giovedì 30 ottobre 2014

Lo scandaloso squillo delle minorenni e il sordo fruscio della massa immorale

Il dito che nasconde la luna

Lo scandaloso squillo delle minorenni
e il sordo fruscio della massa immorale

 Dove andremo a finire? L'angosciosa domanda corre fra i difensori inconcussi delle adolescenti corrotte da adulti danarosi e depravati. In una nobile e stimabile attività predicatoria sono coinvolti magistrati, agenti di polizia, sociologi, giornalisti e intrattenitori televisivi.
 Se non che il qualunque difensore del buon costume oggi si attiene alla regola che suggerisce di prestare attenzione al particolare squillante e inquietante senza disturbare il disordine generalizzato e garantito dalle istituzioni.
 Il moralista cauto si scandalizza alla vista delle adolescenti abbagliate e attratte dalle vetrine della moda ossia trascinate nel gorgo del consumismo. Il moralista aggiornato vede solo il margine scandaloso di una società vastamente intossicata dall'immoralità esportata dalla vittoriosa America.
 Normale l'ordine occidentale? Spronate dalla sapienza francofortese e californiana, le società europee (Russia esclusa) stanno attuando una rivoluzione epocale: il passaggio (forse sarebbe meglio dire il regresso) dal patriarcato a una imperiosa ginecocrazia a sfondo libertino.
 Sul vessillo della rivoluzione ultima fiammeggiano le parole del nuovo ordine: l'utero è lo strumento del mio potere sul maschio con il quale mi accompagno momentaneamente.
 Una moltitudine di divorziati/impoveriti dal matriarcato, infatti, sta in mesta fila davanti alle cucine della misericordia. Non tutti si rassegnano, purtroppo. Molti (e le cronache narrano le vicende di una tale moltitudine) ritengono che all'umiliante potere femminista sia lecita la risposta armata dalla demenza criminale. All'imperativo della nuova società il maschio umiliato e stordito  risponde con il delirio in cui cova l'infame delitto.
 Quale alternativa lecita o surrogato del delitto, la cultura al potere propone una lodevole scelta opportunistica e in qualche modo calmante: l'obliqua ascesa del maschio al prestigio universalmente riconosciuto al pederasta, contraffatta ma applaudita figura (o controfigura) della  femmina americana trionfante.
 La reazione al maschile si esaurisce nei lampi orrendi del delitto o nell'insolente frastuono del gay pride. Tale è il ritratto reazionario di una società in movimento sfrenato verso il Nulla annunciato dagli scolarchi francofortesi e californiani. 
 Si chiede: una tale società è autorevole e ragionevole ossia indirizzata all'ordine morale, nella misura richiesta dalla delicata attività degli educatori, dei poliziotti e dei giornalisti scandalizzati?
 Mah. Per lo scatto di una morale di nicchia i pedofili sono arrestati e messi in galera. Le bambine squillo sono rieducate da sapienti psicologi.
 Se non che la cultura dominante corre su aperte piste libertine. Il taciuto ma lampante concetto di nicchia rinvia a un'etica marginale. Gridata da Bruno Vespa e tuttavia inchiodata all'angolo.
 Arresti legittimi e sacrosanti pistolotti volano in un cielo che non ha contatto con lo spirito del tempo. Dopo tutto: chi siamo noi per giudicare una meretrice in erba o un pederasta in fuga dall'orribile condizione del maschio represso? Inutilmente Vespa grida nel silenzio clericale.
 La prostituzione minorile, a ben vedere, è la punta di un gigantesco e indisturbato iceberg. Esploratori del mondo giovanile rammentano ai banditori del cagionevole moralismo che all'età di quindici anni vergini sono soltanto le ragazze poco attraenti.
 Alla luce della abbagliante e trionfante filosofia californiana, la verginità è giudicata alla stregua di un'inconfessabile vergogna e/o di una disonorante mutilazione. Si può pensare seriamente che il passaggio dal sesso per onore e/o per gioco al sesso per denaro contempli audaci acrobazie, intrepidi salti e inaudite trasgressioni? Si può credere seriamente che la stimata, romantica attività sessuale svolta senza amore nel frettoloso gabinetto di una scuola media statale, rappresenti una poietica splendente a stellare distanza dalle miserie del coito mercenario, consumato in una privata casa da appuntamenti?  
 Correva il marzo del 1999, quando l'allora cardinale Joseph Ratzinger, nel corso di un'intervista rilasciata a Ignazio Artizzu, ha indicato l'origine tenebrosa del libertinismo: "le avventure passeggere sono più facili di un amore profondo, di una vita. ... in questa vita umana un amore fedele, un vero amore, che va fino alle profondità del nostro essere, esige un impegno profondo, una disciplina interiore, l'umiltà d'impostare la propria vita alla sequela di Dio".
 Terreno di elezione della prostituzione minorile è la satanica religione dell'effimero, il gelido soffio dell'ateismo e del ribellismo squillanti nei cortei sessantottini.
 Il cardinale Ratzinger ha dimostrato che la cultura del disordine "appare in un primo momento come un allargamento del potere, delle esperienze, come una cosa bellissima: io divento come Dio. Ma alla fine la menzogna è sempre una realtà che distrugge. Vivere nella menzogna vuol dire vivere contro la realtà e quindi vivere nell'autodistruzione".    

