbe equivalso a stuccare. Dunque egli ha affermato che Mussolini, prima della Trasvolata atlantica, comandata da Italo Balbo nel 1933-34 e destante l'ammirazione degli americani, aveva simpatia per la Repubblica a stelle e strisce, l'apprezzava. Ma, roso dalla gelosia per il successo e la popolarità acquistata dal Balbo nella terra che fu dei pellirossa, da quel momento prese in uggia il Grande Paese.
  Ahimè! che brutti scherzi gioca la vanità dell'acume, pur esprimendosi sotto forma di piana, quasi scontata e assodata trasmissione di notizia.
  Nel volume XIV dell'Enciclopedia Treccani, redatto nel 1932, si trova a pag. 847 che la "concezione fascista [...] è contro il liberalismo classico". A pag. 849, in un'estensione della voce fascismo, recante in calce la firma dallo stesso Mussolini, abbiamo: "Il fascismo respinge nella democrazia l'assurda menzogna convenzionale dell'egualitarismo politico e l'abito della irresponsabilità collettiva e il mito della felicità e del progresso indefinito". Inoltre: "Di fronte alle dottrine liberali, il fascismo è in atteggiamento di assoluta opposizione". Inutile continuare. L'opposizione del fascio littorio alla Democrazia per eccellenza e per tradizione, che si erigeva a maestra negli Stati Uniti, era irriducibile, non ammetteva amichevole compromesso. Due idee, due regimi inconciliabili si fronteggiarono. L'inimicizia esistette prima che insorgesse. Tanto più che la disastrosa crisi economica mondiale del 1929 provenne da Wall Street, ebbe un lungo strascico e non si poté ringraziarne Washington, né la Statua della libertà.

Piero Nicola

sabato 26 maggio 2018

GIORNALISMO SCREDITATO (di Piero Nicola)


Si è prodotto un evento storico fenomenale: il discredito del giornalismo. Lo prova il successo dei partiti populisti, privi di tv e di quotidiani. Se al M5s può aver dato una mano la rete di internet, la Lega è emersa attraverso i mezzi di comunicazione, loro malgrado. Fino a ieri, le cose stavano come descritto nel sottostante articolo di Domenico Giuliotti. Per chi nutrisse qualche dubbio, gli basterebbe osservare il velenoso grido di bestia ferita uscito dalle viscere di tutto il giornalismo, di stampa, di tivù e di internet. Perciò vale la pena gustarci questo pezzo del 1919, mai smentito prima.

