domenica 30 novembre 2014

Le verità taciute: La violenza antifascista

  L'intrigante/insinuante saggio La verità sull'Ovra, pubblicato nel 1946 dallo storico Antonio Trizzino (1899 - 1973), che per la circostanza usò lo pseudonimo Sicanus, è stato riproposto nel 2005 da Francesco Perfetti, direttore della collana Nuova Storia contemporanea, della casa editrice fiorentina Le lettere.
 Trizzino, che negli anni cinquanta diventerà famoso quale autore di un saggio, Navi e poltrone, in cui furono svelati i tradimenti consumati dagli ammiragli di Supermarina durante il conflitto e quale autore di un documento inteso alla riabilitazione dell'eroico comandante Enzo Grossi, nell'immediato dopoguerra aveva raccolto un ingente quantità di documenti e notizie sulla polizia politica fascista, l'Ovra, e sulle attività degli antifascisti rifugiati in Francia.  
 Trizzino non era giunto alle conclusioni di Franco Bandini, il quale, nel saggio Il cono d'ombra, (edito da Sugarco nel 1990) ha dimostrato che i fratelli Carlo e Nello Rosselli non furono assassinati dai fascisti francesi ma da agenti dell'internazionale comunista.
 Il testo di Trizzino contiene e propone tuttavia alcune notizie utili a valutare gli obiettivi non sempre nobili della  strategia antifascista e la sua stretta associazione al più rovente anticlericalismo.
 Al proposito delle aspettative nutrite dagli antifascisti rifugiati a Parigi, Trizzino cita un documento che getta l'ombra del fanatismo bellicoso sui primi resistenti al regime di Mussolini: "un articolo su Bocchino, pubblicato su un giornale antifascista di Parigi nel 1937 e scritto indubbiamente da mano esperta e da mente eletta, in cui si faceva carico al Capo della polizia di aver ovattato il regime fascista, impedendo le sanguinose rappresaglie e le violenze illegali dei fascisti, sicché - diceva l'autore - mancando il martirio autentico, vero, quello di dominio e di coscienza pubblica,veniva a mancare in Italia il lievito, lo sprone, l'occasione per suscitare la ribellione e la rivolta armata".
 Nell'articolo citato da Trizzino un intellettuale azionista, militante nel movimento Giustizia e Libertà espone senza ritegno  i sommi criteri che saranno adottati dai partigiani comunisti: uccidere i fascisti e i loro alleati tedeschi per ottenere reazioni furenti e controproducenti, le sanguinose rappresaglie necessarie a giustificare e rendere popolare l'azione violenta e implacabile dei partigiani antifascisti.
 L'inconfutabile dichiarazione citata da Trizzino e riproposta dall'autorevole Perfetti ha aperto uno spiraglio (finora poco frequentato dagli sguardi degli storici) al legittimo ma imbarazzante e scomodo interesse dei revisionisti e dalla soggiacente curiosità degli osservatori non professionisti, che desiderano sapere a quali supremi princìpi obbedivano i partigiani, i gapisti ad esempio, attivi nell'area estrema e rovente dell'antifascismo.
 Nessuno intende diminuire l'onore festoso che è tributato (per legge) alla resistenza armata contro i fascisti. Tanto meno giustificare gli errori e le colpe dei fascisti. L'inquietante/svelante manifesto citato da Trizzino, ossia il programma tracciato/anticipato nel 1937 dall'anonimo intellettuale, consente tuttavia l'avanzata del sospetto sulla presenza di suggestioni machiavelliche, si è tentati di dire ciniche, insinuate, nell'animo canonicamente limpido degli eroici  resistenti, da direttive forse diffuse da Mosca forse dalla massoneria di conio e di fetore liberale.
 Il libro di Trizzino contiene inoltre una notizia che, ove fosse finalmente conosciuta, potrebbe turbare la curva da cui si leva l'applauso dei cattolici di scuola bolognese alla resistenza antifascista.
 L'autore, infatti, rievoca un curioso, obliquo episodio dell'accanita resistenza al fascismo: l'attentato dinamitardo compiuto nel 1933, nell'androne della basilica di San Pietro.
 Autori dell'impresa terroristica di stampo anticlericale furono gli antifascisti Claudio Cianca, nipote di un illustre rifugiato a Parigi, il futuro deputato comunista Alberto Cianca, e l'anarco-nichilista Leonardo Bucciglioni.
 Quale responsabile dell'attentato dinamitardo, Claudio Cianca fu condannato a 17 anni di reclusione, ma nel settembre del 1943 fuggì dal carcere per unirsi ai partigiani comunisti.
 La definizione dell'attentato alla basilica di San Pietro è scritto con un inchiostro simpatico, che nasconde dietro l'antifascismo l'insaziabile odio dei settari schierati contro la Chiesa cattolica e contro la tradizione italiana.
 La conclusione che si trae dalla datata ma sempre attuale rievocazione di Trizzino è che la resistenza al fascismo fu strettamente associata all'avversione alla Chiesa cattolica, che Mussolini aveva sottratto all'umiliante cattività liberale e massonica.
 La causa di tale odio risiede nella pace sociale instaurata dal regime fascista e approvata dalla gerarchia cattolica, una pace che soffocava il violento anelito ateista di stampo giacobino e liberale.
 Nel Diario della Serva di Dio suor Maria Francesca Foresti si legge che, in visione, Gesù rivelò di aver salvato l'Italia da una rivoluzione comunista nel 1920 [1]. Forse risiede qui la fonte della lettera amichevole indirizzata a Mussolini da San Pio da Pietralcina.
 La disgraziata irruzione del nazismo sulla scena europea, la memoria delle disoneste/sciagurate manovre di Francia e Inghilterra, intese a spingere il governo italiano all'innaturale e infelice alleanza con la Germania nazista, le incomprensibili motivazioni dell'intervento italiano nella seconda guerra mondiale e la conseguente, dolorosa sconfitta, hanno consentito il sollevamento del criminalizzante polverone storiografico e tele-cinematografico, che impedisce di vedere le ragioni e le reali utilità dell'intesa tra Regime fascista e Santa Sede, oltre che la radice profonda, laica e iniziatica, dell'antifascismo.
 Le notizie divulgate da Trizzino e indirettamente confermate da Antonio Socci possono finalmente aiutare gli studiosi e i curiosi di storia contemporanea a comprendere le verità nascoste dietro le rintronanti chiacchiere della scolastica anti-italiana.  

Piero Vassallo



[1]             Cfr.. Antonio Socci, Il segreto di Padre Pio, Rizzoli, Milano 2007, pag. 24.

sabato 29 novembre 2014

LE CADUTE CHE APPAIONO ASCENSIONI (di Piero Nicola)