 Non il vano e squillante pistolotto della sociologia televisiva ma una morale saldamente fondata sulla fede in Dio può costituire un argine al tenebroso malcostume che avvolge le minorenni e i minorenni educati/incantati dalla pedagogia francofortese & californiano. 

Piero Vassallo

martedì 28 ottobre 2014

L'essenza della banalità e il profumo del nichilismo

 Il Dizionario dei luoghi comuni, scritto da Gustave Flaubert negli anni durante i quali stava appassendo la sua fede nei valori democratici e scientifici, è un raffinato modello di stile letterario, che può essere proposto agli aspiranti critici, vogliosi di confutare e mettere alla berlina le banalità trionfanti per influsso delle scuole progressiste.
 Purtroppo l'eleganza satirica non è adatta a penetrare nel retroscena eleusino delle scuole postmoderne. La sciocchezza e la volgarità, infatti, sono profumi che non rivelano la natura della filosofia a monte del nichilismo ma la occultano o la banalizzano.
 Indimenticabile segno dell'inadeguatezza della satira quantunque raffinata sono le curiose contraddizioni di Flaubert, implacabile flagellatore della stupidità e tuttavia non indenne, come ben sanno i lettori di Salambò, dalle grottesche suggestioni erompenti dall'esoterismo.
 Il fatto è che la ridicola sciocchezza rappresenta solo se stessa. Gli sciocchi, il boccaccesco Calandrino o i flaubertiani Bouvard e Pécuchet, testimoniano comicamente la fede nel pensiero magico di giornata, la leggenda della pietra filosofale o il mito dell'evoluzione perpetua.
 Gli sciocchi sono interpreti maldestri di filosofie sgangherate, mal digerite dall'osteria o dalle redazioni dei quotidiani popolari.
 Tuttavia la ridicola ingenuità immunizza gli sciocchi, li rende immuni e impermeabili alle fumose elucubrazioni dei pensatori profondi. La stupidità è strutturalmente futile, mai aggiornata e perciò più incline alla fede nella quisquilia che all'esplorazione delle oscurità filosofali.
 In definitiva: il profumo della volgare e perpetua stupidità non può essere legittimamente associato alla discesa della filosofia nel sottosuolo nichilista.    
 Puntiglioso e accanito critico della volgarità postmoderna, Luigi Iannone, l'autore del saggio Il profumo del nichilismo, appena pubblicato da Marco Solfanelli editore in Chieti, non riesce tuttavia a resistere all'abbaglio, che induce a vedere la figura tenebrosa del nichilismo nei fastidiosi segnali lanciati dalla volgarità, scientificamente organizzata dai profittatori e dagli usurai in azione sulla scena postmoderna.
 Una tale confusione è possibile quando si dimentica che il nichilismo è generato dal delirio filosofico degli autodistruttori e non ha dunque rapporto con la volgare banalità.
 Suggerito dalla sociologia estetizzante, in circolazione incontrollata nell'area neodestra, l'oblio e forse l'ignoranza della storia della metafisica impedisce di vedere la convergenza di nichilismo e pensiero debole nella lucida follia che è intesa alla svalutazione dell'essere e alla devastazione della metafisica.