Il Giornale
  È la peste, il recipiente della peste e il veicolo della peste.
  È l'opinione pubblica, la sputacchiera dell'opinione pubblica e la manifattura dell'opinione pubblica.
  È, nello stesso tempo, la scuola elementare e l'università dell'ignominia.
  È il punto medio nel quale s'incontrano l'alfabeto elevato fino ai fastigi della sesta classe e il frutto marcio universitario che vi cade sopra e vi si spappola.
  Tutte le fungosità, le muffe, i veleni, gli scracchi, gli stracci, i rigurgiti, i cancri, le feci e le schiume della vorticosa babilonia contemporanea, sfognano nel giornale che rappresenta la caldaia satanica nella quale fermentano e ribollono e dalla quale traboccano, in eclettiche fiumane di lordura, sull'ebete grifo del mondo.
  Questa vivanda, fatta d'oppio e di cantaridi, è schifata e desiderata, comprata e masticata, inghiottita e rivomitata dalla moltitudine che avvelena.
  Il giornale, dopo aver ripulito ogni mattina l'appestante orifizio anale della società borghese, incarta il mondo.
  I governi hanno bisogno dei giornali, come i giornali dei governi. I governi influiscono sui giornali, come i giornali sui governi. È un'altalena sguazzante dal fango al fango. Ora il governo è il padrone del giornale, ora il giornale è il padrone del governo. Ora governo e giornale sono schiavi l'uno dell'altro, e la moltitudine di tutti e due.
  Da quando i re on discesi sul marciapiede e gli avvocati hanno occupato la seggiola che ha preso il posto del trono, i governi sono stati sorretti o abbattuti da un foglio di carta infetta.
  Ecco il principale trionfo della democrazia trionfante.
  Il giornale è la misteriosa divinità degli analfabeti che oltraggiano Gesù Cristo. Dicono: "L'ha detto il giornale", e adorano.
  Il giornale che, talvolta, si dà l'aria d'un paladino dell'onestà, ha per illibata sorella la Scuola Laica. Ma di questa clarissa parlerò a parte.
  Nel giornale, il lupanare dell'intelligenza comunica col lupanare del basso ventre. Da porta a porta, è un andirivieni di quadrupedi.
 Vi passa l'artista, il professore, il banchiere, l'onorevole, la diva, il ministro, il prete, l'ebreo, la cocotte, il poeta, il tenore, l'organizzatore, lo scienziato, l'avvocato, il ruffiano, il massone, il saltimbanco, l'impresario, il traditore, l'impostore, l'imbecille, il delinquente, il pazzo.
  Odori e fetori, sprigionati dalla confricazione di questa fauna in caldo, vi si mescolan dentro e vi sgorgano.
  Talvolta gli odori puzzan più dei fetori.
  Vi aleggiano il muschio della mondanità, il benzoino dello spiritualismo, il cinnamomo dell'estetismo, la mirra del misticismo, la cipria della tolleranza, il patchouli dell'eclettismo, l'incenso denaturato del cristiano dei suoi tempi, il pot-pourri del cattolico liberale e democratico, l'essenza di rose dell'illuminato conservatore che accetta la rivoluzione purché si fermi alla prova generale e spari a salve, ecc.
  Il "Giornale d'Italia", per esempio, raccoglie in un foglio a parte tutte queste eiaculazioni profumate e le diffonde, fra mezzo giorno e il tocco, per la terza Roma che ne fragra.
  Quando i giornalisti profumieri si strizzan la vescica dell'Ideale, bisogna, per neutralizzare l'olezzo, buttarsi a capo fitto in un pozzo nero.
  Ancora ho nei buchi del naso tutti i trafiletti cristiano-patriottici-cattolici che un molto piacevole moscardino spruzzava, nel 1916, sugli eroici fetori del "grande" Giornale di Piazza Sciarra.
  Se un uomo intelligente, nel significato etimologico della parola, s'infogna nel giornalismo, diventa contemporaneamente melmoso e superficiale; e se si tratta, mettiamo, d'un uomo addirittura di fede, o trasforma il giornale in una mitragliatrice come il cattolico Veuillot, o diventa, suo malgrado, tollerante, accomodante e scettico, e, infine, irrimediabilmente, anch'egli, farabutto e bruto.
  Ho avuto dei quasi amici non ignobili, che il giornale, in poco tempo, ha trasformati in qualche cosa di livido, di freddo, d'appiccicoso e di smorto.
  Alcuni, passando a sguazzo per il giornale, vi perdono al tempo stesso l'onestà e la grammatica.
  Il giornalista è, in fondo, la parodia della potenza, il servitore vestito da padrone, il feto dell'intelligenza che non si sviluppa né muore.
  Quando questo falso dominatore si vanta di tirare i fili a una infinità di burattini e di divertirsi al giuoco, è un bugiardo.
  Vi sono dei burattini ai quali serve, ai quali s'inchina, ai quali lecca i piedi e dai quali è fatto ballare e cantare.
  Il cenciaiuolo analfabeta di prima della guerra, è già diventato i nuovo padrone milionario del giornalista del dopo guerra. La lavandaia, sciaguattata nel rigurgito sociale e promossa a diva del cinematografo, impone al poeta mancato o al critico accapponato, che si spollina sul giornale, l'articolo-réclame che dovrà trasportarla definitivamente dalla conca alla gloria.
  La borghesia plutocratica e tutti i suoi istrioni, mettono in moto, come vogliono, l'istrione giornalista.
  Questi non ha più l'istinto della ribellione né la libertà di scelta. Pagato per difendere, a un dato momento, la causa di qualche bruto che s'addormenta, dopo un'orgia, sopra un saccone di fogli di banca, ordinariamente (nonostante lo stipendio, che varia dalle seicento alle mille lire al mese) la sua vera funzione nel giornale è quella di non far nulla o di fare il furbo e lo scemo.
  Tutto gli passa, come una melma grigia, sullo stesso piano; tutto gli scola indifferentemente dalla penna, che loda tutto ciò che è piatto e detestabile e finge d'ignorare tutto ciò che è nobile e alto.
  Chi non paga, chi non gli è amico e complice, chi non è amico di chi lo paga, il giornalista lo seppellisce nel silenzio. La mediocrità in corso, i ciarlatani politici, i vitelli d'oro, i preti apostati, le ninfomani letterarie, i tenutari di postriboli cinematografici e i maschi e le femmine che vi fanno la vita, son l'oggetto dei suoi panegirici, dei suoi inni e delle sue lodi più sperticate e stomachevoli.
  Per questo, è alternativamente accarezzato, temuto e disprezzato da quello stesso borghese, baston da pollaio, che lo comanda e lo paga e che, nonostante tutto, talvolta, gli sta perfino al disotto.
  Ma se il borghese, in certi momenti, può disprezzare il giornalista, non può disprezzare in alcun modo né in alcun momento il giornale. Il giornalista è una cosa, il giornale è un'altra. Per il borghese, il foglio che tiene spiegato fra le mani, è la divinità impersonale, l'enciclopedia perenne, il pensatoio universale, l'imbuto che lo riempie, l'atmosfera che respira, l'ipse dixit.
  Anche se dice che il giornale è bugiardo, il borghese è convinto del contrario e, nel momento stesso che lo dice, lo compra.
  Non ho mai visto, per esempio, un considerevole droghiere che sorridesse ironicamente di ciò che leggeva nel giornale.
  Ma se quello stesso droghiere ti vedrà fare pubblicamente il segno della croce davanti a un'immagine sacra, si sbellicherà dalle risa e ti piglierà per pazzo.
  Viceversa, se leggerà nel giornale che il prof. Demiporcoff ha scientificamente dimostrato che Gesù Cristo non spirò sulla croce, ma rese l'anima per un subitaneo raffreddore dovuto a un brusco squilibrio di temperatura, correrà subito a raccontarlo al ciabattino, al parrucchiere o al tabaccaio di faccia e si feliciteranno insieme d'esser nati nei tempi della Libertà, del Progresso, della Democrazia e della Scienza.
  Il giornale è come una nebbia pestifera che s'insinua in tutti i pori, che sconvolge e sfarina tutti i cervelli, che abbassa e deforma tutte le anime, che abbassa ancor più chi è già basso e che si spande più volte al giorno, insatirendo o ammoscendo le moltitudini su tutti i punti della terra.
  Quand'escono i giornali, tutta la strada è loro. Non è lo strillone che porta i giornali, ma sono i giornali che portano lo strillone e lo fanno strillare.
  Il giornale t'entra in tasca, t'apre la borsa, ti ruba i due soldi, ti sporca le mani e il resto e scappa.
  Nessuno si salva. Nello stesso giorno, t'assalta quattro o cinque volte e ti sconfigge sempre.
  Le tipografie dei giornali puzzano e strepitano sempre.
  Le rotative e le linotype, scintillanti e unte, rumoreggianti e sporche, rimacinan tutta la spazzatura della vita e la ributtan fuori a tonnellate. Tutta la città la riassorbe e se ne sfama; e il di più lo esporta.
  Nell'ore della partenza dei treni, l'automobili dei giornali (questi dèi metallici mostruosamente gastro-intestinali), correndo vertiginosamente in ogni senso, s'apron la strada a correggie e a rutti; e quando la loro peste tipografica è stata scaricata nel "bello e orribile mostro", questo la semina, come le budella d'una bestiaccia sventrata, per tutte le stazioni del percorso, perché da ognuna, con altri treni, con altre automobili, con superstiti diligenze e, in ultimo, per mezzo di malinconici postumi rurali, sia trasportata e diffusa nei paesi, nei villaggi, nei casolari e perfino nei campi e nei boschi.
  Alla Verna, sotto il Sasso Spicco, mi ricordo d'aver trovato un pezzo di "Giornale d'Italia", con una cronaca mondana di Diego Angeli.
  Nel più folto della macchia maremmana o nel cuore della Sila, accanto a un escremento umano, ci sarà infallibilmente un giornale.
  Prima, come è noto, i boscaioli e i carbonai, per certe faccende adopravano un sasso possibilmente rotondeggiante e granuloso; ma oggi, beneficati anch'essi dalla civiltà onnipenetrante, preferiscon per quella funzione, e non a torto, l'articolo di Rastignac o la primizia critica di Benedetto Croce.
  Il giornale è un cancro che figlia. Il nucleo velenoso centrale si allarga, si moltiplica e si suddivide in innumerevoli pustole. La sua natura è quella di diffondersi attaccando ogni fibra sana dell'organismo. Il grande quotidiano politico partorisce il settimanale sportivo, letterario, agricolo, cinematografico, il giornale illustrato della Domenica, il giornale pei ragazzi, per gl'industriali, pei proprietari, per l'affittacamere, ecc.
  In tal modo tutte le porcherie son raccolte, riparate, ricoperte e involtate in fogli di carta stampata. Ciò che non è ancora putrido, cadendo nel recipiente che gli viene preparato ed offerto, imputridisce.
  Il "Corriere dei piccoli" (per esempio), mostriciattolo velenoso in gran voga, generato ogni sette giorni dal "Corriere" dei grandi, si tira su a midolline di pane, strofinate nel tegamaccio borghese, i futuri lettori dell'organo delle gomme Pirelli ecc.
  Il giornale è, dunque, il cuore stesso dell'attuale civiltà plutocratico-democratico-laica, e fa circolare il suo sangue infetto in ogni membro del mostro. Se battesse stentatamente o cessasse di battere, la Bestia Apocalittica boccheggerebbe e morrebbe.
  Se non ci fossero i giornali diminuirebbero gli omicidi, i suicidi, gli adulteri, la vendita della cocaina, le truffe all'americana, i poeti onanistici e blenorragici, i romanzieri manipolafetori, i commercianti di patriottismo, d'umanitarismo, di "films", ecc.
  Tutte queste porcherie e questi porci si reggono sulla "réclame" dei giornali: e tutti i giornali, in apparenza variopinti, in sostanza verniciati di sudicio, si reggon sull'immondezza e sulle setole di queste porcherie e di questi porci.
  Se sparisse il giornale, la vertigine ritornerebbe moto, la cacofonia armonia.
  Più che dalla forza elettrica e dal carbone gli opifici e l'officine d'ogni genere, con tutta la brutalità meccanica e proletaria che se ne sprigiona, sono alimentate dai giornali.
  Forse la vita, scomparendo il giornale, ritornerebbe semplice: cesserebbero di fumare le ciminiere, di strepitare le macchine, di dissolversi le famiglie, di scardinarsi le nazioni, di delirare le folle.
  Cessata la illegittima funzione dei bastardi del pensiero, questa sarebbe ripresa dei sapienti.
  Allora si vedrebbero restaurati i troni, rialzati gli altari, ricostruito l'edificio sociale, e calcata finalmente sotto il piede della giustizia, quella bagascia rosso-sporca che i liberti, storcendo il significato d'una parola divina, chiamano libertà.
  Bisogna screditare il giornale, colpire il cuore del mostro, farne vedere tutta la potenza malefica, tutta la bassezza morale, tutta la miseria mentale, tutta la mediocrità, tutte le menzogne, tutto il grottesco, tutto il ridicolo, tutti i pus.
  E, soprattutto, non comprarlo.
  Questo demoniaco mondo moderno, in apparenza invincibile, si regge, forse, alla fin fine, sopra un puntello di carta.
  Se qualcuno lo spuntellasse, la Torre di Babele cadrebbe.
  E l'allegrezza, in alto, sarebbe grande.
  Capitolo estratto da L'ora di Barabba, 1922.