Le pietose e applaudite seduzioni operate dal piaciuto Bergoglio sono ormai innumerabili; vanno dalle ricalcature delle eresie conciliari (p.e.: ogni coscienza è valida; verità ed errore hanno uguali diritti) alle inammissibili introduzioni di inediti dubbi su dogmi, al favore accordato a nuovi errori (p.e.: il Corpo di Cristo dato in pasto ai perduranti divorziati risposati o ai pubblici sodomiti impenitenti).
  Ultimamente lo si è sentito predicare - coram populo, ovvero Urbi et Orbi, data la diffusione dei mezzi informativi - che per il Paradiso “più che di un luogo, si tratta di uno stato dell’anima, in cui le nostre attese più profonde saranno compiute e il nostro essere creature e figli di Dio giungerà a piena maturazione”.
  Se aveva avuto una rivelazione privata era tenuto a dirlo, perché così ha soltanto affermato una sua fantasia, dal momento che nessun Padre della Chiesa, nessun Santo teologo o teologo senza aureola o serio esegeta, aveva mai stabilito che il Paradiso fosse piuttosto “uno stato dell’anima”.
  La sua idea non può passarla liscia: è rivelato, lo si trova nel Credo, che proprio in Paradiso, e non in un posto indeterminato, la felicità degli eletti consiste nel vedere, amare e possedere per sempre Dio, e che, dopo la risurrezione della carne, gli uomini, nella pienezza di loro natura, cioè in anima e corpo, saranno felici. - Le differenze di concetto sono quindi notevoli.
  L’Enciclopedia cattolica definisce il Paradiso “luogo della beatitudine in cielo, sede gloriosa e splendente di Dio, ove i giusti godranno la felicità eterna (Lc. 23, 43; II Cor. 12, 4; Apoc. 2, 7); vi parteciperanno, in premio, al gaudio e al regno divino (Mt. 25, 21. 23, 24; II Tim. 4, 8).
  Circa le “attese più profonde” egli prosegue con le invenzioni. La beatitudine del pieno godimento di Dio è affatto trascendente, come Egli lo è. Tutti i santi che hanno avuto la grazia straordinaria di provare il folgorante Amore dichiarano che è indescrivibile e inconcepibile Perciò è escluso che esso costituisca la mira di una nostra “attesa profonda”, destinata ad avere soddisfazione in Paradiso.
  Tale idea contribuisce a quella di creatura che “giungerà a piena maturazione”. Compimento questo, affermato ereticamente, perché presuppone una continuità tra l’essere umano naturale e l’eletto in Grazia di Dio, presume un principio innato di divinità, cioè qualcosa di più d’una disposizione a partecipare dell’Essere divino. L’uomo, anche il vero figlio di Dio adottivo, non giunge affatto “a piena maturazione” con un principio della Grazia che abbia in sé; per il semplice fatto che non può averlo essendo creatura. Questa eresia non è nuova, venne ripresa da De Lubac e da lui e da altri recata nel Concilio Vaticano II.
  Gettata la pietra, Bergoglio cerca di nascondere la mano, secondo l’uso modernista. Dice:
  “Saremo finalmente rivestiti della gioia della pace e dell’amore di Dio in modo completo, senza più alcun limite”.
  Se quel “rivestiti” può disturbare un tantino la compiaciuta logica, la mente guasta d’orgoglio dell’uditorio affezionato, ciò che prima ha sentito rimane. Ad ogni modo, il maestro subito prende l’aire verso una favola molto cattivante:
  “È bello pensare che tutti ci ritroveremo in Cielo. Tutti! È bello e rafforza l’anima” aggiunge spudoratamente.
  No, non esagero col biasimo. Quel “tutti” comporta che, anche soltanto sulla piazza, non ci sia chi debba dubitare della propria salvezza, quando è di fede che persino ai santi incomba il dovere di nutrire un simile dubbio, come difatti essi attestano che debba essere.
  Ma che pastore di pastori sarebbe mai questo il quale ignora il pericolo che corrono tutte quante le pecorelle peccatrici? Egli dev’essere eretico o pazzo per condursi così impietosamente! Pazzo che, dimentico del catechismo, subisce la ormai vecchia suggestione insinuata da chi predicava che probabilmente l’inferno è vuoto? - Ma non sorge un fesso che rigetti l’uscito dal solco!
  “Tutto il Creato sarà liberato ed entrerà nella gloria dei figli di Dio” egli sostiene, e rincara la dose:
  “La Sacra Scrittura ci insegna che il compimento di questo disegno meraviglioso non può non interessare anche tutto ciò che ci circonda e che è uscito dal pensiero e dal cuore di Dio. L’Apostolo Paolo lo afferma in modo esplicito, quando dice che anche la stessa Creazione, tutto il Creato, sarà liberato dalla schiavitù della corruzione per entrare nella libertà e nella gloria dei figli di Dio”.
  Egli getta in pasto alla moltitudine uno di passi delicati del Nuovo Testamento, su cui si sono esercitati fior di teologici. Per giunta non cita con esattezza, ma propone una parafrasi tendenziosa.
  L’Apostolo scrive:
  “Questo mondo creato sta spiando ed aspetta la manifestazione dei figli di Dio. Perché il mondo creato è stato assoggettato alla vanità non per suo volere, ma di colui che lo ha assoggettato con speranza che anche il mondo creato sarà reso libero dalla servitù della corruzione alla libertà della gloria dei figli di Dio. Dunque sappiamo che tutte insieme le creature sospirano e sono nei dolori del parto sino ad ora. E non solo esse, ma noi pure che abbiamo le primizie dello Spirito, anche noi sospiriamo dentro di noi, aspettando l’adozione dei figli di Dio, la redenzione del nostro corpo. Perché in speranza siamo stati salvati. Ma la speranza che ora si vede non è speranza, perché come sperare ciò che uno vede? Se quello che non vediamo, lo speriamo, lo aspettiamo mediante la pazienza” (Rm. 8, 19-25).
  La rigenerazione del mondo al momento della risurrezione dei corpi umani e del Giudizio Universale si ripete in altri passi della Scrittura (vedi II Pt. 3, 13). Gli esegeti attendibili commentano che tale eterna liberazione dalla morte ottenuta all’universo si deve alla gloria dei beati, sta in armonia con la loro eterna e gloriosa risurrezione, non ha niente a che vedere con una sorta di Paradiso Terrestre da rivivere e tanto meno con una fase di mondo riscattato, in senso millenaristico.
  È fuorviante tirar fuori che “il Creato” entrando “nella gloria dei figli di Dio”, “il compimento di questo disegno meraviglioso non può non interessare anche tutto ciò che ci circonda e che è uscito dal pensiero e dal cuore di Dio”, perché lascia intendere che ciò dovrà avvenire indipendentemente dalla umana giustificazione, dalla Redenzione, dalla Grazia largita soltanto all’uomo.
  Infatti, i commentatori giornalistici hanno potuto dedurre che altresì tutti gli animali (sprovvisti di anima immortale) riavranno il corpo per una vita eterna e per riabitare con noi!


Piero Nicola

FISICA SCHIZOFRENICA - III : DIFESA DI NEWTON DA CRITICHE INFONDATE (di Paolo Pasqualucci)

1.  Quadrati dei tempi e delle distanze.  Ma perché l’accelerazione del corpo in orbita attorno al sole avviene secondo l’inverso del quadrato della distanza?  Questa formulazione appare ostica  e difficilmente rappresentabile.  Galileo enunciò il concetto di “quadrato dei tempi”, Newton quello di “quadrato delle distanze” ed anzi del loro “inverso”.  Il ricorso al concetto del “quadrato” non è affatto frutto di un arcano, non deriva da filosofemi platonizzanti o gnostici:  esso risulta da calcoli precisi.
Galileo scoprì che la caduta libera dei corpi su di un piano inclinato era proporzionale al “quadrato dei tempi”.  Prima ancora, aveva scoperto che “la velocità della libera caduta non dipende dalla massa del corpo che cade”[1].  Ciò significa che i corpi più pesanti cadono praticamente con la stessa velocità dei più leggeri, fatta salva la differenza dovuta alla resistenza dell’aria.  Nel vuoto, la velocità appare del tutto uguale, come si sa dall’esperienza fatta a scuola del tubo di vetro nel quale, creatosi un vuoto pneumatico, si vedono simultaneamente cadere (rovesciandolo) una moneta, un pezzetto di carta, una piuma”[2].
In un secondo momento, Galileo ricercò “la relazione matematica tra il tempo richiesto dalla caduta e la distanza percorsa”[3].  A tal fine, fece ripetutamente scivolare delle sfere su di un piano inclinato di legno, lungo circa 20 piedi (7 metri circa) e largo 25 cm, con in cima una scanalatura che correva per tutta la lunghezza del piano, ricoperta di pergamena il più possibile levigata.  Il piano somigliava ad un triangolo solido poggiato sul terreno, come certi strumenti da cantiere.  Nella scanalatura, marcata ad intervalli regolari da archetti con appeso un campanellino che segnalava il passaggio del mobile, venivano fatte scorrere delle sfere di bronzo.  Per misurare gli intervalli di tempo, Galileo si costruì un orologio ad acqua, con un rubinetto.  In tal modo, “poteva misurare gli intervalli di tempo con il pesare le quantità d’acqua che usciva [a gocce] dal rubinetto a differenti intervalli.  Così registrava la posizione successiva degli oggetti che rotolavano giù per il piano inclinato a intervalli regolari”[4].
I risultati dell’esperimento furono verificati e comprovati dagli scienziati del nostro tempo.  Se si usa uno strumento moderno come un metronomo, spiega Gamow, e si segna la posizione della sfera lanciata in discesa nella scanalatura dello scivolo per i primi quattro secondi, si vedrà che “distanze successive percorse dalla cima del piano inclinato saranno state rispettivamente di 0.53, 2.14, 4.82 e 13.0 pollici [1 pollice = 2, 54 cm].  Noteremo, allora, così come ha fatto Galileo, che le distanze alla fine del secondo, terzo, quarto secondo sono rispettivamente 4, 9, 16, 25 volte la distanza che si riscontra alla fine del primo secondo”.  Quali le conclusioni, allora, per ciò che riguarda i tempi?  “Si ha la prova che la velocità dei corpi in caduta libera aumenta in modo da far apparire questa legge:  le distanze percorse da un oggetto in movimento aumentano secondo il quadrato del tempo del viaggio.  (Infatti:  4= 2²; 9 = 3²; 16 = 4²; 25 = 5²)”[5].
Il “quadrato dei tempi” è dunque nozione matematica che indica una caratteristica effettiva del moto accelerato in relazione al tempo o meglio al modo nel quale l’accelerazione procede temporalmente nello spazio:  procede secondo una proporzione il cui significato si esprime nel “quadrato” di un numero.  “Usando i dati ottenuti con esperimenti sui piani inclinati, si è trovato che l’accelerazione dei corpi in caduta libera è di 386,2 pollici, corrispondenti a 981 cm/s²”[6].  La nozione di “quadrato dei tempi” apparve pertanto quando si cominciò a studiare l’accelerazione; essa è il risultato di un calcolo ricavato da ripetute misurazioni su oggetti in movimento e dipende evidentemente dalla forza di gravità, che agisce sul mobile.