 Pier Paolo Ottonello ha proposto una perfetta definizione della tracotanza del pensiero antimetafisico: "Il nichilismo come negazione radicale o metafisica è negazione del senso dell'essere e degli enti in quanto fondati nell'assolutezza dell'essere. Nichilismo è dunque l'assoluta negazione di ogni assolutezza".
 Nichilista è la lezione di Leopardi intorno all'invincibile malignità e vanità del tutto. Nichilista è Max Stirner, il quale afferma: "L'unico assoluto sono io stesso che nega ogni assoluto ovvero che si nega ponendosi come assoluta negazione". Nichilista è il giudizio dello spinosiano Friedrich Nietzsche sul mondo che infinitamente rotola su se stesso senza una ragione. Nichilista è la sentenza di Jean Paul Sartre, secondo cui "vivere è far vivere l'assurdo". Nichilista è la definizione heideggeriana dell'uomo pastore del nulla. Nichilista è il fantasma della de-creazione, che affascina Massimo Cacciari lettore gnostico di Simone Weil. 
 Cornelio Fabro ha peraltro dimostrato  che il nichilismo si manifesta nell'inizio della filosofia hegeliana, dove è posta l'uguaglianza dell'essere e del nulla.
 Ora il pensiero nichilista non solleva i profumi apprezzati da Iannone, ma sgradevoli odori d'obitorio. Il lettore che affronta le opere degli interpreti qualificati della deriva nichilista, ossia i roventi critici della moderna stupidità, ad esempio Julius Evola, Emil Cioran, Jacob Taubes, Elemire Zolla, Roberto Calasso, Sergio Quinzio, Massimo Cacciari ecc. avverte l'odore cadaverico della disperazione narcisista non il profumo della audace avanguardia.
 Odori del nichilismo sono i delitti contro la vita e contro la salute mentale: l'aborto, l'eutanasia, l'inversione della sessualità, l'uso di droghe, il fracasso della musica rock.
 Cercare, come fa Iannone, la graffiante firma dell'antimetafisica nelle strategie dei supermercati, nell'uggiosa retorica dei comizi, nella desolazione degli spettacoli d'intrattenimento, nell'ossessionante banalità delle telenovelle, nelle lacrimose storie delle principesse birichine d'Inghilterra e delle sconvolte stelle d'America,  è una fatica estenuante, dalla quale si può ottenere solo un modesto risultato: la dimostrazione che l'incremento degli stati d'animo disperati abbassa il tono della normale stupidità dei qualunque moderni. 
 Lo stile squillante di Iannone, pertanto, è sprecato dalla ricerca vana di bersagli grossi nella foreste di soggetti appartenenti all'infinitamente piccolo, all'effimero e all'insignificante sottobosco.
 Nella parzialità dell'assillo estetico in rivolta contro la sciocchezza, si manifesta la fragilità della cultura neodestra, cultura inquinata dall'evolismo, condannata a procedere a rimorchio della sociologia sinistrorsa e del salottiero moralismo. E si contempla ultimamente l'urgenza di una cultura sostanziata di pensieri atti a ostacolare da destra l'offensiva dei distruttori filosofanti, in guerra da sinistra contro la civiltà cristiana.            

