martedì 28 aprile 2015

Kierkegaard, sulla fede in Cristo l'ombra di Lutero

Kierkegaard è uno di quegli scrittori che stimolano alla meditazione, aprono l’anima a problemi abissali, ma poi non danno alcun aiuto nel ripensamento che il lettore ne fa, come se dicessero: lasciamo l’anima con se stessa, perché la disperazione della solitudine la elevi alle vertigini dell’infinito”  Michele Federico Sciacca

 Cornelio Fabro, che fu traduttore, commentatore e per alcuni aspetti interprete e ammiratore della filosofia di Soeren Kierkegaard (1813-1855) dichiarò: "io non sono kierkegaardiano e sento di dover fare molte sostanziali riserve alle sue posizioni così in filosofia come in teologia. ... in filosofia gli è mancato il sostegno di una ben definita dottrina dell'essere, così alla sua Teologia della Fede manca il sostegno vitale della Chiesa" [1].
 Prese le dovute distanze, Fabro confessa tuttavia: "devo dire però che l'apprezzamento che ora s'impone sull'importanza storica e sul significato del suo pensiero come anche della sua vita si sono in me profondamente cambiati da alcuni anni a questa parte, da quando cioè presi un contatto diretto con la sua anima e col suo pensiero".
 L'importanza del pensiero di Kierkegaard nella scena della crisi europea in atto, è ora confermata dalla pubblicazione di un magistrale saggio critico di Pier Paolo Ottonello, Il nichilismo europeo, volume secondo, Lutero e Kierkegaard, edito in questi giorni in Venezia da Marsilio.
 L'interesse di Ottonello per il filosofo danese ha origine dalla puntuale diagnosi di un vizio strutturale del mondo moderno, la pretesa (hegeliana) di conciliare (confondere) Dio e mondo, una chimera "che si evolverà storicamente nella sempre più radicale sostituzione di Dio e della chiesa con un mondanismo ateo-statalista, come avverte nel modo più tempestivo e intempestivo Kierkegaard la cui incondizionata accettazione del principio luterano dell'interiorità assoluta - in lui impennata drammatica del soggettivismo assoluto contemporaneo - gli spalanca gli occhi anziché socchiuderglieli, ai rovesciamenti in un assoluto mondanismo politicante di cui riconosce primo responsabile Lutero stesso".   
 Ottonello attribuisce a Lutero la responsabilità dello sviluppo catastrofico del nominalismo occamistico ossia la colpa di aver dissolto "il principio della costituzione metafisica del finito e dunque il principio della creazione come posizione della positività degli enti, onde non gli resta se non la pesantezza schiacciante della negatività metafisica degli enti stessi".
 Lutero ha elevato il suo edificio teologico sopra un bizzarro fondamento: tutto ciò che non è Dio è antidio. Fedele alla dottrina occamista, l'eresiarca aveva ripudiato la teoria dell’analogia entis e s'era risolto ad inventare il bizzarro concetto di contraria species.
 Posto che l’essere di Dio non è analogo all’essere delle creature, è necessario affermare un’antitesi radicale:  Dio è avversione all’essere creato, Dio è totalmente altro da essere.
 La conseguenza di un tale pensiero, come osserva acutamente Ennio Innocenti, è devastante: “Se l’Ineffabile Nulla infinito si esprime, si esprime nel suo contrario. Siamo in piena gnosi[2].
  Ora il luogo in cui la suggestione neognostica si rovescia nell'incolore supponenza è la borghesia post-hegeliana, il mondo in via di dissoluzione, nel quale Kierkegaard nasce: "l'arco della sua esistenza, sostiene Ottonello, "è segnato dalle tensioni di liberazione dai condizionamenti familiari, malgrado le quali, e, infine, mediante le quali Kierkegaard porterà su di sé, con levità dialettica più o meno elegantemente attenta a drammatiche cadute, il retaggio dei propri limiti esistenziali".  