2. La legge del quadrato nel calcolo della forza di gravità.   Nello studiare la forza di gravitazione che tiene legata la terra alla luna, Newton applicava la nozione di moto accelerato, costituito per l’appunto dal moto accelerato che attrae la luna verso la terra, senza mai venire a cadervi per via dell’inerzia inerente al moto stesso.  Ora, continua Gamow, “la luna impiega 27 giorni e 3 ore per una rivoluzione completa attorno alla terra”.  Combinando questo valore con la distanza R tra la terra e la luna, che è di 384.400 km (0,3844 · 10¹ cm, come scrivono i Fisici), Newton “ottenne per l’accelerazione della luna verso la terra il valore di 0,27 cm/s²”.  L’espressione s²  contiene la nozione di “quadrato dei tempi”, caratteristica del moto accelerato.  A questo punto, Newton si accorse che questo valore risultava essere “3640 volte più piccolo dell’accelerazione di 981 cm/s² riscontrabile sulla superficie della terra”.  Da ciò si deduceva con assoluta chiarezza che “la forza di gravità decresce con la distanza dalla terra”.  Ma in base a quale criterio?  Qual era la legge che “regolava questo decrescere”?  Come scoprirla?  Con un semplice calcolo.  “La mela che cade dall’albero si trova alla distanza di 6371 km dal centro della terra”.  È la misura del raggio terrestre, una volta calcolato il diametro terrestre in 12.742 km.  “La luna si trova a 384.400 km dal detto centro, ossia 60,1 volte più lontana” rispetto al frutto o a qualsiasi altra cosa cada per effetto della gravità sulla superficie del nostro pianeta.  “Mettendo a confronto le due proporzioni 3640 e 60,1, Newton notò che la prima è con quasi assoluta precisione il quadrato della seconda.  Ciò significa conclude Gamow – che la legge di gravità è molto semplice:  la forza di attrazione decresce secondo l’inverso del quadrato della distanza”[7]. E come aumenterà?  In modo  “proporzionale alla forza [attrattiva impressa al corpo] e inversamente proporzionale alla massa del corpo” poiché, come si è già detto, occorre il doppio dello sforzo per ottenere la medesima velocità in un corpo che abbia massa doppia di un altro[8].
Riflettendo su questi dati, confermati da tanti calcoli successivi, si comprende per qual motivo Galileo e Newton ritenessero la natura creata da Dio secondo  proporzioni matematiche, che lo scienziato aveva ora il compito di scoprire.  Sappiamo che anche per Platone il demiurgo creatore del mondo si era comportato da “geometra”.  Ma nel loro caso non si trattava di “platonismo”.  Il loro interesse per Platone o per l’astrologia non deve trarre in inganno.  Galileo e Newton verificavano le loro osservazioni ed ipotesi sulla base di esperimenti e misurazioni empiriche, non di idee innate. 

3.  La legge della gravitazione non vale per tutto l’universo?  La legge della gravitazione, inizialmente studiata da Newton nel caso dell’attrazione tra la terra e la luna, fu poi da lui estesa al nostro sistema solare e all’intero universo. Venne applicata con successo al moto di stelle e galassie[9].  Attualmente, tuttavia, anch’essa risente della crisi generale della fisica poiché non riesce a spiegare la forza di gravitazione che si manifesta in certe lontanissime galassie a spirale, che si attraggono con una velocità che appare troppo lenta in relazione alla formula newtoniana.  Pertanto qualcuno (il fisico israeliano Mordecai Milgrom) ha avanzato già trent’anni fa la rivoluzionaria proposta di modificarla nel senso di ammettere che l’attrazione intergalattica in questione avvenga non secondo l’inverso del quadrato della distanza ma secondo la distanza semplice (Modified Newtonian Dynamics o MOND).  La maggioranza degli astronomi, terrorizzati da quest’ipotesi, che butterebbe per aria tutti i calcoli fatti finora, ritiene però che il rallentamento dell’attrazione sia dovuto alla presenza nel cosmo di una materia invisibile (dark matter), invisibile o “oscura” perché non fa passare la luce né la riflette.  L’esistenza di tale “materia” è però, al momento, pura ipotesi.  Provarla costituisce uno degli ardui problemi con i quali deve confrontarsi la fisica attuale[10].
Le leggi della fisica, ancorché confermate dal calcolo e dall’esperimento, sono pur sempre un prodotto della ragione umana nel suo sforzo di cogliere la realtà nella sua natura obiettiva, in sé e per sé.  Esse possono dunque esser “falsificate”, secondo la celebre espressione di Karl Popper, ossia se ne può dimostrare l’insufficienza, in tutto o in parte, a favore di una legge nuova e migliore, capace di spiegare meglio il comportamento della natura.  Il fatto che la legge di gravitazione newtoniana trovi oggi difficoltà ad esser applicata a certi fenomeni galattici, di non facile interpretazione, non significa naturalmente che essa debba considerarsi sbagliata o già superata. La discussione è apertissima.  Al momento siamo nel campo delle ipotesi e delle teorie più disparate. 
Newton non aveva dunque “immaginato” solamente la forza di gravità, aveva verificato la sua ipotesi con accurati calcoli.  Ma perché, come scrive il prof. Rovatti, “si era cautamente guardato dall’azzardare ipotesi”  sul fatto che “non ci fosse niente in mezzo” tra i corpi sui quali si esercitava la forza di gravità?  Anche quest’osservazione dell’Autore sembra una critica, per il modo nel quale è formulata.  Critica, a mio modo di vedere, ingiustificata.  Vediamo perché.

