giovedì 4 giugno 2015

Noterella alla lucidissima nota di Piero su “La teoria del partigiano” di Carl Schmitt (di Paolo Pasqualucci)

Alcuni hanno notato in passato come “la teoria del partigiano” e comunque la cosiderazione e celebrazione (a livello della storiografia maggiore) della guerriglia come fenomeno storico rilevante nella storia europea, a partire dalle guerre di conquista della Francia giacobina e napoleonica, trascurino completamente il fenomeno delle “insorgenze” nell’Italia centro-meridionale, primo in ordine di tempo contro la dominazione della Francia rivoluzionaria.  Ne parla in breve Piero Pieri nella sua classica Storia militare del Risorgimento, Einaudi, Torino, 1962, cap. I:  “Il risveglio guerresco italiano (1796-1815), 3-54, al par. 3:  “Le insorgenze popolari”, pp. 10-19.
Indubbiamente, il fenomeno avrebbe meritato maggior considerazione, forse anche da parte di un pensatore del calibro di Carl Schmitt.  Ha pesato in modo negativo su di esso, credo, anche la tendenza, evidente soprattutto al Sud, di trasformarsi in o confondersi con il puro banditismo (“brigantaggio”), secondo una tradizione negativa che ha afflitto il Sud per secoli.  Successe anche al tempo dell’occupazione spagnola:  l’esercito regolare si sfaldava perche’ l’aristocrazia in parte consistente (sin dal tempo dei ducati di origine longobarda) non si batteva per il proprio re; scoppiavano allora rivolte popolari spontanee contro l’occupante, il popolo si dimostrava  migliore dei ceti dirigenti; il clima di rivolta permaneva in ambito rurale degenerando rapidamente in brigantaggio, guerriglia a sfondo delinquenziale che impegnava i conquistatori in una lunga e dura repressione, fatalmente feroce quanto la guerriglia stessa.
Questo lo schema.  Può esser utile rileggere qualche passo di Pieri:
“[…] Ma soprattutto nel 1799, nell’Italia meridionale, la lotta civile raggiunse un grado d’accanimento a volte feroce.  Già l’insurrezione contro i francesi negli Abruzzi, nel Molise, a Itri, era scoppiata gravissima; la difesa di Napoli da parte dei Lazzaroni è rimasta un episodio singolare e glorioso. Si batterono in seguito con innegabile valore, soprattutto in Puglia, i realisti nella difesa di Sansevero e specialmente in quella di Andria, e i repubblicani in quella d’Altamura; e la lotta davanti a Napoli, al fortino di Vigliena e al ponte della Maddalena, fu veramente epica da parte dei repubblicani contro un nemico soverchiante, e che pure si batteva con valore e tenacia”.  L’Armata del Cardinale Ruffo constava di un nucleo originale di 5000 uomini, in gran parte dell’esercito borbonico, che nella rotta e nel dissolvimento del novembre-dicembre 1798 avevano conservato e portato a casa loro fucile e giberne, ed erano inquadrati da graduati, sottufficiali e ufficiali di carriera.  Accanto a questo nucleo di truppe regolare erano le bande di “paesani” o “irregolari” riordinate in compagnie d’un centinaio d’uomini o centocinquanta, vestiti in diverse fogge e armati di stili, pistole, fucili d’ogni specie.  Era una forza nominale di 15.000 combattenti, soggetta però a oscillazioni continue, per le diserzioni assai frequenti e gl’improvvisi accrescimenti in vista dell’espugnazione di borghi floridi e popolosi.  Tali prospettive portavano al seguito di questa forza di 15 o 20.000 uomini complessivi, una terza categoria di combattenti, o meglio, di non combattenti, elementi dei più bassi strati sociali, che affluivano dalle zone circostanti attratti solo dalla speranza di saccheggio e di facile bottino.  E costoro salivano a migliaia o a decine di migliaia” (op. cit., pp. 11-12). 
Quest’ultima era la “componente delinquenziale” di cui sopra, presente in generale in varia misura in tutti gli eserciti e in particolare in quelli guerriglieri, particolarmente presente, a quanto pare, nelle “insorgenze” antifrancesi (anteriormente in quelle antispagnole e posteriormente in quella contro l’occupazione del Sud da parte del Re d’Italia).   Mi ricordo di aver letto in una biografia di Fra’ Diavolo, al secolo Michele Pezza, capobrigante che si dimostrò un abile generale al seguito del cardinale Ruffo, che quest’ultimo gli ordinò di non sferrare l’assalto finale della sua “massa” di truppe contro i francesi rinchiusi malconci in Gaeta, consentendo che si arrendessero agli inglesi, il 31 luglio 1799, cioè a un esercito regolare.  Ruffo, cardinale dotato di impreviste e notevoli capacità militari, impedì una bella vittoria tutta italiana perché, da vero sacerdote, si preoccupò di evitare alla popolazione di Gaeta il supplizio di un’occupazione da parte di una truppa sì valorosa ed efficace ma incapace di controllare la “componente delinquenziale” che in parte la costituiva in parte l’accresceva quando c’era da saccheggiare, violentare e rubare.


Paolo Pasqualucci

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