venerdì 6 gennaio 2017

LA FILOSOFIA DEL FUTURISMO (di Lino Di Stefano)

Lo studioso Luca Redig, alcuni anni fa, in un bell’articolo sul quotidiano ‘Rinascita’ (Roma, I^ maggio 2005), analizzando il fenomeno futurismo quale ‘esperienza totale’, ha rilevato che “il Futurismo quale ‘esperienza totale’, che il ‘Futurismo, in nome della realtà artistica e insieme speculativa dell’attualismo (e il fascismo in termini politici e insieme istituzionali), dopo aver separato dal materialismo lo spirito rivoluzionario, si convertiva in una specie di mistica dell’azione; tensione verso un’azione che era volta per sé, come semplice trasformazione della realtà”.
Che tutti tali indirizzi di indagine abbiano preparato il terreno per l’avvento e l’affermazione del futurismo - visto come pensiero e prassi, come teoresi e come azione, in definitiva, come arte e vita - è confermato dai critici più eminenti, non ultimo il filosofo Massimo Cacciari il quale, alla voce ‘Filosofia futurista’ del Catalogo della Mostra di Venezia nel ribadire testualmente, che “molteplici correnti filosofiche confluiscono nell’’invenzione’ futurista”, ha evidenziato quanto segue.
Dapprima, ad esempio, che il Nietzsche futurista è un misero epigono dell’Unico stirneriano” mentre, resta, al contrario, “profondo, invece, e costitutivo della poetica futurista il rapporto con Bergson” e, in seguito, asserito che “la generale e violenta reazione dei futuristi all’estetica crociana ha fatto velo alla comprensione dell’essenzialissima presenza di motivi idealistici nel futurismo”.
Questo perché, a detta dello studioso veneziano, sul futurismo non sono mai stati influenti Kant o Croce quanto piuttosto “i tratti fichtiani (e perciò gentiliani-attualistici)”. Riconfermato che l’estetica futurista è stata sempre lontana da quella dell’idealismo storicistico, Massimo Cacciari ha concluso la propria disamina sul pensiero futurista riconducendola alla filosofia dell’arte gentiliana.
La quale con maggiore pertinenza di altre estetiche contemporanee rispondeva a quella istanza secondo cui l’arte, appunto, è ineffabile ed inattuale e, come tale, da cogliere come una specie di ‘slancio vitale’. Non a caso - sempre a proposito dell’arte - il padre dell’attualismo affermava dantescamente ed icasticamente che “intender non la può chi non la prova”.
Il futurismo, in altre parole, per dirla con James Gregor, fu, certo, “l’espressione letteraria del nazionalismo spinta all’iperbole”, ma conquistò pure “l’adesione di Giuseppe Prezzolini e Giovanni Papini, uomini che influirono in maniera notevole sulla vita e sulle lettere italiane attraverso giornali quali ‘Leonardo’, ‘La Voce’, e ‘Lacerba’” (L’ideologia del fascismo, Ed. del Borghese, Roma, 1974).
Premesso con Mussolini, che “senza il futurismo, non vi sarebbe stata rivoluzione fascista” (Taccuini mussoliniani, a cura di Yvon de Begnac, Il Mulino, Bologna, 1990), bisogna anche aggiungere che l’attualismo esercitò un influsso decisivo sulle tematiche del lavoro che Marinetti seppe, di volta in volta, affrontare come segue. E, cioè, sia quando scrisse che “il valore di ogni proprietà è un prodotto sociale. Il possesso deve essere legittimato da una sociale utilità. La legittima proprietà di ogni bene non può spettare che alla collettività; sia quando ribadì che “il lavoratore non deve passare dal salario del privato a quello dello Stato (Collettivismo), ma dello Stato deve servirsi per elaborare il nuovo ordinamento economico che lo libererà dallo sfruttamento” (Per i figli del domani).
I motivi della concezione gentiliana del lavoro sono talmente evidenti che opportunamente Luigi Tallarico non si perita di rilevare che “ci accorgiamo della valenza rivoluzionaria del futurismo specialmente se congiunto all’intuizione della socializzazione, manifestata da Marinetti prima che avesse pratica attuazione nel 1944” (Una rivoluzione fondata sulla vita).


 Lino Di Stefano

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