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Sentinelle nelle disperate specole degli opposti e convergenti radicalismi, Walter Benjamin e Julius Evola hanno interpretato simultaneamente/parallelamente la  disfatta della filosofia moderna & l'ostracismo alla rivolta antimoderna.
 Da un sinistra notturna Benjamin ha avviato quella deriva francofortese che ha causato il naufragio dell'ideologia comunista nel salotto della gnosi libertina e pederastica, mentre Evola, da una specola allucinata, ha screditato il cesarismo (la terza via) di Benito Mussolini e aggredito il pensiero cattolico  (Francesco Orestano, Arnaldo Mussolini, Niccolò Giani, Guido Pallotta, Nicola Petruzzellis, Carmelo Ottaviano ecc.) e il neo-idealismo (Giovanni Gentile) indirizzando la cultura di destra verso gli ambigui e improbabili sentieri del nichilismo attivo.  
 Chi si domanda la ragione della concomitante catastrofe in atto sia nel pensiero e nella società dei moderni sia nell'appendice antimoderna della modernità, è costretto a risalire alla guerra contro la religione biblica apertamente dichiarata da Marx, da Freud e ultimamente dai francofortesi-californiani.
 L'ultimo orizzonte del pensiero moderno non è (come alcuni si ostinano a credere) la divina immanenza di hegeliana memoria, non il trionfo della ragione umana divinizzata, ma la gnosi irrazionalista, il delirio distruttivo, che calunnia e maledice l'autore - il demiurgo malvagio - di un mondo che l'allucinazione fa apparire tenebroso, disperato e senza sbocchi.  
 Senza imbarazzo Franco Volpi, nel penetrante saggio sul nichilismo, ha riconosciuto che la rivoluzione e i suoi nemici condividono il rifiuto della teologia tradizionale, rifiuto trovato (da Hegel e da Schelling) nel grembo dello gnosticismo antico.
 Secondo Volpi, l'emblema di tale negazione è il pregiudizio dichiarato da Carl Schmitt: "la nostra situazione è caratterizzata dall'impraticabilità delle risorse tradizionali per fronte alla crisi, ossia dall'impossibilità di ricorrere a istanze prepolitiche".
  Ora la causa della disperazione emergente dagli scritti di Evola & Benjamin, le due drammatiche figure contro-figuranti della modernità, è svelata da Schmitt: "L'escatologia cristiana sul peccato originale e sulla redenzione dell'uomo nell'aldilà si sta rivelando come l'interpretazione perdente della storia universale".
 Per misurare l'effetto sconvolgente prodotto dalla suggestione neognostica nell'area della cultura tradizionalista intitolata a Evola e ai suoi successori (e succedanei) neodestri, è sufficiente leggere il Manifesto antimoderno, scritto da Luigi Iannone, uno fra i più radicali e accaniti interpreti della scuola neodestra, e pubblicato da Rubettino in Soveria Mannelli.
  Nel saggio in questione il richiamo al Novecento italiano è fioco, mentre è alluvionale e decisivo il riferimento ai nichilisti e ai catastrofisti di scuola germanica: Nietzsche, Benjamin, Heidegger, Schmitt, Junger, Spengler.
  Risultato di una tale scelta di campo è l'accoglimento puntuale della tesi già formulata da Schmitt, ossia il rigetto della teologia: "C'è anche da ammettere che le religioni, in specie quella cattolica, hanno perso la loro capacità avvolgente e di integrazione".
 Iannone attribuisce il fallimento delle religioni all'affermazione del concetto, strumento della razionalità come motore della storia, e di conseguenza preconizza l'affondamento del tradizionalismo nel pregiudizio (nicciano ed evoliano) contro la ragione.
 Il pregiudizio contemplante la ragione quale nemica strutturale della verità nega a Iannone la possibilità di vedere il cuore irrazionalista della crisi, che sta tormentando e lacerando il mondo moderno.
 La verità è che nel contraffatto tradizionalismo di Evola si ripete inavvertitamente il corto circuito causato dall'incontro dei sistemi ultra cogitanti di Cartesio e Spinoza con l'irrazionalismo da cui sono scaturiti.
 L'iniziale tentativo evoliano di condurre la ragione moderna agli approdi dell'idealismo assoluto (trans-idealismo, secondo la puntuale definizione di Roberto Melchionda)  ripiega nella cupa e paradossale rappresentazione di tradizionalisti al galoppo sulla tigre del nichilismo francofortese e dadaista, trionfante nei bagliori di un tramonto angoscioso a sinistra.                
 L'esito disastroso del pensiero evoliano può e deve consigliare la revisione e il recupero del Novecento italiano, esempio magnifico di una destra fedele alla vera tradizione.