 Il tentativo di uscire dalla gabbia del fatuo mondanismo, "che riduce l'uomo singolo ad una astrazione evanescente", incubo che imprigiona la borghesia festaiola, è peraltro dichiarato apertamente in una sdegnosa pagina del Diario, uno scritto coinvolgente, nel quale tuttavia si intravede l'annuncio del naufragio della protesta kierkegaardiana nelle acque della non-filosofia: "La disgrazia sta nella borghesia. ... La classe agiata e colta, se non proprio i grandi signori, in ogni modo l'alta borghesia: ecco il bersaglio da prendere di mira. E' là che il prezzo deve essere alzato, nei salotti. ... Il popolo rappresenta sempre quella sanità da cui può nascere qualcosa di buono. .. Per predicare la parola di Dio occorrono alcuni uomini, essi sono il medio a traverso il quale la parola di Dio suona al popolo: questo medio è il Clero. Ora è facile vedere che se questo medio fosse completamente esente da egoismo la cosa sarebbe perfetta. ... Il cattolicesimo vide giustamente che conveniva che il clero appartenesse il meno possibile a questo mondo. Per questo favorì il celibato, la povertà, l’ascesi[3].
 L'avversione di Kierkegaard alla borghesia si legge chiaramente in una sferzante pagina del Diario, scritta nel 1854, nella quale è dichiarato il disprezzo dei giornalisti, banditori della cultura al potere nella società liberale: “Questa gente ha il nome del giorno (giornalisti). A me sembra che si potrebbero chiamare meglio della notte. Per questo propongo, dal momento che giornalista è anche una parola straniera, di chiamarli notturni, il sindacato dei notturni. A me non sembra per niente che codesto termine di notturni convenga a quelli cui ora è applicato, agli addetti alla pulizia dei pozzi neri. Sono veramente i giornalisti i notturni, essi non portano via le immondezze di notte, ciò che è cosa onesta e una buona azione, essi immettono le immondezze di giorno, o, per essere ancor più precisi, riversano sugli uomini la notte, le tenebre, la confusione: in breve sono i notturni”  [4].
 E' innegabile tuttavia la prossimità della critica kierkegaardiana all'istante estetico, una dipendenza dalla quale discende l'ombra non filosofica che si stende perfino sulle pagine del Diario.
 Il giudizio quantunque severo di Ottonello non è perciò contestabile seriamente: "La dialettica turbata di Kierkegaard, non dialettica di concetti, è dialettica di sentimenti - fondata sul sentimento dell'impotenza - è una dialettica della malinconia, perché l'eccezione, il paradosso è sempre irrimediabilmente solitario. La solitudine è il suo regno di Mida, prigione in cui si muore di ricchezza sterile. Kierkegaard porta la propria esistenza come la ricchezza sterile propria del mondo contemporaneo, lampeggiante della malinconia del suo essere legata all'istante, consumazione impotente alla continuità, alla possibilità di fruttificare, di generare, di fare storia".
 L'opera di Kierkegaard, grazie alla lettura puntuale e ultima di Ottonello, svela la sua natura di  controcanto e grido, alto grido di dolore della modernità, ferita dalle proprie insanabili, estetiche contraddizioni.
 Simile all'erede kafkiano, che l'inganno arresta davanti al regno di cui è erede, Kierkegaard è il testimone di una verità proibita da un custode invincibile, l'integrismo luterano.

Piero Vassallo




[1] Cfr. l'introduzione al Diario, vol I, pag. 81 e pag. 87, Morcelliana, Brescia 1962. Al fine di proporre una attendibile traduzione delle opere di Kierkegaard, finalizzata a sottrarre il pensiero del danese alla mano morta del sinistrismo europeo, padre Fabro soggiornò a Copenhagen dove si impadronì della lingua danese.
[2] Cfr. “La gnosi spuria”, Sacra Fraternitas Aurigarum in Urbe, Roma, 1993, pag. 150.
[3] Cfr. Diario, op. cit., vol. II, pag. 597.
[4] Cfr. Diario, op. cit., II vol., pag. 553.

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