"Si chiama idealismo un sistema di pensiero che
proclama il primato dell'intelligenza sulla realtà, il mondo in cui oggi siamo
è un mondo idealista, edificato dagli intellettuali a furia di astrazioni, e
sovrapposto al mondo dell'esperienza continuamente rimesso in discussione, ...
Il marxismo, a dispetto delle sue pretese e delle sue fanfaronate, non ha nulla
di materialista, è un'idea proiettata nella società per distruggerla,
impastarne la polvere, imporle una formula maturata a lungo in uno spirito
prigioniero di se stesso, lontano dalla realtà. ... L'idealismo, di cui
muore l'intelligenza moderna, è senza dubbio il più grande peccato dello
spirito". Marcel de Corte
La verità sull'oscura motivazione della guerra
implacabile, che è combattuta dai distruttori idealisti contro il reale
e contro la metafisica, si legge negli scritti filosofici del professore
Herbert Marcuse, noto pederasta tedesco emigrato in California, il quale, nelle roventi pagine di Eros e
civiltà, attribuisce al principio di identità e non contraddizione la causa
del Male che egli definisce fascista.
La
disgraziata parabola del pensiero che, rifiutando Aristotele, proibisce la
visione della realtà, è destinata a scivolare in quel sogno mostruoso -
propriamente rivoluzionario - disegnato da Francisco Goya nel 1797, quando
infuriava il secolo delle allucinazioni empiamente pie.
Analogo
è l'esito desolante della fantasticheria sessantottina, predicata dal teologo
neognostico Jacob Taubes e ultimamente interpretata dalla superstizione
thanatofila, squillante nei messaggi della banca malthusiana e nei pensieri
dell'obitorio radical-chic.
Il
filosofo belga Marcel De Corte (1905-1994) geniale interprete dell'aristotelismo
cristiano [1], fu
protagonista, nei roventi anni Settanta, degli Incontri romani, promossi
da Giovanni Volpe, fondatore della fondazione Gioacchino Volpe, e destinati a
diventare i laboratori della filosofia politica alternativa al delirio
californiano.
Attività
ingente quella della Fondazione Gioacchino Volpe, come attestano i dieci volumi
degli atti, che furono purtroppo
ignorati e quasi disprezzati dai politicanti in sosta mentale nella
confusionaria e inutile area di una destra esangue, consegnata ai
filosofemi di Armando Plebe e agli squilli neopagani di Alain De Benoist e dei
suo caudatari italiani.
Nel
saggio L'intelligenza in pericolo di morte, pubblicato da Volpe e
riproposto in questi giorni da Effedieffe, con una eccellente
introduzione di don Curzio Nitoglia, De Corte ha dimostrato che "tutte
le energie delle civiltà a noi note sotto il nome di civiltà greco-latina e
cristiana, sono qualificate dalla sottomissione dell'intelligenza alla realtà e
dal rifiuto della soggettività in ogni campo".
Le
passioni infurianti nell'età dell'umanesimo ateo, che De Corte definisce
puntualmente narcisista, sono oggi accolte dalla fatuità dei
postmoderni, perché hanno origine da una filosofia "che proclama il
primato dell'intelligenza sulla realtà", ovvero perché sono "filosofie
della quadratura del cerchio", atte a soddisfano la cupidigia
di pensatori a misura delle bocciofile progressiste.
Di
conseguenza la disincantata lettura dei filosofi irrealistici, che hanno
prodotto le novità rivoluzionarie annunciate da autorevoli strilloni, svela che
"il mondo in cui oggi siamo è un mondo idealista, edificato dagli
intellettuali a furia di astrazioni e sovrapposto al mondo dell'esperienza
continuamente messo in discussione".
Al
proposito De Corte suggerisce la riduzione della venerata rivoluzione
filosofica attuata da Immanuel Kant a tre posizioni fondamentalmente erronee:
"l'intelligenza è incapace di cogliere l'intelligibile presente nel
sensibile, l'ordine noumenico [nella Critica della ragione pura noumeno
è l'essenza delle cose] le sfugge interamente; funzione dell'intelligenza
pertanto è organizzare in un tutto coerente la molteplicità delle sensazioni e delle immagini che le si
presentano e, invece di essere fecondata dal mondo reale, sarà lei che feconderà
il mondo dei fenomeni e gli conferirà un senso".