Piero Vassallo

domenica 26 ottobre 2014

Dispense e autorizzazioni a non credere

Nel 1991 il regista americano Sidney Lumet girò Un'estranea fra noi, coinvolgente e mellifluo film teologico, interpretato con straordinaria bravura da Melanie Griffith ed Eric Thal.
  Lumet usò un'esile storia gialla quale pretesto per mettere in scena e (quasi) risolvere il dilemma che divide in due emisferi la cultura degli ebrei americani: vivere secondo l'antica teologia e perciò sottostare agli estenuanti formalismi della cabala oppure inseguire l'estrema, disinibita allegria moderna, che è profetizzata dall'erotismo felicitario, danzante nei film stucchevoli e zuccherosi prodotti a Hollywood e interpretati da Fred & Ginger gli ispiratori di Fellini? 
 Simbolo dell'oscillazione tra i misteri della cabala e il rampante erotismo cinematografico, il film di Lumet svela le incertezze e le contraddizioni della società ebraica d'oggi, narrando l'amore  tormentato tra una rovente poliziotta newyorchese, che professa l'ideologia disinibita e neopagana dei postmoderni, e un severo rabbino, che dedica il suo tempo allo studio e alla sequela dell'esoterismo cabalista.
 Il finale del film sembra alludere all'irrealizzabilità del compromesso tra i generi culturali in circolazione nel tradizionale e nel moderno (americanizzato) ambiente ebraico.
 Se non che, tra le sottili e intriganti righe dei dialoghi, s'intravedono i segni di una via indirizzata al superamento della discordia tra la religione ebraica e il paganesimo hollywoodiano.
 Ricorrendo alla sottile e quasi sfuggente rappresentazione di allusivi simboli - la danza sacra dei cabalisti e la perpetua danza profana dei desolanti Fred Astaire e Ginger Rogers - entra in scena la insospettata somiglianza tra cabala e Kama Sutra e tra musica sacra e rock and roll.
 In sostanza, Lumet fa intravedere la possibilità di armonizzare e comporre il rigore cabalistico con l'edonismo e la permissività hollywoodiani.
 Il messaggio nascosto nel film, in ultima analisi, propone la continuità della cabala esoterica nella filosofia spicciola professata dai cineasti ebrei (e non ebrei, ovviamente) che nella Mecca del cinema e nelle sue succursali all'estero, lavorano alla propaganda degli strumenti della (pseudo) felicità profana.
 Lumet è lontano dal cattolicesimo e (verosimilmente) ignaro dell'accusa di disertare/mutilare la teologia biblica, che, prima del disgraziato Concilio ecumenico Vaticano II,  i cattolici rivolgevano ai pensatori ebrei in allontanamento dalla fede messianica.
 Ma la sottile/sotterranea rappresentazione cinematografica del dilemma - Gerusalemme o Hollywood? - che agita non pochi ebrei d'America, ripropone (forse senza intenzione) il dogma extra Ecclesiam nulla salus, un classico assioma di quell'apologetica, che fu affievolita e quasi spenta dai teologi ecumenici e heideggeriani (Karl Rahner) e fumettisti (il felliniano Jorge Mario Bergoglio, ad esempio) rampanti nelle agitate sessioni del Vaticano II e nel post-concilio. 
 Quando si osservano le oscure/eterodosse suggestioni - di lontana origine frankista - che agitano la cultura ebraica d'età contemporanea -  la trasformazione marxiana della fuga dal faraone in emancipazione dalla fede monoteista; la drastica contestazione freudiana della religione di Mosé; l'ateologia neognostica di Walter Benjamin, Ernst Bloch e Jacob Taubes; la fumosa estetica di Theodor Adorno, il rigetto della legge naturale da parte di Hans Kelsen e Jurgen Habermas; le estreme trasgressioni lodate e generosamente finanziate da Georg Soros e Bill Gates - il rischio di una caduta della  cultura degli ebrei d'America nel paganesimo ovvero l'incombere di una conversione ai miti danzanti a Hollywood, si rivela tutt'altro che remoto.
 L'ignoranza dell'esatto contenuto dei testi del Talmud a monte dell'opinione insinuata dal film di Lumet, sconsiglia la formulazione di un giudizio [che espresso in questa sede sarebbe temerario] sulle affinità correnti tra l'ebraismo dell'epoca neotestamentaria e la cultura di Hollywood.
 E' pertanto auspicabile che il dialogo tra ebrei credenti e cattolici fedeli alla tradizione, tra Israele e resto d'Israele non sconfini in una incresciosa polemica sul coinvolgimento di intellettuali ebrei nella cinematografia neopagana. L'esemplare svolgimento del film di Lumet induce tuttavia a compiere una scelta oggi teologicamente scorretta ossia a  rammentare il rischio incombente sull'avventuroso dialogo degli ecumenisti cattolici con il complesso e variegato mondo ebraico.