4.  L’azione della forza di gravità non ha bisogno di un “mezzo”.  Newton aveva difficoltà ad accettare l’idea che “non ci fosse niente in mezzo” ai corpi, ad esempio una sostanza eterea tale da permettere il trasmettersi della luce e l’azione della forza di gravità.  Nell’Ottica fa varie ipotesi sull’influenza che l’etere avebbe esercitato sul diffondersi della luce nello spazio.  “La rifrazione della luce non procede dalla diversa densità di questo mezzo etereo nei diversi luoghi, allontanandosi sempre la luce dalle parti più dense del mezzo?”.  E il “mezzo etereo”, dove diventa più denso, “non rifrange i raggi della luce non in un punto, ma piegandoli gradualmente in linee curve?  La graduale condensazione di questo mezzo non si estende a qualche distanza dai corpi e non causa, pertanto, l’inflessione dei raggi di luce, che passano presso i margini dei corpi densi, a qualche distanza dai corpi?”  Continuando nelle sue ipotesi, doveva tuttavia ammettere che non poteva dir nulla di concreto sull’etere:  “E così, se si supponesse che l’Etere (come la nostra aria) può contenere particelle che si sforzano di allontanarsi l’una dall’altra (infatti non so che cosa sia questo Etere), e che le sue particelle sono estremamente più piccole di quelle dell’aria, o anche di quelle della luce…”[11].
Non potendo dimostrarne l’esistenza, doveva ritenere vuoti “i cieli”.  “E contro il riempimento dei cieli con questo mezzo fluido [l’etere], salvo che esso sia estremamente raro, sorge una grossa obiezione dal moto regolare e costante dei pianeti e delle comete, che vanno in tutti i sensi attraverso i cieli.  È manifesto, perciò, che i cieli sono vuoti di ogni sensibile resistenza, e per conseguenza di ogni sensibile materia”[12].  L’esistenza dell’etere la si riteneva necessaria ed indispensabile, ma l’esperienza non la confermava.  Non ci si sarebbe mai riusciti e nel 1905 Einstein poteva dichiarare tranquillamente che l’etere non esisteva.  La cautela di Newton era dunque giustificata allo stesso modo del suo rifiuto di dichiarare la causa della gravitazione, a suo giudizio non riducibile alla sola natura.
Che cos’è infatti l’attrazione?  “In generale assumo, qui, la parola attrazione per significare una qualsiasi tendenza dei corpi ad accostarsi l’uno all’altro; sia che questa tendenza dipenda dall’azione dei corpi per effetto del loro mutuo cercarsi, oppure per effetto di spiriti emessi che li muovono mutuamente, sia che essa abbia origine dall’azione dell’etere, o dell’aria, o di un qualunque mezzo corporeo o incorporeo che spinge in un modo qualsiasi i corpi che vi nuotano dentro l’uno verso l’altro”[13].  Di questa tendenza dei corpi ad andare uno verso l’altro, come si vede, Newton non dà una causa precisa, univoca.  Essa può dipendere o da un’azione dei corpi stessi, o da non precisati “spiriti” o dall’azione di un mezzo.  La causa resta indeterminata e comunque la forza di attrazione non appare inerente alla materia, come ad esempio il principio d’inerzia. E allora, come facciamo a stabilire le leggi della gravitazione universale?  La cosa è possibile, precisa subito dopo Newton, perché egli studia e calcola non la causa della gravitazione ma gli impulsi che muovono i corpi nei loro rapporti di attrazione, intesi da un punto di vista quantitativo,  cioè nei loro nessi e nelle loro proporzioni.  “Nello stesso senso generale assumo la parola impulso, in quanto in questo trattato esamino, come ho spiegato nelle definizioni, non le specie delle forze e le qualità fisiche, ma le quantità e le proporzioni matematiche”[14].
5.  L’azione della forza di gravità è opera di un agente sovrannaturale?  Di contro ai suoi seguaci, che intendevano la gravità come “essenziale ed inerente alla materia”, come se appunto la materia ne fosse la causa, Newton precisa, nella terza delle sue lettere al pastore Richard Bentley, non solo che la gravità non è “innata” nella materia ma anche che l’agente che la provoca può (e forse deve) ritenersi immateriale.  Ecco in riassunto il celebre testo:
“[per me] è inconcepibile che l’inanimata, bruta materia, senza la mediazione di qualcos’altro che non sia materiale, operasse e influisse su un’altra materia senza reciproco contatto, come dovrebbe essere se la gravitazione, nel senso di Epicuro, fosse essenziale ed inerente ad essa”.  Se la gravitazione fosse inerente alla materia, per operare su di un’altra materia dovrebbe entrare in contatto con essa.  Poiché questo non avviene, bisogna supporre “la mediazione di qualcos’altro che non sia materiale”.   Cioè di un agente diverso dalla materia.  Una mediazione occorre perché, ribadisce Newton, “che la gravità debba essere innata, inerente ed essenziale alla materia, cosicché un corpo possa agire su un altro a distanza attraverso un vacuum, senza la mediazione di nient’altro mediante e attraverso la cui azione e forza può essere trasmessa dall’uno all’altro, è per me una tale assurdità che ritengo che chi possiede una competente facoltà di pensiero nelle discipline filosofiche non possa mai cadervi”.  L’azione a distanza della gravità nel vuoto esiste e non può esser messa in dubbio:  sarebbe però assurdo attribuirla al “corpo” come sua causa, quale manifestazione di una sua innata qualità.  Il “corpo” non può essere capace di tanto.  Pertanto:  “la gravità deve essere causata da un agente che agisce costantemente in accordo a determinate leggi, ma ho lasciato al giudizio dei miei lettori di stabilire se questo agente sia materiale o immateriale”[15].
Quest’azione a distanza è costante, senza soluzione di continuità. Newton non usa il termine “istantanea” ma l’istantaneità le è inerente, deriva dal concetto stesso (fecero notare i newtoniani), come si ricava dai teoremi dimostrati dallo stesso Newton, nel Primo Libro dei Principi, sezione II, proposizione I, teorema I; proposizione II, teorema II.  “Newton dimostra poi che se un corpo, muoventesi con moto inerziale, riceve a intervalli regolari un breve impulso (ossia se su esso agisce periodicamente una forza istantanea), e tutti questi impulsi sono diretti verso lo stesso punto S [il Sole], allora si muove, in ognuno degli intervalli di tempo uguali fra due impulsi successivi, in modo che la linea che lo congiunge con S spazzi aree uguali”[16].
Al di là delle dimostrazioni matematiche, che per noi uomini della strada restano sempre difficili, anche quando se ne comprende il concetto, l’istantaneità dell’azione della forza di gravità, in quanto “azione a distanza”, sembra giustificarsi sulla base di questa semplice osservazione.  La luce ci mette 8 minuti e 19 secondi a raggiungere la terra dal sole.  Dobbiamo pensare che la forza che attrae la terra verso il sole ci metta anch’essa lo stesso tempo della luce o un tempo superiore, dato che, secondo i Fisici, non ci può essere in natura una velocità superiore a quella della luce?  Ma in quell’intervallo di 8 minuti e 19 secondi o maggiore, cosa sarebbe successo della terra, non sarebbe sprofondata nell’abisso?  Voglio dire, con questo, che, nella formazione del sistema orbitale terra-sole, la forza di gravità che lo tiene insieme deve esserci stata da subito, sin dall’inizio, istantaneamente al suo formarsi, non dopo un intervallo iniziale di 8 e passa minuti.
Newton fu messo alla gogna per questo suo riferimento ad un “agente immateriale” quale possibile causa della forza di gravità, inspiegabile in termini scientifici.  Non si sconfinava dalla fisica nella “teologia”?  Newton, possiamo dire, lasciò in eredità ai Fisici “l’azione a distanza” come problema.  Per due aspetti:  perché si effettuava in uno spazio vuoto, cosa difficile da accettare; perché operava istantaneamente, idea addirittura insopportabile.  Leibniz si opponeva alla concezione dello spazio di Newton e alla sua forza di gravità perché gli sembrava richiamare in vita le affabulazioni alchemiche sulle qualità occulte della materia, capaci di produrre effetti come per magia, in modo incomprensibile alla ragione.  Einstein, da canto suo, trovava l’idea di una “azione a distanza istantanea” del tutto irrazionale:  “…secondo la legge di Newton, la forza di attrazione tra due corpi dipende soltanto dalla distanza; il tempo non conta.  La forza dovrebbe dunque passare da un corpo all’altro, nel tempo zero [cioè istantaneamente]! Ma un movimento qualsiasi con velocità infinita [ossia istantaneo] non è razionalmente concepibile”[17].  Non lo è per l’uomo, ma per Dio onnipotente?  Einstein elaborò, con la sua teoria della relatività generale, una teoria della gravitazione interpretabile in termini di azione a contatto provocata dalla “curvatura dello spazio-tempo”, il cui presupposto, come sappiamo, è costituito dall’idea che lo spazio sia ovunque un continuum “curvo” in conseguenza della densità della materia e dell’energia che lo occupano;  presupposto dimostratosi infondato perché su scala subatomica le particelle di energia saettano in uno spazio euclideo mentre, su scala cosmica, la luce continua a viaggiare in linea retta nel vuoto cosmico, più che mai euclideo ossia flat.  Ad un secolo di distanza della teoria della relatività generale (1915), possiamo dunque dire che il rinvio newtoniano alla Causa Prima quale possibile causa diretta della gravitazione si pone in modo più attuale che mai.  I Fisici non riescono ad includere la forza di gravità nelle loro equazioni, ossia nelle teorie che cercano di includere anche la forza di gravità nel cosiddetto Modello Standard, che dovrebbe comprendere in modo unitario le quattro forze fondamentali della natura: la forza di gravità, l’elettromagnetismo, la forza di interazione forte (che tien saldo il nucleo atomico), la forza debole, responsabile del decadimento radioattivo.  Di fronte a questo fallimento, è più che mai legittimo indagare se l’esistenza scientificamente inspiegabile della forza di gravità non possa costituire un’ulteriore prova dell’esistenza di Dio, la sesta, accanto alle cinque tradizionali.

Paolo Pasqualucci


Prima parte

Seconda parte





[1] G. GAMOW, Gravity (1961), ristampa BN Publishing 2010, pp. 23-24.  Si tratta di lezioni del famoso fisico teorico George Gamow (scomparso nel 1968) per un pubblico più vasto, con in appendice un articolo, intitolato anch’esso Gravity, apparso su ‘Scientific American’ nel marzo del 1961.
[2] Op. cit., pp. 24-25.  L’esperienza fu ripetuta con lo stesso risultato sulla superficie lunare, priva di atmosfera, dall’astronauta statunitense Armstrong, che, in diretta TV interplanetaria, vi lasciò cadere un martello e una penna di falco.
[3] Op. cit., p. 25.
[4] Op. cit., p. 26.  Ho integrato la succinta descrizione di Gamow con G. Johnson, The Ten Most Beautiful Experiments, Vintage Books, London, 2008, pp. 3-16, che offre un’accurata descrizione dell’esperimento, risalente al periodo patavino di Galileo.  I brogliacci dell’anno 1604, con gli appunti di mano di Galileo di 104 misurazioni sul piano inclinato, sono stati decifrati nel 1972 e pubblicati nel 1978 dallo storico della scienza Drake Stillman (ID., Galileo at work.  His Scientific Biography, Chicago, University of Chicago Press, 1978).  Vedi anche: G. GALILEI, Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo, a cura di L. Sosio, Einaudi, Torino, 1970, p. 269.
[5] Gamow, op. cit., p. 27. 
[6] Op. cit., p. 33.
[7] Gamow, op. cit., pp. 42-43, per tutta la ricostruzione del calcolo di Newton.  Corsivo nell’originale.
[8] Op.cit., ivi.  Per il testo di Newton:  Principi, III, proposizione IV, Teorema IV, tr. it. cit., pp. 619-623.
[9] R. Feynman, The Theory of Gravitation, in ID., Six Easy Pieces, The Fundamentals of Physics explained (1963), with an introduction by P. Davies, Penguin, 1995, pp. 89-113; pp. 101-107.
[10] Sul punto, per una spiegazione dettagliata:  L. Smolin, The Trouble with Physics, Penguin, 2006, pp. 13-16; 204-216.  Si è anche costretti ad ipotizzare l’esistenza di una “energia oscura”.
[11] I. Newton, Ottica o trattato sulle riflessioni, rifrazioni, inflessioni e sui colori della luce, basata sulla quarta edizione, Londra 1730, in: I. Newton, Scritti di ottica, tr. it. e introduzione di A. Pala, UTET, Torino, 1978, pp. 299-605;  pp. 561-563 (si tratta delle Questioni 19,20,21).
[12] I. Newton, op. cit., pp. 572-573 (Questione 28).
[13] I. Newton, Principi matematici della filosofia naturale, tr. it., introduzione e note di A. Pala, UTET, Torino, 1977,  p. 339.
[14] Op.cit., ivi.  Sul problema della “causa” dell’attrazione in Newton vedi anche:  A. Koyré, op. cit., pp. 136-145, sul quale mi sono in parte basato.
[15] Il testo della terza lettera a Richard Bentley è citato da A. Koyré, op. cit., p. 137.
[16] I.B. Cohen, La nascita di una nuova fisicaCopernico, Galileo, Keplero, Newton, tr. it. G. Borella, il Saggiatore, Milano, 1974, p. 190.  Vedi inoltre:  I. Newton, Principi, tr. it., pp. 155-159.
[17] A. Einstein e L. Infeld, L’evoluzione della fisica. Sviluppo delle idee dai concetti iniziali alla relatività ai quanti (1938), tr. it. A. Graziadei, prefazione di C. Castagnoli, Boringhieri, Torino, 1965, p. 162.