Piero Nicola

venerdì 25 maggio 2018

MALCOSTUME ETERNO E DISUGUALE (Racconto di Piero Nicola)


  Sull'autobus affollato la gente si accalca. Una donna anziana raggiunge a fatica la macchinetta obliteratrice, sebbene i più vicini si siano stretti per lasciarle un varco, messi anche in soggezione dalla presenza d'un militare. Alla fermata, un'imprecazione: la protesta d'un marcantonio maturo, ostacolato dovendo scendere. Gli è scappata una mezza bestemmia. L'autista lo punisce accennando a chiudergli la porta in faccia. Il severo conducente, che filava veloce dando l'impressione d'essere spericolato, benché si potesse contare sulla perizia della sua categoria, ora rallenta l'andatura. È in anticipo di due o tre minuti e, se non arriva al capolinea in orario, lo aspetta un'ammonizione. La guida del veicolo lo seduce, lo trae dall'anonimato investendolo di responsabilità e di potere; gioca un po' con le regole del traffico rasentando il limite dell'osservanza, e mette a posto gli automobilisti che contrastano il passo al grande mezzo pubblico.
  È salito il controllore. I due dipendenti dei Trasporti Urbani si ammiccano. Anche questo impiegato temuto dai passeggeri s'investe d'autorità, legittima, beninteso, ma c'è modo e modo... Egli pure avrà qualche motivo di rifarsi col proprio servizio, o semplicemente esagera sentendosi partecipe nella tutela dell'ordine sociale. Così, in lui resta socchiusa l'apertura per la quale s'insinua la dura volontà di contribuire al raddrizzamento del mondo. Si pianta davanti a un evidente vagabondo, forse un mendicante; invita lo sprovvisto di biglietto a esibire il documento che lo identifica; rileva le generalità da una tessera gualcita e bisunta che il poveraccio ha pescato nella sacca portata a tracolla. Un vago mormorio proviene dal circostante disagio corporeo e spirituale, ma la cosa finisce subito lì. L'africano e la donna con la testa avvolta nel velo guardano placidi. Il borsaiolo sente puzza di bruciato e, ripreso il biglietto dalle mani indagatrici, si prepara a smontare.
  Nel tassì che ha sorpassato l'autobus prima della fermata, da cui sarebbe stato costretto a una sosta nella corsia dei mezzi pubblici, viaggia un funzionario del Ministero. Quando scende, il portiere gli va incontro, si tocca il berretto, gli prende la borsa. All'interno, su, al piano della dirigenza, l'usciere in uniforme accompagna all'ufficio l'arrivato capo-divisione che, eretto e veloce, attraversa l'anticamera. Gli astanti hanno abbozzato l'inchino, ritti e ossequenti. Sulla scrivania monumentale c'è l'elenco degli ammessi all'udienza. I nomi dei postulanti occupano le ultime righe del foglio. Il capo lo scansa; mediante la segretaria convoca due subalterni. Sbrigata la faccenda con piglio militaresco a dispetto del grosso ventre, afferra la copia del provvedimento con cui il direttore del personale, su segnalazione del capo-sezione, ha sospeso dal servizio il ragioniere Martelli, ritardatario nel giungere al lavoro.
  "'Sto Benedetti è un pignolo... fiscale!" pensa il capo-divisione, che quanto a puntiglio esigente non scherza affatto. «Scommetto che il Martelli è arrivato un paio di volte con pochi minuti di ritardo... Bah, il cerbero non sarà un'aquila, ma compie il suo dovere. E poi, come moderarlo, se sta nella manica del Prefetto?"

