domenica 26 luglio 2015

Recensione a "Pascoli e gli animali da cortile" (di Emilio Biagini)

Maria Cristina Solfanelli è una giovane e promettente studiosa nel campo della saggistica letteraria. In Pascoli e gli animali da cortile (Tabula fati, Chieti 2014) presenta un’interessante analisi del rapporto tra Giovanni Pascoli e gli animali: una chiave indispensabile per comprendere il mondo del poeta.
Nella scelta degli animali che compaiono nell’opera pascoliana, l’autrice individua anzitutto una motivazione conscia: il poeta è attratto dalla semplicità e dalla purezza dell’animale, che sta vicino all’uomo ma non giudica, ed è a suo modo perfetto, mai contro natura. A questa si aggiunge una motivazione ideologica: il rifiuto della vita urbana e industriale, che sembra però estendersi ad un rifiuto della vita associata in genere, probabile conseguenza delle terribili disgrazie che funestarono la vita del poeta. Vi infine una motivazione simbolica: dagli animali, infatti, il Pascoli trae simboli di grande suggestione, quali la morte sentita come un minaccioso scalpitìo lontano, o l’immagine positiva del nido che ricorre assai spesso, o il cieco e il pellegrino quali segni della cattiveria umana.
La presenza degli animali evidenzia i cambiamenti dal “precedente” al “nuovo”. L’utopica tranquillità e l’equilibrio della natura si contrappongono, per Pascoli, alla città, all’industria, alla scienza. Quest’ultima è fallita, incapace di dare risposte ai problemi ultimi. Il mito del progresso non ha alcuna presa sul poeta, che preferisce guardare indietro e affidarsi al sogno per entrare in contatto coi suoi cari defunti, o rifarsi a temi classici, come quello dell’ordalia, ne “La cavallina storna”, o al passerino di Lesbia immortalato da Catullo, se non che gli uccellini del Pascoli sono seriamente impegnati a nutrire la prole, mentre quello di Catullo gioca e scherza finché lo coglie la morte. Sarebbe stato interessante accennare almeno ad un confronto anche con Il passero solitario di Giacomo Leopardi, lirica nella quale il poeta esplicitamente si paragona all’uccelletto, e in genere con la visione leopardiana del dolore cosmico.
L’animo ferito del Pascoli lo porta a rifugiarsi nel “guscio” della famiglia, o di quanto ne resta, con un attaccamento speciale alle due sorelle più giovani, Ida e Maria (Mariù). Come scrive Mario Luzi: “Di fatto si determina nei tre che la disgrazia ha diviso e ricongiunto una sorta di infatuazione e mistificazione infantili, alle quali Ida è connivente solo in parte. Per il Pascoli si tratta in ogni caso di una vera e propria regressione al mondo degli affetti e dei sensi, anteriore alla responsabilità; al mondo da cui era stato sbalzato violentemente e troppo presto. Possiamo notare due movimenti concorrenti: uno, quasi paterno, che gli suggerisce di ricostruire con fatica e pietà il nido edificato dai genitori; di investirsi della parte del padre, di imitarlo. Un altro, di ben diversa natura, gli suggerisce invece di chiudersi là dentro con le piccole sorelle che meglio gli garantiscono il regresso all'infanzia, escludendo di fatto, talvolta con durezza, gli altri fratelli. In pratica il Pascoli difende il nido con sacrificio, ma anche lo oppone con voluttà a tutto il resto: non è solo il suo ricovero ma anche la sua misura del mondo. Tutto ciò che tende a strapparlo di lì in qualche misura lo ferisce; altre dimensioni della realtà non gli riescono, positivamente, accettabili. Per renderlo più sicuro e profondo lo sposta dalla città, lo colloca tra i monti della Media Valle del Serchio dove può, oltre tutto, mimetizzarsi con la natura.”
Ecco spiegato l’“anomalo attaccamento alle sorelle”, come lo definisce l’autrice. In effetti non pare affatto normale che un uomo rinunci a sposarsi perché morbosamente attaccato alle sorelle, una delle quali, Ida, a un certo punto, forse stanca di quel fratello perennemente depresso, e comprensibilmente desiderosa di una vita normale, si sposa e abbandona il “nido”.
Resta così, fanaticamente, la sola Mariù, gelosissima del fratello: una gelosia che si risolve in opposizione a qualunque timido piano di vita normale di Giovanni, al punto di fargli rompere il fidanzamento con la cugina Imelde Mori. Al posto della famiglia restano solo gli animali: un rapporto che si presta ad un’ipotesi psicanalitica. Sarebbe in gioco un meccanismo di protezione: i sentimenti negativi verrebbero proiettati sugli animali, con un processo di identificazione che, come nella Pet Therapy, si serve dell’animale per aiutare la persona a ricostruire la propria identità, con in più, secondo l’autrice, la volontà inconscia di prendersi cura di se stesso. Vi potrebbe essere anche un meccanismo di spostamento, in cui l’animale funge da sostituto in una relazione affettiva che non c’è mai stata, per sentirsi ancora utile a qualcuno; e ancora la teoria dell’attaccamento, che avrebbe spinto il poeta, dopo la perdita della madre a tredici anni, a concentrarsi sul tema della maternità, non trovando nelle sorelle un adeguato sostituto alla figura materna.
Spesso ripiegato su se stesso e a volte monotono, il Pascoli sembra incapace di prendere virilmente in mano la propria vita, sebbene non gli mancasse il successo come poeta e professore universitario. Da questo studio profondo e dettagliato emerge la paurosa depressione che tormentò Pascoli per tutta l’esistenza, facendogli trasferire sugli animali la vita che a lui mancava. Era un’anima ferita, ma da questa ferita, come ben evidenzia l’autrice, venne la sua grandezza poetica.

Emilio Biagini

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