venerdì 28 novembre 2014

Novità: RAGIONE E FEDE di Piero Vassallo (Edizioni Solfanelli)



     Per diventare leggibile dagli allarmati spettatori della presente crisi spirituale e civile, la definizione del pensiero postmoderno deve essere aggiornata ossia tener conto dell'evidente derivazione del tenebroso pessimismo d'oggi dall'illuminato ottimismo di ieri.
     Incombe infatti il rischio che una critica anodina al catastrofismo imperante nelle leggi abortiste, eutanasiste ed omofile, suggerisca al clero cattolico di cercare sostegno nelle idee del mondo moderno e perciò impedisca di vedere la discendenza del regressismo thanatofilo dal progressismo dei filosofi illuminati, che hanno perfezionato l'eresia di Lutero e di Enrico VIII.
     L'ostinazione con cui i teologi modernizzanti proclamano e incensano le immaginarie ragioni del dialogo con gli eredi dell'errore luterano e anglicano e con i continuatori delle spente ideologie, testimonia la gravità del danno causato al pensiero cattolico dall'inavvertenza della continuità dell'errore moderno nel nichilismo oggi trionfante.
     In realtà, il nichilismo dei postmoderni, non è l'abiura ma la puntuale e fedele continuazione dagli errori in uscita dalle sette protestanti, dagli abbacinati circoli anglo-francese e dalle imparruccate accademie germaniche.


Piero Vassallo
RAGIONE E FEDE
dopo le mitologie intorno al progresso
Edizioni Solfanelli
[ISBN-978-88-7497-871-7]
Pagg. 208 - € 15,00

http://www.edizionisolfanelli.it/ragioneefede.htm

giovedì 27 novembre 2014

GIORNALISMO CHE INGANNA, BORGHESEMENTE (di Piero Nicola)

Su Il Giornale colpisce un articolo del Vicedirettore Giuseppe De Bellis, esperto di politica statunitense. Ecco il titolo: L’America vola. Ma Obama il comunicatore non sa dirlo.
  È un’intestazione che ricorda il tono degli scomparsi giornali della sera, per loro natura e per conseguire una discreta vendita, costretti a farsi sbandierare dagli strilloni con annunci sensazionali, cui corrispondevano contenuti forzati e infine insulsi. Quindi l’esordio dell’opinionista d’alto incarico redazionale non fa molto onore a lui, né alla testata. Transeat.
  L’ottica del De Bellis poggia su alcuni dati di fatto. Da “cinque anni” gli USA possono vantare una crescita del pil e una diminuzione dei disoccupati. Gli americani vivono una felice crescita paragonabile a quella del 1933, da allora ben di rado replicata. Ma l’artefice Barack, che pure aveva promesso il risanamento economico-sociale e su di esso si era giocato il prestigio, non ha saputo raccogliere il frutto dell’“economia sana” procurata, mostrando la sua opera al mondo e al popolo, che gli ha tolto il consenso.
  Guarda caso, il risorgere della prosperità, avvenuto “cinque anni” addietro, coincide con lo scoppio di quel badiale scandalo delle obbligazioni fasulle, con cui Wall Street inondò le banche del pianeta.
  “Obama aveva puntato sulla ripresa economica: ottenuta con successo” leggiamo. Gli errori sono stati commessi altrove. “Perfino l’amministrazione di Washington pare essersi convinta che la gloria andava conquistata su altro: gli esteri, le guerre da chiudere (per finta), il confronto globale con la Russia […] L’America cresceva e cresce e Obama crollava e crolla. Poteva essere immaginabile il contrario, ma questo no. Ed è sintomo di un naufragio”.
  Qui ti voglio! Il “naufragio”!
  Intanto, su quali ali vola la Terra degli yankee? Su quale tappeto volante gode la moltitudine da Costa a Costa dei due Oceani?
  La prosperità statunitense si innalza sul pallone gonfiato della massa di dollari stampati senza sosta. Un espediente che gli esperti dicono non possa durare ancora a lungo.
  Secondo poi, laggiù ci si è dati a distillare enormi quantità di asfalti. Il che assicura l’autosufficienza dei prodotti petroliferi. Le compagnie hanno abbassato il prezzo del greggio mettendo in crisi i profitti delle estrazioni russe; per cui Putin reagisce investendo i ricavi nell’oro, onde far diminuire il potere di acquisto del dollaro… Ma entriamo nel complicato, e questa diventa un’altra storia.
  Quanto al popolo americano, sarà pure aumentata l’occupazione, ma la massa deve continuare a vivere dei famosi sogni d’Oltre Oceano: libertà di dire e di manifestare, diritto alla felicità, chiunque candidato a un posto di mitomane, alla ricchezza, ad alloggiare nella Casa Bianca. Tutto questo, invece, resta appannaggio di pochi e sempre gli stessi.
  Sicché si scioglie il nodo di quel nebbioso “sintomo di un naufragio”. Non c’è nulla di strano, di inspiegabile, niente a che fare con l’ingratitudine o con l’incomprensione. Se anche il comunicatore Barack avesse rinverdito le sue virtù mediatiche rendendo manifesti i vantaggi procacciati, non avrebbe potuto risollevare la moltitudine, nonostante tutto, delusa e impantanata nella miseria peggiore: quella morale.


