lunedì 2 febbraio 2015

PASCOLI E LA CONCLUSIONE (di Piero Nicola)

Una cosa è ammirare, gustare l’arte di un poeta latino o d’altra civiltà del mondo antico, e innamorarsene come, in certo qual modo, è lecito invaghirsi, da liberi, d’una bellezza ancora ignota nell’animo, e perciò mantenendo riserve sull’accordo con lei; altra cosa è mostrare di amarla affatto conoscendola piuttosto agnostica.
  Possiamo noi, apprezzando un’opera o qualcuno che già gode di prestigio nel mondo, prescindere dal suo pensiero complessivo nei confronti della Verità e della Fede? No di certo. Gli influssi di quanto desta ammirazione e il fascino della bellezza hanno avvinto molti trascinandoli in vicoli ciechi. La vicenda umana ne rigurgita. Non possiamo prestarci agli splendori ideali o sentimentali che menano anche soltanto all’incertezza, a un cattivante mistero ingannevole, perché precede il Mistero divino e distrugge o menoma la Rivelazione situata tra il falso mistero e quello autentico.
  Per il bene dell’umanità, fatta di anime d’ogni indole e attitudine, non sarebbe preferibile che i grandi Tolstoj e Dostoevskij non fossero mai nati? Lo dico con tutto il rispetto per i mali che Dio permette affinché se ne possa trarre un mezzo di salute. A noi, ignari della Provvidenza, compete contrastare l’errore.
  E allora chi ne è capace ricavi giovamento anche da Giovanni Pascoli, senza fermarsi alle meraviglie, alle ebbrezze e alle dolcezze del cuore, donateci dai suoi versi. Ma si vada in fondo.
  Quando mi sorgono dubbi intorno a qualcuno o a qualcosa, so dove compiere una verifica semplice e per lo più sicura. Vado a leggere la voce in questione sulla Enciclopedia Cattolica.
  Del poeta romagnolo, nato a San Mauro nel 1855 - morto a Bologna nel 1912, dopo una critica letteraria complessivamente più che favorevole, si osserva:
 “Premesso, come il poeta ebbe a confessare a Giovanni Acri, che per lui la religione doveva essere ‘una semplice sottomissione dell’anima senza forma di culto esterno’, tra l’ideale del Pascoli e l’ideale cattolico è visibile la frattura”.
  Mi sembra che un commento sarebbe superfluo. Evidentemente, nel letterato, che in gioventù aveva aderito al socialismo e a un suo moto di piazza, il sentimento continuava a prevalere sulla buona ragione. Egli infatti aveva studiato ad Urbino dai padri Scolopi e aveva avuto la fede, almeno quella del battesimo.
   Sulle speculazioni pascoliane, il redattore della voce enciclopedica, finisce citando il Pietrobono:
  “Non ritrovò Dio con la certezza dei suoi primi anni; ma lo cercò instancabilmente; non poté, con suo vivo rimpianto, riconquistare la fede nell’immortalità dell’anima, ma la invocò tutta la vita; non immaginò neppure di poter passare per un filosofo, ma non smise mai di agitare fra sé i massimi problemi. Non giunse, insomma, ad una soluzione, e di questo molti provano fastidio; di questo che è lo stato d’animo in cui è riposta la sua poesia… Al pari del suo Tolstoi seguitò a cercare e cercare sino alla fine, e la morte lo sorprese che si aggirava ancora per le buie contrade dell’essere e del non essere con la sua fioca lampada in mano, e gliela spense”.
  Egli, rientrante nella categoria dei buoni e non di rado femmineo nelle sue espressioni, dovette essere giocato da una sottile superbia. Quando canta la mitezza, il perdono, la modestia non si capisce se esalti di più la bellezza delle virtù o la loro verità. Egli arò un terreno in cui avrebbe attecchito facilmente il cattolicesimo socialista e modernista.
  È pur vero che talvolta riconobbe Dio, che rese omaggio a suoi rappresentanti, uomini della Chiesa e si dichiarò estimatore di Dante e di Manzoni, ma sfogliando Myricae (1903) trovo il più virile:

SCALPITIO
Si sente un galoppo lontano
(è la…?),
che viene, che corre nel piano
con tremula rapidità!
Un piano deserto, infinito;
tutto ampio, tutt’arido, eguale:
qualche ombra d’uccello smarrito,
che scivola simile a strale:
non altro. Essi fuggono via
da qualche remoto sfacelo;
ma quale, ma dove egli sia,
non sa né la terra né il cielo.
Si sente un galoppo lontano
più forte,
che viene, che corre nel piano:
la Morte! la Morte! la Morte!

  Dunque la morte incalza una vita desolata, di ombre d’uccelli smarriti. E la loro fuga si deve a qualcosa che può identificarsi con la colpa del peccato originale, ma qui è una condanna incomprensibile, d’origine ignota e senza Redenzione.
  E per chiudere:
Uomini, nella truce ora dei lupi,
pensate all’ombra del destino ignoto
che ne circonda e a’ silenzi cupi
che regnano oltre il breve suon del moto
vostro e il fragore della vostra guerra,
ronzio d’un’ape dentro il bugno vuoto.
Uomini pace! Nella prona terra
troppo è il mistero; e solo chi procaccia
d’aver fratelli in suo timor, non erra.


Piero Nicola

Nessun commento:

Posta un commento