 Rischio che, secondo il dotto teologo domenicano Padre Giovanni Cavalcoli, un pensatore che in nessun modo può essere accusato di anti-ebraismo, consiste nella tendenza "a smorzare le pur profonde differenze che esistono tra ebraismo e cristianesimo"
 L'incauta affermazione di Bergoglio, che dispensa gli Ebrei dalla conversione a Cristo, è misura della crisi di identità, che è stata confermata dall'andamento bizzoso del recente sinodo dei vescovi
 Sarebbe quindi destinato a naufragare nel paradosso un dialogo tra ebrei e cattolici condotto senza le precauzioni necessarie a scongiurare il rischio di dimenticare la resa ai miti e ai sollucheri ideologici, nel film simbolico/enigmatico/esoterico, miti rappresentati  dal tip-tap eseguito, dai ballerini Fred Astaire e Ginger Rogers.
  Il mistico tip-tap prefigura anche i cedimenti all'ecumenismo (in realtà sincretismo/trasformismo) di non pochi credenti (teologi, vescovi, cardinali, papi) contemporanei.
 Impostato secondo i criteri del buonismo, il confronto tra l'antico e il nuovo - il tradizionale e il moderno -  oscura l'orizzonte teologico e, per un verso, ottiene il rafforzamento delle ambiguità circolanti nel mondo ebraico, per l'altro desta fra i cattolici la irresistibile tendenza ad approvare e ossequiare gli ebrei la qualunque cosa essi dicano o facciano.
 Il già citato Padre Cavalcoli non nasconde il timore che "oggi la Santa Sede abbia nei confronti degli Ebrei un atteggiamento di eccessiva indulgenza e quasi di adulazione".    
 Posto, ad esempio, che il danzatore Fred Astaire apparteneva al popolo ebreo, quale è la conseguenze che un cattolico buonista può trarre dall'espressione - gli ebrei sono  nostri fratelli maggiori - pronunciata da Giovanni Paolo II  durante la visita alla sinagoga di Roma e confermata/accelerata da Francesco I, secondo il quale gli Ebrei non devono convertirsi: sono cristiani anche se non credono in Cristo? Forse si deve sostenere seriamente che Bergoglio è il fratello minore di Fred Astaire e/o di Lumet nella fede? Nella fase storica in cui impunite monache cantano la canzone blasfema della Ciccone forse si può osare tanto?
 Il suono grottesco e deragliante di tali ipotesi indurrebbe a dubitare che Giovanni Paolo II abbia inteso dire che gli ebrei sono attualmente eredi legittimi di Abramo, il padre di tutti i credenti.
 D'altra parte è noto che l'autorevole teologo Brunero Gherardini ha escluso che i fratelli maggiori costituiscano tuttora il popolo eletto, in base a un'esatta interpretazione delle tesi di San Paolo (specialmente Rom., 9, 6-12: fratello maggiore è Esaù, fratello minore Isacco).
 La tesi di mons. Gherardini è stata confermata solennemente dal sinodo dei vescovi mediorientali riuniti in Roma nell'ottobre del 2010.
 Un eminente illustre studioso cattolico, Francesco Mercadante, di recente, ha rammentato, con formula perfetta, l'abolizione della primogenitura e il livellamento dei compensi ai vignaiola della prima ora - i cir4concisi - e a quelli dell'ultima ora - i gentili: "Paolo sovverte l'ordine del mondo conferendo alle genti la legittimazione nella dignità della primogenitura spirituale, da esercitare come retaggio di un popolo di Dio fatto tutto di primogeniti, senza distinzioni di merito tra circoncisi e incirconcisi, come pure, passando al compenso, tra operai della prima ora e operai della undicesima ora" [1].
 Luigi Copertino, ha infine rammentato che Benedetto XVI, "non ha esitato, nonostante le stridule grida della sinagoga, a riproporre le preghiere del Venerdì Santo per la conversione degli ebrei".
 E questo sia suggel ch'ogn' omo sganni (Inf. XIX, 21). Dovrebbe. 
 Separato dalla teologia paolina della storia e gettato nelle gambe ubiquitarie del più inconsulto e zuccheroso ballo hollywoodiano, il dialogo tra ebrei e cattolici si ridurrebbe alla declinazione di umoristici malintesi, danze modernistiche, finzioni teologiche, acrobazie storiografiche, adulazioni scivolose e avventurose obliquità.
 La presunta carità, opponendosi ostinatamente all'intransigentissima verità, si dissolverebbe nell'aria fritta emanata dalle colonne sonore, che accompagnano l'evasione cinematografica e televisiva a buon mercato.
 Una seria considerazione del problema, d'altra parte, non può nascondere la verità non hollywoodiana e pre -felliniana sul popolo ebraico, che, lo ha rammentato Julio Meinvielle, "è un popolo sacro, scelto da Dio tra tutti i popoli per compiere la missione salvifica dell'umanità apportandoci, nella sua carne il Redentore" [2].

