venerdì 9 settembre 2016

SULLA DEFINIZIONE DEL “NEMICO”, NEL RAPPORTO “AMICO-NEMICO” – CRITICA DELLA “DISCUSSIONE” (DEL “DIALOGO”) QUALE UNICA FORMA VALIDA DI AZIONE POLITICA (E RELIGIOSA). Carl Schmitt, Donoso Cortés e il Vaticano II. (di Paolo Pasqualucci)

Riprendo un passo da Il concetto del Politico, del 1932, un’opera fondamentale della filosofia politica contemporanea.  Ciò va detto anche se, allo stesso modo del sottoscritto, non si condivide il concetto (solo) decisionista  della sovranità elaborato dallo Schmitt (“Sovrano è chi decide dello stato d’eccezione”), delucidando questo concetto solo un aspetto del potere sovrano.  Ma Schmitt ha indubbiamente colto un elemento essenziale della realtà politica nel rapporto di “amico-nemico”, ricco di complesse articolazioni nonostante la sua struttura dualistica, e comunque concetto che libera il campo da molte ambiguità.

“I concetti di amico e nemico devono essere presi nel loro significato concreto, esistenziale, non come metafore o simboli; essi non devono essere mescolati e affievoliti da concezioni economiche, morali e di altro tipo, e meno che mai vanno intesi in senso individualistico-privato, come espressione psicologica di sentimenti e tendenze private.  Non sono contrapposizioni normative o “puramente spirituali”.  Il liberalismo ha cercato di risolvere, in un dilemma per esso tipico […] di spirito ed economia, il nemico in concorrente, dal punto di vista commerciale, e in un avversario di discussione, dal punto di vista spirituale.  In campo economico non vi sono nemici, ma solo concorrenti; in un mondo completamente moralizzato ed eticizzato solo avversari di discussione. 
Qui non viene assolutamente in questione il problema se si ritenga riprovevole oppure no o se si consideri un retaggio atavico di tempi barbarici il fatto che i popoli continuano a raggrupparsi in base al criterio di amico e nemico, né rileva che si speri che tale distinzione possa un giorno essere abolita dalla terra, oppure che si pensi che sia buono e giusto fingere, per scopi pedagogici, che non vi sono più nemici.  Qui non si tratta di finzioni e di normatività ma solo della plausibilità e della possibilità reale della nostra distinzione.  Si può condividere o meno quelle speranze e quelle tendenze pedagogiche; non si può comunque ragionevolmente negare che i popoli si raggruppano in base alla contrapposizione di amico e nemico e che quest’ultima ancor oggi sussiste realmente come possibilità concreta per ogni popolo dotato di esistenza politica”[1].
Va messa in rilievo la critica a quest’aspetto del liberalismo.  Forte della sua concezione ottimistica dell’uomo, il liberalismo non vuol vedere nemici nell’ambito commerciale ma solo concorrenti, anche se talvolta “i concorrenti” si comportano come nemici spietati tra di loro.  E crede il liberalismo classico nella possibilità di limitare l’ostilità derivante dallo scontro delle idee e degli interessi mediante il rispetto dell’avversario e la discussione razionale dalla quale la verità dovrebbe sempre emergere (come se fossimo in un dialogo platonico, con Socrate sempre maieuta del vero metafisico).