  Martelli rimugina tristi considerazioni. Gli brucia l'onta subita. Nessuno dimostrerà sentimenti meschini, non ci sarà collega che si azzardi ad apparire vile lasciandosi andare a una canzonatura; però lo smacco rimane e i maligni ne godono. Adesso, in casa bisogna fare i conti col prossimo stipendio dimezzato. La moglie comprensiva, ribellatasi all'"ingiustizia", ora distoglie lo sguardo inquieto quando i loro occhi s'incontrano. Le passerà. Più d'una volta si sono trovati d'accordo criticando questo sistema "da caserma", vantato con elevati argomenti e orgoglio di popolo. Ad ogni modo, il sospeso finisce per prenderla con filosofia. In fondo conosceva la regola, valevole per tutti. Il posto ce l'ha, i figli crescono sani e profittano negli studi. Ricorda suo padre che lo metteva in guardia dalla tentazione di separarsi da Giulia a causa dei suoi difetti, non di rado esasperanti:
  «Se guardi a quello che ti manca, non sarai mai contento. Tu non lo sai, ma cerchi una perfezione, e questo mondo non è perfetto per nessun verso. Puoi avere questo e non quello, un piacere col suo dispiacere, oppure un altro piacere e un altro dispiacere. Occorre accontentarsi. Una situazione può essere migliore d'un'altra, certamente... In qualche caso è soltanto questione di gusti.»
  La scelta d'una situazione migliore s'addiceva meno che mai al matrimonio. Scioglierlo lasciando i figli sbalestrati, rompendo la comunità familiare, basilare, per mettersi con una nuova persona difettosa o per confinarsi nel proprio io, era comunque un delitto. La Chiesa aveva ragione.
  «Caro mio, avresti ragione,» l'amico d'infanzia altolocato replicò, un giorno in cui Martelli gli confidava le sue insofferenze verso certe coercizioni, «potresti essere nel giusto, ma governare è un dramma. Il cancro non si cura con l'aspirina.»
  «E quale sarebbe il cancro?»
  «È la seduzione diffusa a vantaggio degli astuti disonesti, nemici dei valori che intralciano i loro interessi.»
  «E che cosa mi di dici della retorica?»
  «Eh, dagli con la soluzione ideale!» anche lui aveva concluso fustigando il perfezionismo.
  «Ma la retorica non è fingere un'eccellenza inesistente?»
  «Si capisce...» aveva sorriso.

  Luigi Martelli, detto Gigi, frequenta la seconda classe del Liceo Petrarca. Il professore di latino e italiano non solo è un tipo che si fa rispettare: in classe non tollera distrazioni. Se un alunno si volta indietro, stende la mano verso di lui, calmo, impassibile: 
  «Lei, si alzi,» dice col suo tono personalissimo: «Si accomodi fuori.»
  Avviene che uno non capisca il motivo della penitenza, ma nessuno osa chiederlo.
  Nel silenzio in cui si sentirebbe volare un moscerino, l'insegnante allampanato e calvo si leva sulla cattedra per tenere la lezione. Le occasioni fornite dalle materie alla retorica sono parecchie; egli non ne perde una. Le virtù dei Romani ricorrono puntualmente. Oppure sono i vati italici d'ogni epoca a essere portati sugli scudi dell'amor patrio. Ragazzi le cui fibre vengono plasmandosi assimilando sia le proteine che le patrie glorie, patiscono tuttavia un sottile sconcerto. Altri godono dell'enfasi, qualcuno invece sorride; per poi tollerarsi a vicenda, abituati alla disciplina dell'unità. E serbano l'attesa della lezione seguente, condotta da quella di storia e geografia. Chi più chi meno, chi meglio chi peggio, sono tutti innamorati della signorina. Lei, che lo sappia o no, che lo voglia o no, porta la gonna ben sotto al ginocchio e gli occhiali cerchiati di spessa montatura marrone, intonata ai capelli castani.
  Quando scocca il segnale dell'intervallo e le classi si riversano nel cortile, i baldanzosi si danno agli scherzi e agli sfoghi fisici; i riflessivi discorrono, ragionano; ma è vietata la sigaretta e l'uso del telefonino. Il bidello, che ha licenza di vendere fette di focaccia salata, ha durato fatica a reggere l'assalto dell'appetito pressoché generale.
  Viene l'ora di ginnastica. L'istruttore, ex campione di volteggi al cavallo, vuole che la tenuta sia proprio conforme al regolamento. Trascurando gli attrezzi, dopo i giri di corsa ordina ripetuti esercizi a corpo libero, che fanno sudare il doppio. Ama la facezia, si esprime con locuzioni inedite:
  «Tu, dì un po',» ha ripreso un compagno che saltellando gettava i piedi in fuori, « perché corri così, alla parigina?»
  Gli adolescenti hanno riso sorpresi, senza cattiveria. E non c'è stata malizia. La malizia sta altrove, oltre il confine. Viene rinfacciata a quegli stranieri che ritorcono il disprezzo e le accuse. Le propagande si scontrano. Qui non mancano i curiosi dei costumi liberi, licenziosi. Ce ne sono che infilano il naso tra le maglie della censura. In ultimo, ha la meglio il richiamo dell'orgoglio per la civiltà nazionale: fa sentire colpevoli i trasgressori, simili a fedeli che abbiano peccato. Quanto agli indifferenti, sembrano eretici, e pagano il fio del loro agnosticismo.

  La signora Martelli si reca all'elegante negozio di stoffe con la sua bella figliola bionda. Le piace cucire vestiti e le conviene. Alla commessa chiede di vedere un tessuto adatto a un abito da pomeriggio per la ragazza. Dietro il banco la donna alta, adusta, dal naso adunco e dalle labbra magre, dopo aver squadrato le aspiranti clienti, mette fuori dei mazzi-campionario le cui copertine sono rivestite di marocchino autentico. Il lusso traspare dai lembi delle pezzuole. La madre, pur stentando a credere che la clientela della bottega sia soltanto facoltosa ed esigente, accetta l'esame delle magnifiche strisce, scoperte via via dalle mani di una malcelata degnazione. Il padrone, ammanierato, dinoccolato, rimane distante e distratto. La madre accenna a una rinuncia distaccandosi, dando ad intendere di cercare qualcosa di differente. «Non abbiamo di meglio signora,» la previene la commessa, con negli occhi pungenti un'ombra d'ironia. La signora Martelli, senza fiatare, coglie il braccio della sua ragazza incantevole e, conducendola alla porta, rinvia i commenti al marciapiede.

