giovedì 26 marzo 2015

IL TORCHIO EUROPEO (di Piero Nicola)

Qualcuno dei nostri amici obiettivi storce ancora il naso davanti a una cruda definizione della politica attuata dagli organi dell'UE verso i singoli stati comunitari, in particolare, verso quelli che hanno il debito pubblico più grande.
  Gli obiettivi capiscono che la Commissione europea e la Banca europea mettono sotto il torchio di una presunta equità (il rispetto dei trattati) i paesi economicamente più deboli e stanno rovinando anche gli altri imponendo un'austerità fuori luogo, ma si rifiutano di vedere la malafede, il disegno perverso. Balza davanti alla loro mente la parola dietrologia, cui non si prestano.
  Credo che tale reazione si debba, almeno per alcuni, al fastidio di doversi ricredere su posizioni assunte in passato, allorché non sospettarono o non vollero subodorare complotti internazionali, a vantaggio o a svantaggio dei capi di partito da essi preferiti.
  Teoricamente non ci sarebbe niente da eccepire sulle regole che Bruxelles e Francoforte intendono tutelare. I paesi comunitari non devono far crescere il loro debito pubblico, perché danneggerebbero la moneta comune e ciò sarebbe ingiusto verso i soci virtuosi.
  A parte le eccessive svalutazioni delle monete nazionali più deboli al momento della loro conversione  in euro, ci fu senz'altro un errore nel vincolare ad esso economie differenti, stati che avevano situazioni di finanza pubblica disparate. Con questo errore, da un lato si è speculato, dall'altro lato si è trasformata la moneta comune in una trappola, che rende difficile abolire lo sbaglio tornando indietro alla propria moneta e sovranità monetaria, cioè in una condizione di normalità. Per non parlare dell'inganno costituito dalle leggi infami e moralmente disgregatrici che l'UE impone ai mal governati soci dell'europarlamento, il quale del resto, per vari motivi, ha scarso peso di potere legislativo rispetto alla Commissione. Sicché è realistico affermare che decide e comanda l'asse Bruxelles-Francoforte su questioni della massima importanza.
  Prendendo l'Italia, si ricorderà che tra gli anni '70 e '80 i buoni del tesoro erano in buona parte acquistati dai cittadini italiani. I forti saggi di interesse creavano liquidità interna; consumi e produzione camminavano abbastanza. Non che le banche fossero virtuose, ma restavano piuttosto legate al patrio suolo. Oggi gli italiani sarebbero ancora in grado di comprare il debito pubblico, viceversa esso è in balia della grande speculazione. Ciò ha determinato il pagamento da parte dell'erario (che siano tutti noi) di interessi esagerati: il famoso spread indica tassi cento volte superiori a quelli del prestito pubblico tedesco, senza alcuna giustificazione economica (la nostra economia è tuttora forte, sebbene si faccia di tutto per rovinarla, in ogni sede).
  Non va dimenticata la speculazione sui nostri titoli, quando fece salire lo spread a livelli folli: essa ci costerà, per molto tempo ancora, un ingiustificato esborso di miliardi.
  Varie notizie attendibili ormai confermano la facile supposizione: il fattaccio si compì con la complicità di governanti stranieri, per far cadere Berlusconi, che cercava di difendere la nostra economia.
  Tutta storia assai nota; utile per venire meglio al sodo.
  La condizione della Grecia differisce abbastanza dalla nostra. Certo le sue industrie non sono paragonabili alle nostre; tuttavia i greci hanno una flotta mercantile tra le prime nel mondo, un turismo prospero e un buon grado di sviluppo in ogni settore vitale.
  Dal cambio dell'esecutivo, avvenuto in seguito alle recenti elezioni, assistiamo agli sforzi del primo ministro e del ministro delle finanze ellenici per ottenere proroghe ai pagamenti del prestito nazionale, finanziamenti per rimediare ai vuoti di cassa e concessioni per allentare la stretta dell'austerità.
  Provvedimenti primari e indispensabili se si vuole il ricupero d'una minima normalità, che assicuri la salute del consorzio civile e lo scampo dal fallimento statale.