Osservo che non si deve accusare tale concezione di ipocrisia quanto piuttosto di utopismo, derivante dall’errata convinzione che nell’essere umano non vi siano tendenze al male, passioni e istinti indomabili, che troppo spesso prevaricano sulle pur esistenti sue tendenze al bene (il dogma del peccato originale postula un indebolimento grave della natura umana non una sua totale corruzione).  La convinzione che i “nemici” si debba tentare di trasformarli in “concorrenti” sul piano economico o in “controparte di una più ampia discussione” su quello spirituale (e quindi sia politico che religioso), corrisponde indubbiamente ad una nobile esigenza, quella di civilizzare al massimo i rapporti tra gli uomini, cercando di disciplinarne gli istinti in primo luogo mediante una elaborazione razionale e condivisa dei principi che devono regolare i loro contrasti, sì da sottrarli per quanto possibile all’uso della forza.      
Tuttavia, se l’eliminazione della categoria del “nemico” è entro ristretti limiti possibile in campo economico e culturale, non lo è più quando si viene alla politica e alla stessa economia in senso stretto e, vorrei dire, forte. E tantomeno lo è quando si viene alla religione.
L’astrattezza dell’impostazione liberale in relazione all’effettiva realtà politica, Schmitt la coglie utilizzando una penetrante affermazione di Donoso Cortés sui limiti della classe borghese.
Lodando la capacità di intuizione di Donoso “nelle materie spirituali”, Schmitt ricorda “la sua [di Donoso] definizione della borghesia come “clasa discutidora” e la consapevolezza che la sua religione consiste nella libertà di parola e di stampa.  Non voglio prendere ciò come l’ultima parola sull’intera questione, ma solo l’aperçu piú incisivo sul liberalismo occidentale.  Davanti al sistema di un Condorcet, ad esempio […] si può ancora realmente credere che l’ideale della vita politica consista nel fatto che non solo la corporazione legislativa ma l’intera popolazione discuta, che la società umana si trasforma in un immenso club e che in tal modo la verità sorga da sé sola, attraverso la votazione.  Per Donoso ciò rappresenta solo un metodo per sottrarsi alla responsabilità e attribuire alla libertà di parola e di stampa un’importanza gonfiata al di là di ogni misura, per modo che, alla fine, non vi sia più bisogno di decidere.  Come il liberalismo, in ogni occasione politica, discute e transige, così esso potrebbe risolvere in una discussione anche la verità metafisica.  La sua essenza consiste nel trattare, cioè in una irresolutezza fondata sull’attesa, con la speranza che la contrapposizione definitiva, la sanguinosa battaglia decisiva possa essere trasformata in un dibattito parlamentare e possa cosí venir sospesa per mezzo di una discussione eterna”[2].
I diplomatici sogliono dire, empiricamente: “finché si negozia, non ci si spara addosso”.  Giusto.  La guerra dovrebbe essere sempre l’ultima ratio.  Ma quando ti sparano addosso e non vogliono discutere con te, che fai?  Continui a “discutere”, a “dialogare”, come se i proiettili fossero confetti?  I terroristi musulmani ci minacciano di continuo e ci ammazzano appena possono, vogliono piegarci con il terrore e noi gli rispondiamo invitandoli a discutere, negoziare, a praticare il (supposto) “vero islam”, che sarebbe una “religione di pace”?  E quando popoli interi ti invadono in modo sempre più massiccio, sbattendoti in faccia che è un loro diritto [?] venir qui a stabilirsi, e a spese nostre [!], anche qui ci mettiamo a discutere e a negoziare?  Veramente, le nostre autorità non discutono affatto, senza fiatare se li prendono in carico e li traghettano a migliaia la settimana nel nostro disgraziato Paese.  Qui siamo oltre l’utopia liberale del “dialogo”, siamo alla pura e semplice resa senza condizioni.