  Il nonno ottuagenario sta male. La cameriera ha chiamato il dottore, avverte il figlio sposato. Il medico da poco più di un mese è primario all'Ospedale Maggiore. Ha promesso d'essere sollecito. «Vengo, appena posso. Tra breve sarò libero.» Il figlio Martelli si precipita, avendo ricevuto il solidale permesso dal capufficio, e trova il babbo affamato d'aria, pallidissimo. Nello studio di casa, il primario ascolta sua moglie, desiderosa di sapere che cosa occorre rispondere agli amici Bonanni; i quali devono sapersi regolare riguardo alla progettata cena di sabato sera, al ristorante. Nell'anticamera aspetta ancora una paziente. Squilla il telefono. L'oberato d'impegni si scompone. Schiaccia il tasto d'ascolto. È la nipote del generale, ottantenne come il signor Martelli, di cui stava quasi per scordarsi. Entrambi hanno bisogno di lui. Sembra troppo. Deve decidersi a semplificare la propria esistenza. Toglie il camice, infila la giacca davanti alla consorte, che attende amara.
  «Andiamo,» la risposta rinviata arriva secca, "digli che andiamo; che prenotino loro, dove preferiscono!»
  Quindi raggiunge colei che si sarebbe fatta visitare. Abbia pazienza, ritorni: si è presentata un'urgenza; riprenda l'appuntamento. Tralasciando i riguardi, il medico precede sul pianerottolo la donna graziosa e ammutolita. Scende spedito giù per le scale, nella cui tromba dorme l'ascensore. In strada, si dirige alla volta dell'autorimessa. Intanto lo scontento scema in una risoluzione. Non può esimersi dal correre anzitutto dal generale. Notoriamente suo figlio è una potenza. Invece, se quel figlio conoscesse il caso, disapproverebbe il favoritismo; e non per scarso attaccamento al proprio genitore.

Piero Nicola
 

domenica 13 maggio 2018

IL FATTO E IL MISTERO (di Piero Nicola)


  La fede risolve tutto. La fede in Dio e nella sua Verità. Ma Dio vuole che essa sia anche una conquista, una osservanza, una purificazione per la vita eterna. È necessario che in questa vita non abbiamo doni e salvezza certi, assicurati una volta per tutte. Bisogna che il mistero ci si ripresenti con la tentazione e che superiamo questa prova con l'aiuto del Signore, ricorrendo a Lui.
  Avviene che la tentazione ci faccia tornare da capo. Che cos'è questo mondo, questo esserci noi, le cose, il generale principio, la destinazione, il soprannaturale, rispetto a un nulla di cui abbiamo pure un'idea? Ma s'impone una realtà: del nostro essere, delle cose, del soprannaturale, di ciò che ci supera, che supera e sempre supererà la nostra comprensione. Lì, nel mistero, si trova la soluzione, a partire dalla realtà (il contrario del nulla, del vuoto) di cui pure fa parte l'arcano. Non può essere vero che l'arcano sia senza risposta.
  Immaginare che quanto esiste non abbia avuto un'origine sempre esistita non avrebbe senso. Perciò l'eternità dev'essere un fatto. L'esistente eterno, poi, bisogna che corrisponda al nostro essere intelligente: non sarà di certo materia. E perché un ente infinito personale, il nostro Dio, il Creatore? Potremmo immaginare altro, altri lo hanno sostenuto. Ma torniamo alla realtà. In essa troviamo la risposta, la manifestazione, la dimostrazione.
  Siamo giunti al problema del soprannaturale. Problema falso, però sempre riproposto e talvolta insinuante il dubbio. La medesima nostra incapacità intellettiva di abbracciare il tutto misterioso comporta una metafisica. Se non bastasse, i fenomeni soprannaturali sono accertabili scientificamente, sebbene non siano spiegati dal metodo scientifico. Oltre alla loro innegabile e tangibile concretezza, essi hanno rivelato e rivelano alquanto di ciò che sfugge alla umana comprensione, rivelano la loro sorgente che ha voluto mostrarsi, ovvero Dio.
  Annoverare la serie delle rivelazioni e dei miracoli sarebbe lungo, e inutile per chi li rifiuta con vari pretesti. Naturalmente occorre discernere il vero dal falso, soprattutto l'autentico dalle preternaturali manifestazioni del demonio.
  A questo punto interviene una seconda tentazione: quella di giudicare l'operato e il giudizio di Dio. All'uomo non basta il senso morale, abbisogna di religione o di filosofia. Si arriva a concepire un dio iniquo. Perché Dio permette il male? perché ha voluto una creatura soggetta a cadere? Ritorna la spiegazione iniziale. Se l'uomo è imperfetto rispetto al mistero, è insensato che pretenda di dare legge al Creatore, che pretenda di conoscerne la sapienza, la Provvidenza. Ciononostante, Egli ci ha dato sufficienti elementi perché possiamo capire e non essere sconcertati dai suoi procedimenti. La dottrina di Cristo e della Chiesa sovvengono ai dubbi, sovvengono la fede, che è il primo grande ausilio soprannaturale. Il creato indirizza al vero, la predicazione cattolica porta alla fede chi non ce l'ha.
  Niente di nuovo in questi ragionamenti. Di sicuro ve ne sono di migliori. Ad ogni modo, a volte serve rinfrescare le cristiane convinzioni o concorrere alla persuasione di chi non le abbia.

Piero Nicola

venerdì 11 maggio 2018

NEOLOGISMI MALIZIOSI (di Piero Nicola)


