Sovente,
avendone l’occasione pubblica, i vecchi militanti della Democrazia Cristiana ne
rimpiangono la funzione politica e l’organizzazione di partito, ricordando, con
una enfasi tipicamente democristiana, l’eterna e grata
memoria dei posteri per
il ruolo di contenimento della civiltà cristiana contro la minaccia comunista.
In
realtà, con tutto il possibile disincanto storico, per chi abbia vissuto con
una certa consapevolezza i decenni di dominio democristiano in Italia, e
soprattutto le sue periferiche degenerazioni partitocratiche e clientelari,
resta difficile accreditare simile immagine idilliaca e ammirevole della DC. E
per più motivi. A partire dall’idea moralmente perniciosissima secondo cui
l’affermazione elettorale della propria parte politica equivalesse alla
salvezza civile dell’Italia intera.
Infatti
questa identificazione della parte politica col tutto sociale è all’origine di
quella privatizzazione della funzione pubblica da cui si è sviluppato ogni
rapporto degenerativo e illegale tra potere di governo e rappresentanza
politica che in Italia ha instaurato il regime partitocratico, sostitutivo di
fatto a quello teorico dello Stato di diritto.
Il grande merito storico della DC è stato quello
di costituire un fronte politico moderato interclassista che si è opposto a
quello rivoluzionario della Sinistra comunista, secondo uno schema vetusto e
collaudato della storia italiana unitaria sostanzialmente analogo nel tempo,
che risale a Giolitti e che si è riproposto fino a Berlusconi. Ma il suo limite
politico, anch’esso storico e non meno duraturo, è stato quello di fare di
quella costituzione politica moderata un fine di potere particolaristico,
anziché un mezzo per sconfiggere l’avversario ideologico in nome del quale si
era costituito. Invece, però, di affrontare l’avversario culturale comunista,
sul fondamento di una diversa e superiore prospettiva ideale e religiosa, la DC , in nome del comune
anti-fascismo, l’ha legittimato come opposizione “democratica” sol perché
avente una cospicua base elettorale, come se il fascismo non l’avesse per tempo
anch’esso avuto, lasciando nell’equivoco se i comunisti fossero effettivamente
“democratici” in quanto anti-fascisti, ovvero “anti-democratici” in quanto
anti-democristiani. E così, il crollo del comunismo sovietico ha lasciato
orfani e disorientati, sia i fautori marxisti che i loro detrattori politici,
che perciò si sono estinti, lasciando come eredità ciniche pratiche gestionarie
di un potere senza ricambio, e astiosità parolaia di un’opposizione senza
speranza di governo.
Finito dunque il comunismo per esaurimento
internazionale, è finita anche la politica anti-frontista democristiana, ma non
l’equivoco che l’aveva sorretta, ossia l’idea di poter costruire un fronte
puramente negativo di salvaguardia
delle ragioni dei moderati italiani, a prescindere da ogni concreta strategia
di governo. E così, morta la DC
non è morto lo spirito anti-comunista, e al posto della Balena bianca è sorto
il Popolo della tifoseria “liberale”, guidato dall’imprenditore Berlusconi, che
si era proposto di cambiare quella politica e quello Stato che gli avevano
consentito di diventare l’uomo più ricco e potente d’Italia, difendendo le
ragioni di quanti – e sono la maggioranza degli italiani – si erano opposti e
si oppongono ancora alla minaccia comunista, comunque si chiami oggi.
E’ la
DC , che è stato il primo schieramento politico italiano a
preferire al termine “partito” (imbarazzante accanto all’aggettivo
“cristiano”!) un termine generico sostitutivo, il modello ideologico
berlusconiano, e non i vari e confusi progetti liberalistici, portati avanti da
ex socialisti e da ex fascisti. E come la
DC , il movimento politico berlusconiano costruisce su un
motivo sano (opporsi alla demagogia della spesa pubblica e assistenzialistica
della Sinistra), una politica malata (il potere come fine e la gestione della
sopravvivenza).
La riforma della politica italiana deve dunque
partire dalla critica radicale – e non dall’elogio! – dell’ideologia
democristiana, che consiste nel combattere elettoralmente per una causa che
politicamente non si vuole vincere. Vincere, infatti, significa proporre una
politica migliore di quella offerta dai vinti; e cioè avere idee, uomini e
virtù di governo che non sono garantiti dalla semplice vittoria elettorale.