Piero Nicola

La religione di Baudelaire: L'insurrezione del pio dandy contro la natura

 Il palermitano Francesco Orlando (1934-2010), che fu docente nell'Università di Pisa, è stato uno fra i più autorevoli studiosi e interpreti della letteratura francese. Il saggio su Charles Baudelaire, L'artificio contro la natura nel mondo di Baudelaire, appena uscito, a cura di Luciano Pellegrini, dai torchi di Marco Solfanelli in Chieti,  è un prezioso repertorio di indicazioni e suggerimenti utili ai numerosi ricercatori italiani, che tentano la difficile ricognizione dell'umbratile/baluginante labirinto, in cui si aggirano le suggestive e ambigue indignazioni, baluginanti tra le righe chic, incise dai presunti ispiratori della sana rivolta contro il mondo moderno.
 Sull'incerto/equivoco/scivoloso sentiero battuto dal poeta dandy, invece, si ritrovavano gli scrittori contagiati e infiammati dall'avversione mistica contro il creato, contro la legge naturale e contro la storia: Jules Amedée Barbey d'Aurevilly, Honoré de Balzac, Gustave Flaubert. Al loro seguito irromperanno Léon Bloy, Simone Weil, René Guénon, Mircea Eliade. E l'iniziato italiano Julius Evola, un autore la cui biografia tantrica, la cui rovente ideologia e la cui cartella clinica rivelano singolari e insospettate affinità con quelle di Baudelaire.
 Sul raffinato palcoscenico dello chic antimoderno gli autori citati eseguirono  le squisite manfrine della cultura reazionaria, danzante nella mistica penombra emanata da Nicole Malebranche (il Platone dei sonnambuli)  e da Joseph de Maistre (il verniciatore azzurro della massoneria). 
 Nelle pagine di Baudelaire soffia il torrido/incendiario vento dei pensieri atti a sorprendere, affascinare e stupire l'indifeso e incauto militante della destra a trazione passionale: rifiuto di associare civiltà e progresso tecnologico, stima della giustizia implacabile e forcaiola, avversione implacabile all'americanismo, irrisione della crassa borghesia belga, denuncia dell'inumanità del capitalismo, disprezzo della demagogia, odio della metropoli brulicante, universo pietrificato cui Baudelaire oppone un paesaggio onirico. 
 Se non che le passioni civili esibite dall'autore de Les fleurs du mal sono inquinate e sottomesse a una sotterranea religione di stampo dualistico - "ma religion travestie" - una teologia che contempla l'opposizione del principio maschile - incarnato nella pia impassibilità e dal distacco del dandy - al principio femminile - rovesciato "nella natura abominevole che non ha altro merito che di bramare l'appagamento della sua fame, della sua sete e della sua foia".
 Di qui il rovente disprezzo per il creato, l'illusione di avere più fantasia di madre natura e il sogno di ridipingere il mondo: prati rossi, fiumi color oro, alberi blu. Un  fantasticheria che, lo rammenta Orlando, invaderà la mente dei surrealisti e degli astrattisti, Rimbaud, Apollinaire, Mallarmé, Tzara, Lorca. 
 L'avversione al femminile in Baudelaire coabita nondimeno con la nostalgica idolatria della figura materna, oggetto di "una sudditanza infantile a sfondo sensuale e pagano ... che si colora, invece, di cattolicheggiante spiritualità e associa l'amore del Bello a un misticismo sottomesso".
 Alla luce di una ragionevole psicoanalisi, Orlando rivela il Baudelaire libertino, piamente estenuato,  ossia un tradizionalista di anticipato stampo postmoderno, che "si abbandona in estasi davanti a figure femminili ... teneramente materne e confortanti, così che sulle loro ginocchia si potrà reclinare il capo e, ben più di quanto non si goda di un amoroso presente, vagheggiare con delizia un perduto passato".   
 Puntualmente narrato da Orlando, il tradizional-decadentismo di Baudelaire rivela il tarlo crepuscolare che ha estenuato e avvilito la cultura del tradizionalismo francese prima di contagiare e devastare la destra italiana, magica, pornografica e perdente.
 Grazie all'opera di Orlando, risalire alle fonti dei fiori del male consente di vedere infine la causa della malattia mortale che ha avvelenato e spento il partito della destra tradizional/libertina di  Evola , Almirante, Plebe e Fini.
 La destra del dualismo soggiacente/oscillante tra gli uomini sopra le rovine e le rovine sopra gli uomini.

 Il partito, infine, dello scisma metale circolante tra il pio libertinismo di Baudelaire, il sulfureo tantrismo di Evola, il turismo filosofico di Plebe e le avvilenti porcherie consumate nel  talamo plebeo di Perugia.

Piero Vassallo

mercoledì 26 novembre 2014

PUSHER AND ESCORT (di Piero Nicola)

Pusher, escort… perché questa esterofila sostituzione di termini italiani d’uguale significato: spacciatore, prostituta?
  Che si tratti di un mero ricorso alla novità o a vocaboli nuovi perché quelli vecchi sembrano consunti e, scarseggiando gli equivalenti, per rinfrescare o rendere più varia e gradita la prosa, per stimolare e meglio intrattenere il pubblico, qualsiasi spiegazione non riscatta un atto ingiustificato e disprezzabile. Si avvilisce, chi usa i sinonimi inglesi o americani; si avvilisce, almeno nella leggerezza, chi li accoglie; ed è malsano il connesso intento di alleggerire del loro peso le cose più serie, quasi che davvero occorresse sdrammatizzarne la portata.
  Esprime bassezza il dare adito all’attenuamento delle debite definizioni, del significato proprio, di giusto biasimo verso le persone designate, come a proposito di pusher e escort.
  Colei che vende il più intimo della propria carne non è certo degna di mascheramenti e coperture, eccezion fatta per i casi in cui il riguardo o lo stile richiedono l’eufemismo. E quanti sinonimi garbati la nostra lingua ci mette a disposizione!
  Colui il quale si presta al commercio mortifero della droga e svolge l’infame lavoro del fornitore di sostanze tossiche, deve essere designato con la parola tonda e da tutti ben comprensibile nella sua gravità.
  Alla stessa stregua, è riprovevole l’esterofilia che chiama etnico ciò che è straniero e considera ricchezza l’impoverimento causato dall’importazione di culture estranee e da un commercio sprovveduto con esse, così contribuendo all’alienazione del nostro patrimonio più importante, quello tradizionale.
  Che dire del job acts, della spending review? Sono abdicazioni dal trono della nostra lingua, sono un rinnegamento del Bel Paese… dove il sì suona, e sono insieme formule escogitate da gente che si spaccia per aggiornata sul piano cosmopolita mondiale, formule per tirare il popolo su quel piano e metterlo in soggezione facendogli digerire la sostanza dei provvedimenti governativi: leggi sul lavoro posto alla mercé del mercato piratesco e tagli ad eque spese di provvidenza sociale.
  Del medesimo disegno distruttore del tessuto civile e della distillata eredità culturale fanno parte l’aver cambiato zingaro in rom, per dare allo zingaro una dignità prima negata, l’aver introdotto gay, che suona così allegro e felice, al posto di pederasta o sodomita, da sempre sinonimi di individui riprovevoli per bocca della Rivelazione (San Paolo), di Dante (Inferno) e nella mente del comune sentire.
  Si cominciò dalle oneste sostituzioni di domestica al poco gentile serva, di netturbino a spazzino, per passare alla colf (collaboratrice familiare), all’operatore ecologico, dove già si nascondeva l’abuso: una dipendente salariata non è una collaboratrice, un salariato addetto alle pulizie nei luoghi pubblici non acquista, grazie al suo mestiere, una distinzione ecologica.
  Cominciando con lo screditare la debita severità dei preposti alla morale, alla custodia del Sacro Deposito della Fede, all’esegesi dei Padri e della Chiesa, si commise di certo il maggior danno. A ciò tenne dietro l’irridere i custodi dell’italiano, i puristi e i membri autentici dell’Accademia della Crusca. L’imbarbarimento del linguaggio, la decadente miseria delle arti furono paga e connotati della  licenza posta in alto. Ora, lo sbracamento e il malo uso sembrano non aver fine.
  C’è da chiedersi come mai l’aberrante teoria, che vuole ci siano normali inclinazioni sessuali oltre a quelle date da Madre Natura, si chiami del gender anche a casa nostra? Semplice, si dirà, viene dai paesi avanzati, anglosassoni. Certo, nessuno si è sognato di tradurre gender. D’altronde, certe cose è meglio che qui, per adesso, restino un po’ avvolte in una nube esotica e autorevole, una nube compagna di quelle emanate dall’augusto Palazzo di Vetro.
  Poi, i giovani di belle speranze a che mirano? Che diamine! aspirano a uno stage (tirocinio) oppure a conseguire un master (specifico titolo accademico).
  I dizionari non si fanno scrupolo di ospitare, con tutti gli onori, questi lemmi stranieri e i forestierismi. Per esempio, da test (saggio) abbiamo il brutto verbo italianizzato testare (verificare, provare, sperimentare), e da monitor (schermo, schermo di controllo), monitorare (controllare, controllare elettronicamente).
  In italiano occorrono più parole per esprimere certi significati? Perché non ci si è data la pena di  trovare espressioni sintetiche nostre e soltanto nostre, come sapevano fare un D’Annunzio e linguisti immaginifici suoi pari.
  La soggezione alla parlata altrui è una perdita d’indipendenza, è una soggezione culturale, una diminuzione della propria civiltà. - Gli orgogliosi francesi hanno definito il computer ordinateur.


Piero Nicola

martedì 25 novembre 2014

FISICA SCHIZOFRENICA - II : DIFESA DI NEWTON DA CRITICHE INFONDATE (di Paolo Pasqualucci)

Abbiamo visto, nell’intervento precedente, pubblicato domenica 16 novembre 2014 in questo blog, che la soluzione del grave impasse nel quale si trova la fisica attuale viene ricercata dagli scienziati  nella verifica sperimentale di una teoria molto complessa, alla quale si sta lavorando da molto tempo:  la “gravità quantistica”[1].  Si tratta di interpretare la forza di gravità alla luce della meccanica quantistica ossia della fisica delle particelle, cosa rivelatasi finora impossibile. Dal punto di vista dell’uomo della strada, si può comunque cercare di comprendere come si sia arrivati alla necessità di coniugare quella meccanica con la forza di gravità.  Ma occorre ritornare a Newton e farsi un’idea dei problemi cui la fisica si trovava di fronte dopo di lui; problemi che Einstein, secondo un’opinione ancora diffusa, avrebbe risolto una volta per tutte.  Come presenta  il prof. Rovatti la contrapposizione tra Newton ed Einstein?