Tracciata
una tale pista la folla dei moderni si è lanciata nella folle e sanguinaria
corsa indirizzata alla seconda creazione del mondo.
L'evidenza
degli errori e degli orrori che hanno avvelenato i secoli dell'estrema
modernità obbliga a riflettere sulla strategia che, "sotto la spinta
della fede in cerca d'intelligenza, della fides quaerens intellectum"
aveva legato la religione cristiana alla filosofia greca e ultimamente
suggerisce di esaminare criticamente le bizzarre opinioni dei clerici
modernizzanti, disastrosamente attivi nel Concilio Vaticano II e nelle scolastiche intese ad
aggiornare/alterare/banalizzare la fede in Gesù Cristo.
Al
proposito il giudizio di De Corte sulla mitologia neomodernista è devastante:
"La Chiesa, almeno quella di vertice, monopolizza l'informazione e
folleggia nel guazzabuglio dell'aggiornamento, manifestando vergogna,
indifferenza o disprezzo per il valore di verità dei concetti intellettuali e
delle formule con cui essi li esprimono, rompendo il cordone ombelicale
bimillenario che La univa alla filosofia aristotelica del senso comune, è
entrata, al di fuori dei veli estremi, nella finzione".
Di
seguito sono posti sotto accusa "al seguito degli innumerevoli prelati
solleciti di dare il cambio al comunismo, di cui vacilla la potenza di
sovversione, il clero si è gettato e si getta a corpo morto nella deformazione
del Vangelo. L'amara formula di Montherlant si verifica nella nostra epoca di
aggiornamenti stravagante: Il clero è sempre avido di aderire al potere
nella speranza di essere un giorno confuso con esso".
Conseguenza
del compromesso cattolico con il mondo moderno è l'associazione del
marxismo con il teilhardismo: "esempio perfetto della mistificazione
che mistifica nello stesso tempo il mistificatore e le sue vittime. Comunicano
all'impostore la incrollabile tranquillità di coscienza sulla superiorità della
sua causa e la convinzione inflessibile di dare la libertà alle sue prede nel
momento stesso in cuoi le asservisce".
I miti
della democrazia estrema, infatti, producono la cortina fumogena che maschera
"l'ascesa della casta più dispotica che la storia abbia mai conosciuto,
casta senza cuore, senza anima, senza vita spirituale, composta da individui
dall'intelligenza limitata con la sola dimensione tecnica, schiava di una
volontà di potenza smisurata".
r
Il
testo di De Corte è consigliato ai cattolici che stano attraversando la vicenda
contemporanea sotto l'ombra dello sgomento, perché nelle sue magnifiche pagine
si trova il filo di Arianna, che è necessario per uscire dal labirinto
nichilista nel quale si aggira, sotto l'applauso scrosciante da una folla
ignara, il clero che festeggia la splendida dissoluzione della sua
ragion d'essere.
Il
grande filosofo belga disegna infatti il percorso che i cattolici devono
compiere per ritrovare la loro identità, quella che è minacciata dall'intransigente vaniloquio di
un'autorità abbagliata - flesciata - dalle luci della filosofia
deragliante.
Per
ritrovare le ragioni della fede occorre che sia prima percorso il cammino della
ragione indirizzato ai preambula fidei, cioè la filosofia
aristotelico-tomista che è accessibile anche nella versione proposta dai
preamboli del catechismo di San Pio X.
Virtù teologale, la
fede non può coesistere con il disordine di una mente avvelenata dagli errori
della filosofia moderna. La ragione non può raggiungere l'orizzonte cristiano
senza il soccorso della grazia. Ma la grazie rifiuta di scendere nella ragione
agitata dall'invincibile delirio generato dall'orgoglio.
Piero Vassallo
[1] Al
riguardo cfr. il pregevole saggio di Danilo Castellano, L'aristotelismo
cristiano di Marcel de Corte, Pucci Cipriani editore, Firenze 1976.
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