domenica 22 marzo 2015

Raffale Francesca, la poesia sequestrata dalla città agonizzante

 Cinque anni fa nella sterile e cimiteriale città di Genova moriva Raffaele Francesca, uomo di alta cultura, scrittore di polso, fantastico romanziere e coraggioso testimone della dottrina e della storia proibita. 
 Bon vivant indenne da umiliante invidia e da grigio malanimo sopportava allegramente l'emarginazione decretata dal lugubre salotto, tribunale allestito per incensare scriventi senza ispirazione, conformisti senza ritegni, poeti della domenica, torturatori delle grammatiche e maestri del copia e incolla.
 Era soprannominato il mascalzone, per le sue ratte irruzione alle casse delle birrerie, dove gli amici, ad esempio Giano Accame, Luciano Garibaldi, Pier Franco Malfettani, Cesare Viazzi, Alberto Rosselli, Mario Sossi, e Sergio Pessot,  consumavano - con intenzione di pagare romanamente - libagioni, che la presenza di Raffaele rendeva allegre e felici.
 La nobile origine meridionale, la strutturale generosità e la nostalgia fascista tuttavia hanno vietato l'integrazione di Raffaele in una città ignobile, fetida e grigia come l'acqua del torrente Bisagno.
 Inoltre l'amicizia con il fascista repubblichino Walter Chiari e con altri intoccabili fece salire al più alto livello la disistima della resistenziale città nei suoi confronti.    
 Quasi personificazione di uno sfortunato/ingannato eroe kafkiano, stava in attesa della meritata stima davanti alla porta del suo castello, occupato dai poteri della mediocrità urlante dai palchi della cultura ufficiale.
 L'ingenua fede nella giustizia gli faceva talora credere impossibile la negazione del suo indubbio valore. Ritornava sui suoi passi quando incontrava l'indifferenza settaria, che "spariglia i pensieri, come paglia nell'aria, questo spaesamento che, non pago di condurre il gioco, ignobilmente si diverte a barare".
 La sua indeclinabile, spirituale infanzia ascoltava stupita gli applausi scroscianti dal potere che compensa la vaselinosa adulazione del fantasma progressista. Era incapace di comprendere il settarismo, che persuadeva gli intellettuali collocati nel lato sinistro dello scisma totalitario a ignorare la qualità elegante della sua prosa.
  L'amore per la bella prosa lo costringeva ad apprezzare autori lontani dai suoi ideali. Si era perfino abbassato all'ammirazione della tristezza allo struscio nelle composizioni di un cantautore appartenente all'anarchia alto-borghese.

  La nobiltà d'animo gli impediva la visione della tortuosa e livida gelosia della setta progressista. Disarmava gli amici che tentavano di mostrargli il prolungamento letterario dell'odio di classe alzando le spalle: "Io non sono un capitalista".
 Se non che l'invidia accompagnava il girotondo della città, sedicente colta, intorno alla chimera regnante sui cascami della rivoluzione partigiana & sessantottina.
   Un sinedrio di anime morte tra fasulli allori e senile albagia, gli negava perfino l'opportunità di opporre alla pia leggenda la monumentale documentazione sul delitto - l'immane strage - consumato dai partigiani sulla collina di San Benigno.  
 Era un amante della bella lingua. Nel risvolto del suo ultimo libro si legge: "Convinto che la lingua italiana sappia farsi dipinto e musica, la usa con dovizia e precisione, opponendosi al dilagante imbarbarimento che la riduce a pochi, ripetitivi vocaboli". Probabilmente scritta da lui, questa dichiarazione di guerra alla letteratura progressista è l'incipit di un trattato sull'arte di farsi nemici e un preludio alla biografia dell'intelligenza sottovalutata ed emarginata.
 Indenne da spocchia era incapace di alzare una barriera davanti alla tormentosa chiacchiera del culturame non pensante e non leggente, squallida fabbrica di sentenze sputate per abbassare e umiliare le stature non appiattite sulla zero a sinistra.
 Scendendo sulla sua pelle i silenzi della grigia città - luogo degli anomali e mostruosi inciuci tra la finanza iniziatica e il socialismo irreale - consegnavano la limpida malinconia di Raffaele all'onda opaca della depressione.
 Mal di Genova, la nascosta depressione di Raffaele, male trasmesso dallo scirocco fetido e appiccicoso, dal fiato del conformismo assillante, dalla voce implacabile dei microcefali, dalle scemenza soffiate nel salotto emanato dai classici coglionifici, mulini che macinano il cadaverico lezzo della modernità.
  Dalla città morta l'agonia di un'anima nobile e incapace di arrampicarsi: "Mentre un'ansia maligna costantemente ti spegne dentro desiderii, speranze, sete di vivere, impulso a uscire nel mondo, voglia di fare le cose che hai sempre amate ...mentre ciò accade, l'insolenza dolorosa e livida del male oscuro, ... le sue inquietudini incessanti che non concedono parole atte a narrarle, inappellabilmente ti precludono la fugace, magari truffaldina, consolazione di un chi sa".
  Raffaele è morto di sfinimento in una triste notte del 2005. La sua poesia ha combattuto invano contro la noia invincibile della città grigia. Nell'esilio il suo canto testimonia la vita che non si arrende.

Piero Vassallo

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