Ci rendiamo conto che questo intento costa
fatica ideale e scelte politiche dolorose quanto necessarie, ossia senso dello
Stato.
Se l’Italia repubblicana fosse stato un vero
Stato, con una classe politica degna di esso, non avrebbe costruito le sue
incerte fortune sull’equivoco dubbio se un partito comunista fosse o non
democratico, e sulla indubbia certezza che esso fosse in ogni caso utile a
quanti vi si opponessero. Questo equivoco ha lacerato per generazioni il nostro
Paese in una dannosa guerra civile permanente, che lo ha isolato culturalmente,
economicamente e politicamente dalla scena europea, dalla quale non è scomparso
per ragioni essenzialmente militari e di opportunità internazionale. Infatti,
il prestigio internazionale che i singoli italiani – imprenditori o
intellettuali – hanno conseguito, non va confuso con il discredito complessivo
che l’Italia ha nell’opinione pubblica mondiale per le sue irredimibili
contraddizioni, sulle quali ha fatto la fortuna la sua disinibita classe
politica repubblicana, che nessun paese civile vorrebbe ritrovarsi in casa.
Come uscirne?
Anzitutto ritrovando un senso civico unitario,
ossia riconoscersi in un progetto politico comune, la cui validità venga
ritenuta meritoria degli stessi sacrifici che la sua realizzazione
richiederebbe a tutti o alla gran parte degli italiani. Questo senso civico
unitario è incompatibile con una classe politica che non ha il minimo senso
dello Stato e che fa di questa deficienza il criterio principale di merito
della sua cooptazione partigiana in uno o altro schieramento particolare.
Una nuova classe politica storicamente non si
improvvisa, ma nasce con l’affermarsi del progetto politico che la promuove. Il
vuoto politico può essere certamente riempito anche da mediocri avventurieri,
ma l’occupazione del potere non è duratura se favorita dalla sola contingenza
favorevole. Se non bastano i paternostri, occorre ben altro della furbizia per
governare gli Stati.
I luoghi della promozione di un nuovo progetto
politico nazionale non sono né possono essere gli attuali partiti politici, ma
solo dei comitati civici, costituiti da giovani, da uomini di cultura, del
mondo del lavoro non assistito e di testimoni della fede, che sono ormai le
uniche risorse economiche e morali di questo paese. E il senso del rinnovamento
morale dell’Italia non può non passare attraverso un’abiura, concreta e
simbolica, dal passato regime politico e del suo apparato dottrinario che
idealmente lo legittimava.
Concretamente, occorre consegnare alla storia
istituzionale dell’Italia la frusta Costituzione repubblicana, che non da oggi
rappresenta nient’altro che il manifesto ideologico di una stagione
emergenziale nata dalla guerra mondiale e che andrebbe superata in ogni campo
della vita civile e ideale dei popoli europei.
Simbolicamente, occorre fare il resoconto delle
fortune personali della classe politica repubblicana, che a partire degli anni
Settanta è andata costituendosi come una oligarchia di privilegiati, dalla vita
parallela rispetto a quella degli altri cittadini, che pure col loro voto
omertoso l’hanno confermata al potere.
Essendo anche la democrazia parlamentare, come
ogni altro regime politico, irreformabile per auto-emendazione, ai fini di una
sua rigenerazione morale occorrerebbe una catarsi etica collettiva, che
invocasse le responsabilità politica e personale di quanti si fossero indebitamente
arricchiti all’ombra delle cariche pubbliche ricoperte, costringendo i
colpevoli quanto meno alla restituzione dei beni ignominiosamente acquisiti, e
inibendo la loro progenie fino alla terza generazione dall’assumere ogni carica
pubblica. Lo si è fatto con gli eredi di casa Savoia, decretandone addirittura
l’esilio, e lo si fa tutt’ora con i criminali, confiscando i loro beni; a
maggior ragione andrebbe fatto per i ladri di Stato, che da legislatori e da
amministratori fedifraghi hanno ipotecato la vita economica delle nuove
generazioni di italiani.