Gli espedienti retorici non sono un'invenzione né odierna né recente. L'arte di manipolare la lingua è una vecchia porcheria. Però tale malizia ebbe sovente, come le bugie, le gambe corte. Un'onestà formale ineludibile, autorevole, vanificò l'uso insinuante, allusivo di vocaboli per svilirne il valore, vanificò le nuove accezioni che denigravano i buoni significati; i mali giochi linguistici vennero smascherati con il loro significato effettivo.
  Il vocabolario mise le cose in ordine, grazie soprattutto all'etica eterna della Chiesa, che metteva in soggezione quella mondana, benché sempre si cercasse il modo per gabbare la gente con usi impropri e locuzioni sofistiche, atte a trarre in inganno.
  Populismo. - Chi oggi vuol accusare qualcuno o una associazione di essere demagogica, non usa più il termine proprio: demagogia, ma ha stravolto il vecchio significato di populismo sostituendolo a demagogia. Il dizionario Garzanti degli anni Ottanta così definiva la voce populismo: "atteggiamento o movimento politico, sociale o culturale che tende genericamente all'elevamento delle classi più povere, senza riferimento a una specifica forma di socialismo o a una precisa impostazione dottrinale". Dunque il senso spregiativo è recentissimo e sostituisce un termine preciso, come demagogia, perché la novità fa maggior presa sull'immaginazione, perché populismo è maggiormente comprensibile da quel popolo che si presume raggirato, e per diminuire il valore del consenso popolare, che sarebbe carpito con le lusinghe. Tale azzardo, con cui si mette in dubbio la capacità di discernimento del popolo e lo stesso valore del principio democratico, dice la crisi dei partiti ancorati al sistema, dice l'impopolarità dei conformisti difensori dello status quo, la loro disperazione, non essendo riusciti a escogitare un nuova soluzione demagogica o non essendosi resi conto dell'aria che tira.
  L'ultima trovata è il sovranismo. Coloro che hanno coniato e adoperano questo neologismo, non si rendono conto di impugnare un coltello a doppio taglio, che sta ritorcendosi contro di loro. Esso si oppone al sentimento che la gente, avvertendo il profondo malessere sociale, prova verso una sottintesa rinuncia alla propria identità, alla sovranità, in nome di un internazionalismo o globalismo o società multietnica, e di un buonismo che fa d'ogni erba un fascio: proposte a cui non crede, di cui subodora la macchinazione. Sminuire la sovranità significa pregiudicare la proprietà di quanto ci appartiene, che si è giustamente ereditato e che non si è disposti a spartire col primo venuto, il quale ne godrebbe senza alcun merito, col quale si ha poco da spartire, anzi costui, comportandosi a modo suo, turba la pace e l'armonia. Il sentimento di tutto ciò, benché sovente inconsapevole, è diventato più forte della propaganda contraria. Questo spiega la sconfitta e il discredito dei partiti che propugnano la politica continuità e la moderazione. Il problema non è semplicemente economico. Anche la massa che può vivere o vivacchiare si sente moralmente a disagio, minacciata, e ha fiutato l'inganno, ha smesso di credere e di obbedire. I segni della diffidenza e dello scetticismo sono evidenti; l'establishment procede in un vicolo cieco, finché qualcun'altro avanza un'alternativa.
  Nella festa dell'Ascensione, Francesco I visita le comunità utopiche e moderniste e tiene omelie stucchevoli e filantropiche, che sanno di connivenza con l'universalismo e hanno perduto il potere di convincere.
  Mattarella è intervenuto al convegno di Fiesole intitolato The State of The Union. Già questo invadente abuso dell'inglese (per giunta poco comprensibile) ormai suona male alle orecchie nostrane, che non appartengano a pappagalli istruiti e ai vogliosi di tenersi in pari con questa moda esterofila. Mattarella ha approfittato di tale celebrazione della solidarietà nell'UE per mettere in guardia un prossimo governo Lega-5Stelle dicendo che bisogna "sottrarsi alla narrativa sovranista", e ha messo sull'avviso tutti quanti perché nessuno Stato può illudersi di fare da sé. Come se tuttora gli Stati europei non dovessero fare da sé, ossia difendere i loro interessi, nonostante la perdita notevole di sovranità e di interessi, senza adeguata contropartita. Ed è l'avvertita mancanza di vantaggi, anzi l'avvertito discapito (immigrazione, moneta unica, debito pubblico in speculative mani altrui) che ha determinato la volontà nazionale di riappropriarsi della propria roba, dell'autonomia. Ora, questi concetti di conservazione del patrimonio e di indipendenza conducono alla sovranità, conducono all'improvvido uso dispregiativo della parola sovranismo; chi se ne serve sta dandosi la zappa sui piedi.

Piero Nicola

mercoledì 9 maggio 2018

CONSEGUENZA DELL'ERRORE (di Piero Nicola)


  L'errore è quel fatto gravido di conseguenze che può generare l'inganno. In campo sociale, dall'inganno derivano giudizi errati e mali d'ogni genere. Infatti sovente l'errore assume l'aspetto della verità. Quanto all'azione umana che produce l'errore-inganno, cioè l'effetto dell'impostura, è inutile indagarne la qualità, metterla sotto processo. Possono determinarla malafede, passione, pregiudizio, ingenuità, ignoranza. Soltanto Dio ha il potere di certa condanna o di assoluzione.
  Il discorso cade a proposito in merito al proposto e caldeggiato governo imparziale rispetto ai differenti disegni politici dei partiti. Tale governo sarebbe utile o necessario per decidere su questioni economiche urgenti. E qui sta il fallo.
  In primo luogo esiste un governo imparziale? In via di principio, ciò è impossibile. Essendo formato di uomini, e di uomini associati come ministri, essi dovrebbero non avere tendenze, preferenze, interessi, colpe e condizionamenti di sorta. Ma se anche, per assurdo, l'impeccabilità si verificasse, che cosa si richiede a un potere esecutivo efficiente e efficace? Si richiede la migliore delle soluzioni da adottare circa i vari problemi. In altri termini, si richiederebbe la saggezza personificata o almeno la miglior saggezza possibile. Per la qual cosa non esiste alcuna garanzia. Inoltre se vige un principio democratico, non sarebbe questo governo che rispetterebbe la volontà popolare, la quale esprime un indirizzo, un orientamento, giusto o sbagliato che sia. Alle elezioni è già stata bocciata la precedente politica governativa e, il partito bocciato è quello che sostiene il governo "neutrale". Perciò il voluto governo indipendente non sarebbe democratico: non rispetterebbe la costituzione.
  In secondo luogo, entrando nel merito, qual è la materia dei provvedimenti da prendere? È inevitabile che essa sia politica, dunque non può essere neutra, meramente amministrativa. Si dice che sono stati presi degli impegni economici e devono essere onorati, pena danni e sanzioni. Le cose non stanno affatto così. Anzitutto tali impegni sono stati assunti da una politica rigettata dall'elettorato. Poi sussiste un potere contrattuale italiano che può essere esercitato, e deve esserlo, sempre a motivo della nuova volontà di radicale cambiamento manifestata dagli elettori. L'Italia non è obbligata a ubbidire alle disposizioni della UE, per esempio riguardo alla regolazione del debito pubblico. Come Francia e Spagna hanno potuto negoziare, così dobbiamo farlo noi. E non sarà il governo tecnico a prendere le improrogabili, occorrenti decisioni. D'altronde nessun membro dell'UE è vincolato all'UE indissolubilmente.
  Infine la ragione principe dell'immediato ricorso alle elezioni è costituita dall'urgente necessità di adempiere i programmi dei partiti che hanno ottenuto la maggioranza dei voti. In base a tali programmi bisogna risolvere senza indugio la questione dell'emigrazione clandestina, dei ricevimenti o respingimenti di immigrati, bisogna riformare le leggi sulle pensioni, sulla tassazione, sul lavoro dipendente, ecc.: tutto ciò secondo una nuova politica; ed è di importanza vitale almeno quanto la regolazione dei rapporti con Bruxelles e Francoforte.
  Intanto assistiamo a una campagna di propaganda scatenata dalle tivù e dalla stampa del vecchio regime, ormai screditato, propaganda di denigrazione dei partiti vincitori delle elezioni e giustamente contrari a un governo del presidente, che nasce morto. Poiché devono esistere lobby, associazioni, sette di vario genere, la loro mobilitazione ha fatto sì che, persino canali televisivi prima schierati a destra, oggi si uniscano al coro delle accuse di irresponsabilità e di agire per la rovina dei cittadini, rivolte ai partiti che hanno denunciato l'errore suddetto, che non si prestano, giova ripeterlo, a quell'effetto di impostura.
  Se, come sembra, la maggioranza parlamentare vorrà sfiduciare il governo proposto, è interessante vedere quale capo dell'esecutivo e compagine ministeriale si esporrà al sacrificio, che farà giustizia dello sbaglio commesso dalla più elevata fallibilità.