Tornando a Schmitt e alla critica della borghesia “classe che discute” e altro non fa, apparentemente.  Non si limitava certamente a discutere, la borghesia di un tempo, picchiava pure e duramente.  Però è vero che in quell’ideologia di origine borghese che è il liberalismo c’è indubbiamente l’idealizzazione della discussione razionale, la convinzione utopica di riuscire ad addomesticare i rapporti di forza e le passioni mediante una “discussione”, un continuo e aperto dibattito che impedisca alla fine l’esplodere di conflitti sanguinosi. Anche in politica, come se una decisione parlamentare possedesse come tale questa capacità.  Sullo sfondo di questa convinzione alita una fede eccessiva nella ragione umana, l’idea che “la verità sorga da sé sola, attraverso la votazione” ovvero grazie al parere di una maggioranza (in teoria) colta e preparata, che ha sviscerato tutti i problemi in lunghe analisi e discussioni.
Non si tratta di abolire i parlamenti ma di ricondurli ad una dimensione più realistica, tenendo conto dei limiti effettivi della natura umana, dell’esistenza di nemici reali, individui e popoli che vogliono distruggerci o comunque sottometterci.  Nel liberalismo, c’era e c’è questo difetto di impostazione, ben individuato da Donoso e poi da Schmitt, difetto che favorisce un’errata nozione del  v e r o.  Come se per l’appunto la verità si potesse sempre ricavare dalla pubblica discussione su di essa, magari anche per ciò che riguarda le verità metafisiche.  Alla fine la verità verrebbe in tal modo consegnata alla decisione della maggioranza, il che è manifestamente assurdo, anche se non si può escludere a priori che la maggioranza possa arrivarci (per esempio nella politica o nei tribunali, decidendo in modo giusto od equo in relazione al caso concreto). 

La cosa grave è che tale concezione della v e r i t à, accettabile solo per ciò che riguarda le verità parziali e limitate  dell’azione politica immediata o di una sentenza; tale concezione è stata in sostanza adottata dalla Gerarchia della Chiesa cattolica, con il Concilio Vaticano II, cosa impensabile al tempo nel quale Schmitt scriveva, per non parlare di Donoso, vissuto all’epoca di Pio IX. 
Infatti, in certi testi del Concilio la verità morale (il cui fondamento è sempre religioso) è presentata come ricerca della coscienza da effettuarsi in comune con tutti gli uomini di buona volontà, quale che sia la loro religione.  Come se, per il cattolico, non esistessero verità rivelate da Dio e insegnate per duemila anni dalla Chiesa, costituenti il fondamento assoluto della religione e della morale, le quali in nessun modo possono risultare da una ricerca “in comune” con tutti gli altri uomini, per quanto di buona volontà, tra l’altro come se i cattolici ancora non le possedessero!  Esse costituiscono l’immutabile Deposito della Fede, vanno messe in pratica nella propria vita e difese dalle credenze professate da tutti gli altri uomini, dai non cristiani, anzi dai non cattolici.  
In tal modo l’utopia liberale, anzi l’errore liberale è penetrato (con la mediazione dell’Esistenzialismo e del suo relativismo etico) nella pastorale della Chiesa, all’interno di un elogio della “coscienza morale” apparentemente ortodosso.  Questo il passo incriminato:  “Nella fedeltà alla coscienza i cristiani si uniscono agli altri uomini per cercare la verità e per risolvere secondo verità numerosi problemi morali, che sorgono tanto nella vita privata quanto in quella sociale” (costituzione pastorale Gaudium et Spes sulla Chiesa nel mondo contemporaneo, art. 16).   Qui la verità è intesa come “ricerca della verità in comune con tutti gli altri uomini”, ovviamente nel “dialogo”, edizione ammodernata della “discussione” di cui all’ideale liberale criticato da Donoso e da Schmitt. 
Quest’idea della “verità come ricerca” appare anche nell’art. 8 della Dei Verbum, dove si afferma addirittura che “la Chiesa nel corso dei secoli tende incessantemente alla pienezza della verità divina, finché in essa vengano a compimento le parole di Dio”, come se la Rivelazione, secondo quanto sempre professato nei secoli, non si fosse conclusa con la morte dell’ultimo Apostolo.  Mi chiedo se una frase del genere non possa ritenersi manifestamente eretica.
La Chiesa cattolica attuale, per bocca della sua Gerarchia, “dialoga” con tutti perché è evidentemente immersa nella ricerca della verità, la cui “pienezza” ancora non possederebbe [sic], allo stesso modo dei fedeli tutti, “i cristiani, che si uniscono agli altri uomini per cercare la verità al fine di risolvere secondo verità i problemi morali che si presentano nella prassi”.   Ma come sarà possibile arrivare ad una verità “comune” ed anzi ad una verità che sia veramente tale, servendosi di siffatta “ricerca”? 
Tranquilli, spiega il Vaticano II,  la verità si impone sempre per la sua forza interiore.  E questo è certamente esatto, osservo, dal momento che il v e r o si distingue per la sua intrinseca evidenza.  Però non si impone sempre, a causa di questa stessa evidenza.  L’autoevidenza che la verità pur di per sé possiede non basta affinché essa si imponga come tale a tutti:  si imporrà a qualcuno ma non a tutti ed anzi spesso non si impone affatto.  Se così non fosse, non si capirebbe perché molti fra gli ebrei che al tempo assistettero ai miracoli di Nostro Signore non abbiano voluto credere in Lui.
 Utopistico appare dunque il seguente concetto, espresso dal Concilio a proposito della forza persuasiva della verità:  “E tutti gli esseri umani sono tenuti a cercare la verità, specialmente in ciò che concerne Dio e la sua Chiesa, e sono tenuti ad aderire alla verità man mano che la conoscono e a rimanerle fedeli.  Il sacro Concilio professa pure che questi doveri attingono e vincolano la coscienza degli uomini, e che la verità non si impone che per la forza della verità stessa, la quale si diffonde nelle menti soavemente e insieme con vigore” (Dichiarazione Dignitatis Humanae sulla libertà religiosa, art. 1).
Non dico che il concetto qui affermato sia falso.  Dico che è parziale, insufficiente e con tendenza a sfociare nell’utopia.  È vero che la verità si impone per la sua intrinseca forza ma non solo per questo motivo.  Le verità di fede, ad esempio, con i loro profondi misteri, possiamo crederle senza l’aiuto determinante della Grazia?  No.  E allora non possiamo dire che le verità rivelate si impongano a noi solo per la loro intrinseca evidenza.  Deve subentrare un elemento sovrannaturale, la cui effettiva dinamica necessariamente ci sfugge e cui crediamo  per fede , fede a sua volta basata sulla Rivelazione.     
E come sarà possibile far scaturire una verità che si imponga “soavemente e con vigore” a tutti grazie alla ricerca “in comune” di cui al citato articolo 16 GS?