Piero Vassallo




[1]              Cfr.: L'eguaglianza dell'individuo in Capograssi; diritti e bisogni, in Annuario filosofico 2008, Mursia, Milano 2009, pag. 31.
[2]              Cfr. L'ebreo nel mistero della storia, Effedieffe, Proceno 2012, pag. 19.

sabato 25 ottobre 2014

La spinosa questione palestinese

Il rapporto tra musulmani ed ebrei non fu sempre tormentato. Il radicalismo di Hamas, "che vuole eliminare gli ebrei", come sostiene Fiamma Nirestein, alla fine dei XIX secolo non era pensabile [1].   Nei vasti domini dell’impero turco, infatti, le minoranze ebraiche godevano di una certa tranquillità e di un relativo benessere. Neppure l’immigrazione in Palestina, avviata nel 1897 dal movimento sionista fondato da Theodor Herzl /1860-1904), suscitò reazioni ostili fra i musulmani.
 Lo storico russo Leonid Mlečin, autore di un ampio e pregevole saggio, che nel titolo sembra unicamente impegnato a sottolineare il decisivo contributo di Stalin alla fondazione e alla sopravvivenza dello Stato di Israele, nel testo elenca tutte le notizie necessarie a un approccio senza pregiudizi alla spinosa questione palestinese, rammenta, infatti, che “I rapporti tra le due comunità erano stati sereni fino all’inizio della Prima guerra mondiale: molti ebrei, specie a Gerusalemme, parlavano l’arabo e i bambini ebrei e arabi giocavano insieme" [2]
 Purtroppo la pace in Palestina, prima della Grande Guerra, dipendeva da condizioni precarie e da instabili equilibri: la sopravvivenza di un impero fatiscente come quello turco, l'attenuazione del nazionalismo arabo per l'influsso dei turchi e il mantenimento del fiducioso giudizio dei palestinesi sulle finalità umanitarie e non politiche del focolare ebraico progettato dai sionisti.
 L’esito della prima guerra mondiale, la conseguente dissoluzione dell’impero ottomano, l'improvvisa risorgimento dell'estremismo islamico e del nazionalismo arabo, l’inavvertenza anglo-francese dell’insorgente ostilità palestinese contro gli ebrei, i macroscopici errori e le decisioni ora insensate ora ciniche dell'autorità anglo-francese subentrante al potere turco, trasformarono una situazione tranquilla se non pacifica in un potenziale scenario di rivalità e di odio.
 Giustamente Mlečin sostiene che gli ebrei commisero un errore irreparabile ignorando i mutamenti in atto a loro sfavore nella mentalità degli ospitanti palestinesi. Il leader sionista David Ben Gurion (1886-1973), ad esempio, nutriva un’idea ingenua e semplicistica degli arabi di fede musulmana, un’immagine che non contemplava la radice fanatica della loro latente/incombente ostilità e alimentava una disarmata fiducia nella buona disposizione del presunto sangue fraterno.
 Il futuro capo dello stato israeliano sottovalutava le profonde insorgenze religiose, culturali e comportamentali causate dalla fedeltà al Corano e perciò confidava in un’amicizia araba fondata nella comune origine biologica.
 L'errore, dettato dalla mitologia buonista scorazzante nel XIX secolo, indusse Ben Gurion a sostenere che “Non c’è dubbio che nelle loro [dei palestinesi di fede musulmana] vene  scorre molto sangue ebraico. Sangue di quegli ebrei che, in tempi difficili, preferirono ricusare la loro fede, pur di conservare la loro terra … Non viviamo insieme da mille cinquecento anni, ma essi sono restati sangue del nostro sangue, carne della nostra carne, e i rapporti tra noi e loro non possono che essere fraterni …”.
 L'illusione ecumenica sull'Islam è quasi invincibile e non soltanto nell'ambiente ebraico. Giovanni Paolo II, pur sapendo che "L'islamismo non è una religione di redenzione. Non vi è spazio in esso per la Croce e la Risurrezione" [3], invitò i rappresentanti dell'Islam all'infelice festa sincretista di Assisi e in visita a una mosche baciò il Corano come se fosse un libro sacro.
 Causa di sciagure furono, in seguito, gli errori madornali, le ridicole giravolte, le grottesche liti al vertice (memorabile quella fra il presidente Truman e il generale Marshall) e le imperdonabili ingiustizie da addebitare al cinismo e all’ideologia economicistica, radice  dell’ossessione petrolifera che provocava la continua fibrillazione/oscillazione della politica estera inglese e americana. 