Piero Nicola

domenica 6 maggio 2018

STORIA NAZIONALE E MONDIALE (di Piero Nicola)


  È uscito in questi giorni un importante e singolare compendio di storia (a partire dal Settecento sino ai giorni nostri) intitolato "Le storie più brutte", dovuto dalle penne congiunte dei signori Emilio e Maria Antonietta Biagini. Il sottotitolo è chiarificatore: "Come raccontare al nipotino le menzogne della storia contemporanea". L'istruzione impartita allo scolaro serve all'elementare essenzialità del trattato, alla universale comprensione, tanto utile a demolire gli sclerotici pregiudizi, formati da uno stillicidio di falsificazioni.
  Naturalmente chi pretendesse delle dimostrazioni attuate mediante la scienza storica o filosofica oggi concepita, accademica, avrebbe molto da ridire. Ma le pretese decadono immediatamente essendo fondate, nel migliore dei casi, sul metodo positivistico, anti-metafisico, ovvero sull'ateismo. Mentre il corollario degli autori consiste giustamente nel dato religioso e della vera religione, ampiamente accertabile, volutamente negato dagli storici ufficiali. Dal corollario del cattolicesimo discende bensì la ineguagliabile superiorità della morale e della dottrina politica cattolica, alla luce dalla quale appaiono i corretti giudizi sui fatti reali della vita dei popoli, dopo che lo studioso abbia operato, con la medesima onestà cristiana, un'obbiettiva ricostruzione degli accadimenti.
  Su questi due ultimi punti dei fatti e dei giudizi, poiché nessuno è perfetto e infallibile (né io pretendo di esserlo), in coscienza mi sento di opporre alcune osservazioni; a parte ciò ritengo condivisibile, oltre all'impostazione, l'intera esposizione, in particolare, riguardo al ruolo primario giocato dalla massoneria, o dalle massonerie, nel confronto storico tra mondo e Chiesa, tra le varie potenze al servizio del Nemico e i pur difettosi potentati cattolici.  
  Desidero anzitutto rilevare che la citata chiesa postconciliare non risulta abbastanza decaduta dal suo ruolo di depositaria della Verità. La qual perdita non è stata affatto di secondaria importanza.
  Seguendo lo svolgimento degli eventi, giunti alle guerre d'Africa e alle guerre mondiali, manca un doveroso riconoscimento dei sacrifici, delle fedeltà e degli eroismi, attuati per la Patria dai nostri combattenti e, in misura inferiore, dal popolo. Tali valori non possono essere tralasciati a motivo di eventuali errori o colpe dei governanti.
  Circa l'ordinamento dello Stato, la stessa Chiesa riconobbe che nessuna costituzione era  condannabile: non il Re assoluto, non la problematica democrazia, purché fossero rispettosi della Legge di Dio. Bisognava prendere in considerazione soprattutto il modo di governare. Ne consegue che la bontà del sistema politico dipende dalle circostanze. Ora è innegabile, per fare un esempio, che in Spagna, nel 1938, il capo militare e politico, dopo aver sconfitto la peste del comunismo, dovesse instaurasse una dittatura. Lo stesso regime conveniva al Portogallo, dove pure il successivo avvento della democrazia non migliorò di certo la salute morale e spirituale di quella nazione.
  Il nazionalismo. - S'intende che gli eccessi vanno evitati. Però il tossico richiede l'antidoto, che non è blando. Nella saggia Roma repubblicana, allorché la situazione era critica, il dittatore sostituiva i consoli. Perciò occorre andar cauti con le drastiche risoluzioni che, intese a stabilire la normalità, fanno invece ricadere nel fango. E non stanno nel fango, come pure ci viene mostrato, i tradizionali e consolidati regimi parlamentari d'Occidente, oltre a tutto travagliati dalle fazioni che contraddicono l'essenza della Patria comune? Gli autori osservano che "in teoria l'insegnamento è libero, ma pressioni brutali vengono esercitate su insegnanti e professori che non si adeguano alla versione 'politicamente corretta' della storia". E allora che differenza fra la cattiva democrazia e il cattivo autoritarismo? Non sarebbe difficile dimostrare che la democrazia ha in sé almeno tanti difetti quanti ne ha l'autoritarismo.
  Il discorso non cambia per i "poteri intermedi" e il centralismo statale: entrambi possono divenire contrari al bene comune. Se è giusto riferirsi al modello, è indispensabile non perdere di vista le invitabili anomalie della condizione umana.
  "La propaganda laicista risorgimentale", pur mitigata dal riconoscimento tributato alla Chiesa e dalla formale messa al bando della massoneria, fu senza dubbio un errore colpevole del fascismo. Quanto all'entrata in guerra, occorrerebbe stabilire che non ci fosse stato un nemico da combattere e che lo si sarebbe potuto combattere diversamente. In via di principio, può valere di più una guerra perduta che una pace di sottomissione.
  La Seconda Guerra Mondiale. - Si dice nel libro che "i polacchi bloccarono le comunicazioni fra la Germania e la ormai isolata provincia della Prussia orientale, la cui economia venne così gravemente impoverita. Danzica, tedesca al 97%, era praticamente assediata. Le popolazioni tedesche della Polonia occidentale venivano sottoposte ad angherie d'ogni genere". Dunque il Reich aveva qualche ragione di pretendere il famoso corridoio di Danzica, negato dalla Polonia. Ma Francia e Inghilterra, che già le avevano dato "ogni sostegno perché potesse continuare nella sua politica oppressiva", dichiararono la guerra come alleati della Polonia attaccata. Non vollero soprassedere, e il motivo lo leggiamo in un'altra pagina: "la Germania era un pericoloso rivale economico e politico da abbattere: era alla sua distruzione che miravano i grandi professoroni di democrazia, non ad abbattere il regime e a liberare il popolo tedesco".
  Hitler era un criminale. Ma che avesse voluto provocare l'immane conflitto e che non potesse vincerlo, nonostante l'intervento degli Stati Uniti, sono cose discutibili. In un libro di memorie degno di ogni attenzione, l'insospettabile Antonia Setti Carraro, allora crocerossina in un campo di addestramento di truppe italiane in Germania, ebbe fortuitamente a costatare gli esperimenti di potentissime armi segrete, bensì attestati da giornalisti italiani e dello stesso Mussolini. Bombardamenti o sabotaggi impedirono la realizzazione fors'anche della bomba atomica. Pare che il tiranno avesse detto: "Che Dio mi perdoni gli ultimi giorni di guerra". Può darsi che il Signore abbia sventato il suo disegno. Del resto, non pochi altri avvenimenti bellici furono suscettibili di far prendere un'opposta piega al conflitto mondiale.