Ciò che conta veramente, per la rinascita civile
e morale dell’Italia, è una presa di coscienza collettiva sul periodo storico
che abbiamo attraversato, anche se non ancora del tutto. Un periodo segnato da
una grandiosa rimozione ideologica dei mali spirituali del nostro tempo. Un
tempo blasfemo, caratterizzato dal dominio di falsi idoli, creati per
legittimare un mondo di pseudo-valori edonistici, giustificati da deboli ma
insidiosi sofismi eudemonistici.
Idoli oppiacei, creati e diffusi per distrarre i
popoli europei scristianizzati da ogni aspirazione trascendente, da ogni
tensione escatologica e da ogni presa d’atto dell’insostenibilità morale di una
esistenza priva di sostegni metafisici e di sentimenti religiosi.
La coscienza umana ripiegata sulla storia, una
storia ridotta a fenomenologia dei bisogni materiali e del potere di
amministrarli, è una coscienza spiritualmente mutilata, senza più il conforto
della presenza divina, il cui sentimento univa gli uomini al di là delle
ragioni economiche della loro convivenza. L’unità mistica è diventata unione
dei consumatori, e tutti i problemi umani ridotti a questioni produttive.
La retorica dei sofisti odierni è una teoria dei
consumi. I mezzi di comunicazione non parlano d’altro che di economia, la nuova
teologia dei nostri tempi consumistici, chiamata a giustificare le ragioni
degli idoli del benessere.
La lingua arida dell’economia parla di un uomo
che ha smarrito se stesso e che aspira a riempire il vuoto di sé con beni
inutili. Come ogni sapere astratto, l’economia è scienza dei beni inutili:
della loro produzione e della loro distribuzione. Essa tratta del lavoro non
come di una attività umanizzatrice che nelle cose prodotte riconosce lo spirito
umano, ma come di una occasione di benessere materiale, necessaria solo a
questo fine, e ammissibile solo se lo consegue.
Non più legato ai limiti antropologici della
nostra natura, che fanno delle fatiche umane il completamento di un’opera
aperta dal lato dell’esistenza, il lavoro diventa alla luce della scienza
economica una attività meramente produttiva di beni, e non di senso. E pertanto
mentre la produzione di senso collega il lavoro umano alla sua visione del
mondo, la produzione di soli beni materiali collega il lavoro al solo processo
del consumo, ossia della distruzione dei beni prodotti, premessa della loro
ri-produzione.
Una logica della produzione che è insieme logica
della distruzione, è un pensiero irrazionale, un sofisma destinato a confutarsi
da sé. Ma poiché questo sofisma è diventato fede e credenza collettiva, la sua
sorte trascina i suoi adepti nel baratro della contraddizione, sul cui ciglio
appunto ci troviamo.
La soluzione non può consistere nel fermarsi
prima dell’ultimo passo fatale, ma di cambiare rotta, e cioè uscire dalla
caverna delle illusioni. Ammettere di aver perso la rotta e affidarsi alla
saggezza dell’economia dello spirito, quello della santità, è l’altro modo
umano di coltivare la ricchezza del mondo.
La santità è un modello tutt’altro che
democratico, non essendo la sua elezione un suffragio esclusivamente umano, e
come tale reversibile. Essa si caratterizza per l’estrema rinuncia ai beni del
mondo, e perciò il suo valore pedagogico è altissimo in campo economico.
Rinunciare ai beni del mondo significa nobilitare di dignità la povertà, e quindi
non disprezzare i poveri costringendoli a inseguire ciò che non hanno, ma a
rivalutare la loro vita per il bene che da essa può nascere. Quando il bene
nasce dalla povertà, i poveri smettono di vergognarsi davanti ai ricchi;
smettono di odiarli e di invidiarli, di volerli e di volersi uguali a loro.
Il mito dell’uguaglianza universale è ciò che
assegna all’economia la dignità di scienza teologica, che fa della sua logica
astratta e contraddittoria il supremo sapere del nostro tempo. Ed è lo stesso
mito egalitario a stabilire il primato ideologico della democrazia, che assegna
alle masse il loro destino, di cui esse vogliono disfarsi, mettendolo nelle
mani dei loro rappresentanti politici. Anche la sovranità popolare segue lo
stesso percorso cieco della ricchezza economica: la si vuole solo per disfarsene.
Questi i segni del tempo, da cui partire per ripensare una vita umana fuori
dall’ombra claustrale dei frusti miti correnti.
Costantino Marco
Nessun commento:
Posta un commento