  Tsipras e Varoufakis, cercando trattative più onorevoli ed equanimi, si sono opposti alla Troika (Commissione europea + BCE + Fondo monetario internazionale) che stringe la Grecia in una combinata morsa delle condizioni per ricevere aiuti. Essi si sono ribellati all'imposizione di governare secondo un dettato esterno e iniquo. Iniquo per lo stesso motivo per cui noi lo stiamo subendo.
  In altri termini, fu sottoscritto una sorta di contratto leonino: moneta unica, che richiederebbe un unico stato, o una confederazione di stati, invece assegnata a nazioni aventi economie incomparabili e assetti sociali assai indipendenti (i problemi dei singoli paesi, di fatto, non vengono risolti in comune, con le risorse comuni), e conseguenti danni inflitti dalla speculazione.
  Giustizia vuole che il patto non sia valido, almeno non del tutto, e che si debba poter retrocedere da esso senza subire uno scapito eccessivo. La nazione greca, come altre europee, è ben poco responsabile degli sbagli commessi dai suoi rappresentanti inetti o infedeli.
  I membri della Troika dovrebbero onestamente concedere una via di uscita, onorevole per tutti. Anzi, dovrebbero ammettere che l'euro è stato un errore grossolano, d'oscuro avvenire; essi dovrebbero badare a rimettere le cose in ordine.
  Ma no! Ogni volta la musica è la stessa: bisogna fare le riforme, bisogna tenere i conti in regola.
  Nell'ultimo incontro tra la Merkel e Tsipras, la signora ha ribadito le condizioni, che non dipendono neppure dalla Germania: aumentare l'età pensionabile, aumentare l'Iva. Così, riferiscono stampa e televisioni.
  La condanna al ristagno è evidente. La prima condizione significa disoccupati; la seconda deprime i consumi, la produzione, l'occupazione.
  Miopia? Attaccamento ossessivo al proprio posto? Cocciutaggine di chi non vuol riconoscere di aver aderito a un progetto errato? Dev'esserci di più, ossia la consapevolezza del misfatto che si sta consumando.
  Se avessero voluto l'osservanza dei patti e il vantaggio europeo, avrebbero dovuto lasciar fallire la Grecia. Invece mostrano di trattare, fanno sorrisi e danno pacche sulle spalle, adoprano il dialogo ripetibile. Se la Grecia uscisse dall'euro o dall'Europa, l'uno e l'altra ne sarebbero rafforzati. Né regge il timore che si creerebbe un pericoloso precedente: esso potrebbe indurre all'imitazione soltanto popoli ben guidati o troppo malconci. D'altra parte, è chiaro che la ripresa dei popoli di questo continente passa per il ritorno all'indipendenza dello statu quo ante. Lo intendiamo bene noi profani di politiche economiche delle alte e complesse sfere.
  Inoltre, l'Unione non ha niente da guadagnare dal mondialismo, ha da perdere con le immigrazioni incontrollate, con il trasferimento delle industrie fuori dei suoi confini, con l'acquisto di grandi manifatture effettuato da capitali stranieri, e non risulta che ponga argini a queste perdite. In ogni caso, essa non salvaguarda le particolari realtà sociali, se qui da noi le vediamo mortificate, ferite dai suddetti fenomeni di immigrazione, di concorrenza e di accaparramento internazionale.
  L'unica spiegazione del comportamento eurocratico sta nella concordanza con l'intento di stabilire un generale statu quo di miseria e soggezione, poiché dalla presente crisi non ci si riprende sottostando alle regole del gioco.
  Coi prestiti della BCE alle banche, con la svalutazione dell'euro rispetto al dollaro, con il costo del petrolio ribassato, con le belle nuove sulla ripresina in atto in Italia e altrove, i responsabili ricalcano l'esecuzione di un programma d'assoggettamento delle genti in un certo grado di miseria materiale e in un grado ben maggiore di miseria morale, ché una crisi depauperante più profonda sarebbe suscettibile di produrre rotture e ritorni al passato.
  Non è immaginabile che gli incalliti conduttori del'eurocrazia siano ignari di quello che stanno combinando ormai da lungo tempo!
 

Piero Nicola

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