Piero Nicola

venerdì 4 maggio 2018

TEORIE MALATE (di Piero Nicola)


Buona parte delle teorie erronee tradotte in norme e prassi non sono prive di frode, altre provengono da buona fede solo in apparenza, poiché si tratta di coscienza falsificata; molti le approvano per un errore di valutazione, sebbene anche qui in fondo giochi spesso un ottimismo, talvolta un pessimismo, moralmente censurabili.
  Sta di fatto che oggidì i procedimenti sociali introdotti nella temperie postmoderna sono sbagliati. Infatti vengono accolti solo quelli conformi a un mondo sbagliato: il mondo dell'immoralità giustificata, degli stupefacenti tollerati, della giustizia molle, incerta e indulgente, delle libertà e dei diritti indebiti e rovinosi, sanciti dalle leggi, che castigano chi vorrebbe raddrizzare le storture.
  Una dottrina delle peggiori, gabellata per scientifica, fu quella sulla pazzia e sul trattamento dei malati di mente. Ebbe buona accoglienza e consenso popolare. Come per quasi tutte le licenze legalizzate essa soddisfaceva il sentimento pietoso e il senso di giustizia, non già puri e generosi, bensì radicati nel vile amor proprio: "Se succedesse a me, se io fossi costretto ad avere le mani legate..." ecc. ecc. Il consenso provenne dalla presunzione di sé, di saper usare della libertà meglio di chiunque, di essere comunque al riparo dalle offese altrui, e dal timore di dover subire l'affronto della coercizione.  
  Si stabilì che l'alienato, curato bene e carezzato, non fosse pericoloso, tranne che in casi rari. Dunque si abolirono quei tristi e orribili luoghi di segregazione e di tortura che erano i manicomi. Naturalmente i pazzi omicidi sussistettero, i peggiori sono tuttora rinchiusi in speciali reparti psichiatrici, e sono in numero maggiore del previsto. Naturalmente le statistiche stanno in mano ai comandanti; essendo scomode, non vengono divulgate e forse nemmeno eseguite. Ma ciò che importa è che potenziali folli assassini, feritori e danneggiatori - da cui un tempo la società era protetta - sono in circolazione, nelle famiglie, minate dall'angoscia e dal terrore, altrimenti quasi abbandonati alla propria disperazione e al suicidio. Fenomeno sociale che viene artatamente nascosto o sminuito.
  La frode, facilitata dall'oltremodo coltivato pregiudizio umanitario, va a segno un giorno sì e uno no, quando dovrebbe saltar fuori la criminale applicazione della teoria, responsabile di uccisioni, ferimenti e violenze commesse da poveri irresponsabili. Non passa settimana che un tale, che è stato in cura per problemi psichici (questa circostanza viene quasi sottaciuta) ammazza, usa violenza, commette gravi reati.
  Dice: "E allora i poveretti confinati in un manicomio non vivrebbero peggio che in prigione, anche se non avrebbero compiuto azioni temibili, orrende?" E qui compare l'ignoranza: sia non essendosi compresa la reale pericolosità, tenuta nascosta, sia trovandosi all'oscuro della saggezza inerente al governo di uno Stato.
  Seguendo lo stesso principio pietoso e scrupoloso - utile all'invalso sistema democratico - per evitare l'errore giudiziario si dovrebbe assolvere quasi tutti gli imputati, lasciando a piede libero la delinquenza spicciola e criminale. Si è quasi giunti a un simile disordine funesto. Gli stessi tre gradi di giudizio lasciano in circolazione gran parte dei delinquenti sotto processo. La regolamentazione dei provvedimenti detentivi fa acqua dappertutto, con arresti domiciliari, permessi e premi. Giornalmente le vittime dei delitti, i parenti degli assassinati, lamentano l'ingiustizia, ma sono relativamente pochi. Chi subisce il furto, la messa a soqquadro della casa, persino la rapina, se ne dimentica, si convince che occorre convivere con gli inconvenienti del progresso, dell'immigrazione. Gli stessi parenti stretti dei drogati sono sopraffatti dal sistema, dalla falsa fatalità.
  Le debite leggi, la debita amministrazione della giustizia, il debito carcere, possono e devono produrre la salute civile, garantire gli autentici diritti umani. La malizia invece accende un faro sull'ineliminabile errore giudiziario, sulla possibilità di patire una restrizione del libito, sul rischio di incorrere in un'iniquità. I pubblici persuasori, che dovrebbero essere educatori, mirano in basso a pascere l'ego e gli appetiti, anziché esaltare il nobile sacrificio, in qualche misura sempre necessario al vero bene comune.
  Aggiungo una nota significativa sulle attuali aberrazioni dell'equità. Poco tempo è trascorso dalla morte di una ragazza placcata in una partita di rugby. Se c'è uno sport crudo e antifemminile questo è il rugby. La notizia ha fatto il suo corso ovattato, intriso di tenerezza, di varie solidarietà, con vago accenno al modo in cui avvenne la disgrazia. E come parlare di disgrazia, a seguito di uno scontro brutale e di una caduta con conseguenze prevedibili, trattandosi di corpi di ragazza? Lo stesso dicasi del pugilato, del calcio muliebre: contrari alla peculiarità del gentil sesso. Veri e propri snaturamenti, altro non sono che lusinghe per giovani e adulte, non di rado frustrate, in cerca di affermazione a caro prezzo. Il danno psicologico e fisico non tarda a colpire quel genere di atlete e di sportive. Ma ha la meglio la brama di avere, di essere di più, di non rimetterci, di cogliere ogni opportunità. Prevale il pregiudizio: la completa parità di donna e uomo. Sciocchezza di badiale evidenza, eppure accettata, idolatrata. Men male che i maschi ancora non si cimentano con i ferri da calza e i lavori all'uncinetto.
  Ma che succederà quando i dispensatori di desideri avranno esaurito le loro droghe?

Piero Nicola