1. Dallo spazio “vuoto” di Newton a quello “pieno” di Einstein. Con la sua legge di gravità, Newton cosa aveva dimostrato?  “Newton aveva cercato di spiegare la ragione per la quale le cose cadono e i pianeti girano.  Aveva immaginato una “forza” che tira tutti i corpi l’uno verso l’altro:  l’aveva chiamata “forza di gravità”.  Come facesse questa forza a tirare cose che stanno lontano l’una dall’altra, senza che ci fosse niente in mezzo, non era dato sapere, e il grande padre della scienza si era cautamente guardato dall’azzardare ipotesi.  Newton aveva anche immaginato che i corpi si muovessero nello spazio, e lo spazio fosse un grande contenitore vuoto, uno scatolone per l’universo.  Un’immensa scaffalatura nella quale corrono diritti gli oggetti, fino a che una forza non li faccia curvare.  Di cosa fosse fatto questo “spazio”, contenitore del mondo, inventato da Newton, neppure questo era dato sapere”[2].
Da questa presentazione (alquanto sintetica) della gravitazione universale scoperta da Newton, si comprende che Newton non era riuscito a spiegare come facesse la forza di gravità “a tirare le cose che stanno lontano l’una dall’altra, senza che ci fosse niente in mezzo”.  E nemmeno perché si dovesse ritenere lo spazio una specie di “grande scatolone vuoto”, che non si riusciva a capire di cosa fosse fatto.
A questi interrogativi, secondo il prof. Rovatti, avrebbe compiutamente risposto Einstein, dopo la scoperta del campo elettromagnetico nella seconda metà dell’Ottocento, dovuta a Faraday e Maxwell. “Il campo è un’entità reale diffusa ovunque, che porta le onde radio, riempie lo spazio, può vibrare e ondulare come la superficie di un lago, e “porta in giro” la forza elettrica.  Einstein era affascinato sin da ragazzo dal campo elettromagnetico […] e presto capisce che anche la gravità, come l’elettricità, deve esser portata da un campo:  deve esistere un “campo gravitazionale”, analogo al “campo elettrico”; e cerca di capire come possa esser fatto questo “campo gravitazionale” e quali equazioni lo possano descrivere.  E qui arriva l’idea straordinaria, il puro genio:  il campo gravitazionale non è diffuso nello spazio:  il campo gravitazionale è lo spazio.  Questa è l’idea della teoria della relatività generale.  Lo “spazio” di Newton, nel quale si muovono le cose, e il “campo gravitazionale”, che porta la forza di gravità, sono la stessa cosa”[3].
Intuizione indubbiamente geniale.  “È una folgorazione.  Una semplificazione impressionante del mondo:  lo spazio non è più qualcosa di diverso dalla materia:  è una delle componenti “materiali” del mondo.  Un’entità che ondula, si flette, s’incurva, si storce.  Non siamo contenuti in un’invisibile scaffalatura rigida:  siamo immersi in un gigantesco mollusco flessibile. Il Sole piega lo spazio intorno a sé e la Terra non gli gira intorno perché tirata da una misteriosa forza, ma perché sta correndo diritta in uno spazio che si inclina.  Come una pallina che rotoli in un imbuto:  non ci sono misteriose “forze” generate dal centro dell’imbuto, è la natura curva delle pareti a far ruotare la pallina.  I pianeti girano intorno al Sole e le cose cadono perché lo spazio si incurva”[4].

2. Le teorie di Einstein si inseriscono in modo originale in una tradizione di pensiero.   Sappiamo, tuttavia, che le particelle subatomiche, i quanti di energia, hanno bisogno di uno spazio piano o euclideo per muoversi, che a loro non serve la supposta curvatura dello spazio[5].  Allora la grande intuizione di Einstein si è rivelata inutile, visto che non può applicarsi al mondo subatomico, il quale, ormai è accertato, costituisce la struttura stessa della materia?  E nemmeno al cosmo, visto che anche su larga scala, ci dice l’astrofisica, la luce viaggia in linea retta e lo spazio appare piano, euclideo[6].  E non è forse vero che finora nessuno è riuscito a dimostrare che il campo elettromagnetico “porti” anche la forza di gravità? Newton ha dimostrato che la forza di gravità agisce istantaneamente a distanza (cioè in t = 0) mentre l’onda del campo elettromagnetico non può superare la velocità della luce:  non potendo agire istantaneamente, come può allora “portare” la forza di gravità? Ma perché Einstein ha sentito il bisogno di fare del campo elettromagnetico un campo gravitazionale curvo?  Sarebbe del tutto errato ritenere le teorie di Einstein sbocciate all’improvviso, in una sorta di deserto, di colpo illuminato dal suo genio di sconosciuto venticinquenne.  Quest’immagine di Einstein fa parte del mito di Einstein.  In realtà, quando apparve negli Annalen der Physik del 1905 il suo famoso articolo che esponeva la teoria della relatività ristretta, egli era già da tempo apprezzato collaboratore della rivista. Il direttore, il grande Heisenberg, lo stimava, pur non conoscendolo ancora di persona. 
L’idea dello “spazio curvo” era già implicita nel modo in cui era inteso il campo elettromagnetico dal suo scopritore, Faraday: composto da “linee di forza” curve, sul tipo delle linee geodetiche.  La curvilineità dello spazio è un portato del concetto di campo elettromagnetico esteso (da Einstein) a tutto lo spazio, in quanto tale.  Altri aspetti della teoria della relatività generale furono anticipati da Lorentz e Poincaré, anche se fu poi Einstein ad operare la sintesi, con le sue personali intuizioni. Inoltre, l’idea che non ci sia distinzione tra lo spazio e la materia che si trova in esso, ovvero che il vuoto (vacuum) non esista, perché lo spazio sarebbe in ogni dove sempre pieno (in termini einsteiniani, avente ovunque una densità maggiore di zero),  risale addirittura ai Presocratici, fu teorizzata a fondo da Aristotele e di nuovo riproposta da Cartesio.  Ad essa si accodarono Spinoza, Leibniz, Kant.  Einstein, che considerava Cartesio un precursore quanto alla sua concezione dello spazio, vi introduce la variante, non da poco, della curvatura costante dello spazio, costituito da “campi” continui di energia e di materia, sfera increata ed illimitata anche se finita, retta da un’immanente razionalità che egli poteva anche chiamare “Dio”, qualche volta, ma (precisò) nel senso di Spinoza (Deus seu Natura, panteismo radicale).  L’immagine del tutto come sfera è comunque ben presente nel pensiero greco.  Per Parmenide il tutto “…è compiuto da ogni parte, simile a massa di ben rotonda sfera, a partire dal centro uguale in ogni parte”[7].
Invece con Newton lo spazio si apre all’infinito, ed è indipendente dalla materia che contiene. Newton si inscrive nella tradizione di pensiero  che concepisce lo spazio come vuoto in sé ed infinito, presente sin da Democrito ed Epicuro (“gli atomi ed il vuoto”).  Secondo la famosa definizione di Newton, “lo spazio assoluto, per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, rimane uguale e immobile”[8].  In questo spazio, spazio del cosmo, assolutamente indipendente dalla materia e dall’energia, si muovevano i corpi celesti, si esercitava la forza di gravità.  Secondo Newton, l’identificazione cartesiana di “estensione” e “corpo” avrebbe reso impossibile il moto stesso dei corpi. Il prof. Rovatti scrive che Newton “aveva immaginato una forza che tira tutti i corpi uno verso l’altro”, in uno spazio da intendersi come un immenso “scatolone vuoto”.  In realtà Newton, che non era un visionario, questa forza l’aveva calcolata, servendosi anche delle dimostrazioni di Galileo.  Forse sarà interessante e fascinoso vedere come aveva fatto, sempre nell’ambito di un’esposizione alla nostra portata.