L’applicazione stessa di questo criterio di ricerca “in comune” del vero, dimostra la falsità del criterio stesso (“Dai loro frutti li conoscerete”, Mt 7, 16).  La verità sul matrimonio, tanto per fare un esempio, “il cristiano” da quale ricerca in comune l’avrà ricavata: da una ricerca con chi ammette le “unioni civili”, il matrimonio solo civile, il divorzio, e adesso anche il “matrimonio” omosessuale; o il ripudio, la poligamia, il matrimonio temporaneo?  E a cosa sono approdati, clero e fedeli, in questa “ricerca della verità” nel “dialogo” con tutto il resto del mondo sui problemi morali (religiosi, filosofici, politici) se non alla dissoluzione della loro stessa verità e fede, come si evince dagli ultimi documenti episcopali e papali sull’istituto del matrimonio, pieni di eresie ed errori nella fede?
Parafrasando Donoso possiamo dire che la Chiesa attuale è afflitta da una “Jerarquía discutidora”, il cui continuo, nefasto, sconnesso “dialogare” sta portando all’ autoannientamento del Cattolicesimo.

Paolo  Pasqualucci




[1] Carl Schmitt, Il concetto di ‘Politico’, in ID.,  Le categorie del ‘Politico’, tr. it. di saggi di teoria politica a cura di G. Miglio e P. Schiera, Il Mulino, Bologna, 1972, pp. 87-183; pp. 110-111.
[2] Op. cit., pp. 82-3.  Si tratta del saggio:  La filosofia dello Stato della Controrivoluzione (De Maistre, Bonald, Donoso Cortés), in ID., Teologia politica, in Le categorie del ‘Politico’, cit., pp. 75-86.

Nessun commento:

Posta un commento