3.  Inerzia e gravità.  Come agisce la forza di gravità?  La sua famosa anche se difficile formula l’abbiamo tutti studiata a scuola:  “due corpi esercitano una forza reciproca che varia secondo l’inverso del quadrato della distanza tra di loro e in maniera direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse”.  Ciò significa che “un corpo reagisce all’azione di una forza accelerando ossia variando la sua velocità ogni secondo in modo inversamente proporzionale alla sua massa”[9].  Questa definizione presuppone, come sappiamo, il principio d’inerzia, già ben intuìto da Galileo, anche se non ancora come moto rettilineo (“A principiar il moto è ben necessario il movente, ma a continuarlo basta il non aver contrasto”, aveva scritto da giovane, in una lettera; e da vecchio, nell’ultima e più importante  opera, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze:  “Imagino un mobile lanciato su un piano orizzontale e rimosso ogni impedimento:  già sappiamo che il moto si svolgerà equabile [uniforme] e perpetuo sul medesimo piano, qualora questo si estenda all’infinito”[10].  E perché “basta il non aver contrasto”?  Perché il corpo, venuta meno l’azione della forza che lo ha messo in moto, continua nel suo moto rettilineo uniforme?  “Non lo sappiamo, postillava Feynman, è così e basta”[11].
Secondo la concezione aristotelica, il corpo in movimento, una volta venuta meno l’azione del suo motore o movente, avrebbe dovuto fermarsi, se ogni corpo in movimento presuppone l’azione costante di un motore ovvero di qualcuno o qualcosa che ne causa il moto. Per questo il vuoto non poteva esistere, per lo Stagirita, perché la sua presenza avrebbe interrotto l’azione del movente, richiedente il continuum della materia per mantenersi, e reso impossibile il moto.  Questa concezione del moto, deve esser inquadrata nel suo contesto.  Dipendeva in primo luogo dalla cosmologia dello stesso Aristotele, in parte derivata da Platone, fondata sull’idea che la terra fosse una sfera immobile al centro dell’universo, attorno alla quale ruotavano gli astri (sole compreso, della cui effettiva grandezza – centodieci volte più esteso della terra – non si aveva idea) infissi  o immersi nelle sfere celesti.  Se la terra era al centro del cosmo, ogni movimento di traslazione di un corpo doveva esser concepito in relazione a questo centro, rispetto al quale erano da calcolarsi l’alto e il basso, verso i quali andavano i moti rettilinei, distinti per natura da quelli circolari.  Ad ogni corpo doveva poi attribuirsi un movimento naturale, ma si dovevano anche considerare movimenti per costrizione o contro natura.  Il moto doveva poi considerarsi semplice o composto. Il moto circolare era quello del “corpo primo” ossia dell’etere, costituente l’ultima sfera celeste o cielo delle stelle (ritenute) fisse.  Al sopra di questa sfera c’erano gli dèi, al di là dello spazio e del tempo. Al di sotto del corpo primo c’erano le sfere, anch’esse eteree, contenenti i pianeti che però si muovevano di moto composto, cioè di moto semplice (circolare) coniugato con altri movimenti, cosa che (si rilevò fin dall’antichità) rendeva poco chiara l’idea del moto dei pianeti[12].  
Era questo uno dei punti deboli del sistema e quindi della concezione aristotelica del moto.  Sulla complessa concezione del moto di Aristotele e sull’importanza che la sua Fisica ancora conserva per noi, spero di tornare in futuro. 
La moderna scienza del moto nasceva parallelamente alla scoperta del moto della terra attorno al sole: bisognava capire come questo potesse avvenire e ciò comportò una nuova concezione del moto dei corpi, che non poteva più esser inteso in relazione ad una terra immobile al centro dell’universo.  Un ruolo fondamentale lo giocò dunque il principio d’inerzia, che affermava una verità apparentemente contraria alla recta ratio.  Infatti, se il movimento è l’effetto di una causa, finita l’azione della causa, come avrebbe potuto mantenersi da solo il suo effetto?  Ma, oltre che dal moto dei satelliti messi in orbita attorno alla terra, il principio d’inerzia è confermato proprio dalla legge di gravità.  Newton apportò una variante significativa al principio, sostenendo che l’unico modo di di far cambiar direzione al moto di un corpo è quello di impiegare una forza.  In tal modo il principio d’inerzia veniva inserito nella dinamica, scienza che indaga il moto studiando le forze che operano in esso (mentre la cinematica lo indaga prescindendo da queste forze)[13].  Se il corpo accelera, allora la forza è stata applicata nella direzione del moto; se devia dal suo corso, la forza è stata applicata lateralmente.  L’intuizione di Newton era nel senso che “una forza è necessaria per variare la velocità o la direzione del moto di un corpo”. La legge che governa questa forza è appunto quella secondo la quale “l’accelerazione prodotta dalla forza è inversamente proporzionale alla massa” o, detto in altro modo:  “la forza è proporzionale alla massa moltiplicata per l’accelerazione.  Quanto maggior massa possiede un corpo, tanto più grande sarà la forza necessaria a produrre una determinata accelerazione”[14].  Inversamente proporzionale – la forza – alla massa, che è la quantità di materia, non al peso, che Newton definisce come “disposizione centripeta, o propensione verso il centro, di tutto il corpo”[15].
Uno dei risultati più importanti dell’applicazione del principio d’inerzia nella legge di gravità, spiegava Feynman, è che non occorre considerare la presenza di una forza tangenziale per tenere in orbita il pianeta.  Infatti, è l’inerzia del corpo a rappresentare già di per sé il moto tangenziale all’orbita, moto che il corpo (il pianeta) terrebbe se non ci fosse l’attrazione esercitata dalla forza di gravità:  senza di essa il corpo partirebbe per la tangente, come si suol dire.  Ora, la deviazione dalla tangente, rappresentata dal moto (in orbita) effettivamente osservato dal pianeta, “è ad angoli retti rispetto al moto e non in direzione del moto stesso” ossia trasversale al moto.  E questo perché, “la forza necessaria a controllare il moto di un pianeta attorno al sole non è una forza attorno al sole bensì verso il sole”[16].  È una forza che attrae verso il sole, una forza che deve attrarre per vincere la forza d’inerzia del singolo corpo.  La realtà dell’inerzia inerente ad ogni singolo corpo in moto è pertanto dimostrata proprio dall’esistenza della gravità, in quanto risultante di due forze:  quella inerente al corpo (del pianeta) e quella attrattiva esercitata dal sole.  Se non possedesse forza d’inerzia, il pianeta andrebbe dritto contro il sole perché mancherebbe una delle due forze necessarie a produrre la risultante costituita per l’appunto dalla sua orbita attorno al sole.

Paolo Pasqualucci


Prima parte

Terza parte





[1] C. Rovatti, Sette lezioni di fisica, Adelphi, Milano, 2014, p. 48.
[2] Op. cit., p. 16.
[3] Op.cit., pp. 16-17.
[4] Op.cit., pp. 17- 18.
[5] Op.cit., pp. 47-48.  Vedi intervento precedente.
[6] Sul punto, da ultimo:  P. G. Ferreira, La teoria perfetta.  La relatività generale:  un’avventura lunga un secolo, tr. it. C. Capararo e A. Zucchetti, Rizzoli, Milano, 2014, p. 246.
[7] Parmenide, Poema sulla natura.  I frammenti e le testimonianze indirette. Presentazione, traduzione con testo greco a fronte, note di G. Reale, saggio introduttivo e commento filosofico di L. Ruggiu, Rusconi, Milano, 1991, p. 105 (fr. 8, vv.  42-43).
[8] I. Newton, Principi matematici della filosofia naturale, tr. it., introduzione e note di A. Pala, UTET, Torino, 1977, p. 102.  Sul rapporto tra le due contrapposte concezioni dello spazio nell’età moderna, è sempre fondamentale A. Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito (1957), tr. it. di L. Cafiero, Feltrinelli, Milano, 1970.  I capp. 7, 9, 10, 11, sono dedicati a Newton.
[9] R. P. Feynman, The Character of Physical Law (1965), with an Introduction by P. Davies, Penguin, 1992, pp. 14-15.  Vedi inoltre:  Newton, Principi, cit., III, Proposizioni I-IX, tr. it. cit., pp. 616-635.
[10] Citazioni riportate da Alberto Pala in una nota di commento alla newtoniana Definizione III, sul principio d’inerzia:  Newton, Principi, I, Definizione III, tr. it., cit., p. 94.  Qualche anno dopo Galileo, anche Cartesio aveva formulato il principio d’inerzia, in termini formalmente più rigorosi (sempre Pala, op. cit.).
[11] R. P. Feynman, The Theory of Gravitation, in ID., Six Easy Pieces. The Fundamentals of Physics Explained (1965), with an introduction by P. Davies, Penguin, 1995, pp. 89-113; p. 93:  “We do not know, but that is the way it is”.  Richard Feynman, Premio Nobel, spirito acuto e caustico, è stato uno dei padri dell’attuale elettromeccanica quantistica. È scomparso nel 1988.
[12] Per questa sintesi della concezione aristotelica del moto, vedi:  Aristotele, De caelo, con testo greco a fronte, introduzione, testo critico, traduzione e note di O. Longo, Sansoni, Firenze, 1962, le pp. XI-XX dell’introduzione.
[13] R. P. Feynman, op. cit., p. 93, cit.; A. Pala in Newton, Principi, cit., p.94, nota.
[14] R. P. Feynman, op. cit., ivi.
[15] I. Newton, Principi, Definizione VIII, I libro, tr. it. cit., p. 99.  “La forza subíta da un corpo pesante sotto l’influenza della gravità si chiama peso.  Il peso non è una proprietà intrinseca del corpo in questione, come invece è la massa, ma dipende sia dalla massa, sia dal campo gravitazionale in cui il corpo si trova:  ad esempio, il peso di un corpo sulla luna è solo 1/6 del peso che avrebbe sulla superficie della Terra.  Nella pratica quotidiana non si fa nessuna distinzione fra massa e peso, poiché sulla superficie terrestre il campo di gravità è costante, ma trattando argomenti scientifici i due termini non devono esser confusi” (Dal Glossario a cura di U. Tartari in appendice a P. G. Bergmann, Relatività generale e cosmologia.  L’enigma della gravitazione, tr. it. di F. Job, Mondadori, Milano, 1987, p. 207, voce Peso).  
[16] Feynman, op. cit., ivi.