 La lettera che il ministro degli esteri di Gran Bretagna, Lord Arthur James Balfour, indirizzò a Rothschild in data 2 novembre 1917, per dichiarare “la simpatia del Governo di Sua Maestà per le aspirazioni ebraiche sioniste” è un esempio lampante di untuosa reticenza e cinica ambiguità.
 Mlečin dimostra, infatti, che Balfour non chiarì il fine della sua dichiarazione, vale a dire non precisò “se si trattava della promessa di aiutare gli ebrei a creare un proprio stato o della semplice intenzione di garantire loro una qualche autonomia in Palestina”.
 L’elusiva e ambigua dichiarazione di Lord Balfour fu interpretata dagli arabi in senso restrittivo e perciò ottenne da loro una buona accoglienza.
 Nel gennaio del 1919, Feisal, re di Siria, s’impegnò addirittura ad accogliere amichevolmente gli immigrati, dichiarando che “Agli ebrei diciamo con calore benvenuti a casa!”.
 Se non che la diplomazia britannica, con decisione cervellotica, depose Feisal dal trono della Siria e lo trasferì su quello dell’Iraq, facendo cadere l'opportunità costituita dalla sua disposizione al compromesso e facilitandone il passaggio all’agguerrito fronte antisionista.
 In seguito, la dipendenza occidentale dai rifornimenti di petrolio greggio dai pozzi dell’Arabia e i sospetti sulle simpatie degli israeliani per l’Unione sovietica abbassarono e quasi rovesciarono l’impegno dei governi inglese e americano a favore della causa sionista.
 Al termine di una interminabile sequela di decisioni contraddittorie, accadde che la legittimità dello stato d’Israele fu decisa dall’Onu con voto determinante dell’Unione sovietica (decisione inattesa e inspiegabile, dal momento che Stalin aveva già iniziato una spietata azione persecutoria nei confronti degli ebrei residenti in Unione sovietica).
 La costituzione dello stato ebraico scatenò l’immediata reazione degli arabi, i quali, fiduciosi nell’amicizia petrolifera degli anglo-americani e nella qualità delle armi da loro fornite, dichiararono la guerra a Israele.
  Fu una guerra paradossale, combattuta dagli arabi con armi fornite dagli inglesi e vinta dagli ebrei con le armi fornite dai sovietici.
 Mlečin a questo punto elenca anche gli errori all’origine della sconfitta politica prima che militare degli arabi: “Se nel 1919 gli arabi  non si fossero opposti alla dichiarazione Balfour l’esigua popolazione ebraica di Palestina non avrebbe ottenuto che una limitata autonomia ... se alla vigilia della seconda guerra mondiale avessero accolto la proposta britannica di costituire in Palestina un minuscolo stato ebraico e un grande stato arabo, Israele sarebbe risultato veramente minuscolo … nel 1947.  infine tra la possibilità di costituire uno stato sul territorio assegnato loro dalle Nazioni Unite e la lotta per avere l’intera Palestina scelsero quest’ultima
 Le utopie pseudo-apocalittiche, i calcoli errati, le scelte immorali e demenziali e le acrobatiche giravolte di tutti contro tutti, arabi contro ebrei, ebrei contro arabi, inglesi contro ebrei, russi contro inglesi, americani contro russi, americani oscillanti tra la dipendenza dai petrolieri arabi e una simpatia per i coloni ebrei suscitata dalla lobby sionista, russi a sostegno degli ebrei per dispetto…
  L’intreccio di pensieri viscerali, di progetti senza fondamento storico, di calcoli sballati, di interessi indecenti e di impulsi senza controllo, costituiscono una camera oscura dove è consigliabile non prestare ascolto alle sirene mediatiche, che urlano da una parte o dall’altra.
 Conviene considerare con cautela e indipendenza di giudizio una vicenda che ha già squalificato numerosi commentatori e appassionati tifosi politici. 
 Va da sé che la premessa alla pace è il ritiro degli israeliani dai territori palestinesi, un atto di saggezza e di lungimiranza più volte sollecitato dal magistero cattolico.  
 L'unica iniziativa che può avvicinare una soluzione dell'annoso conflitto è nascosta nella memorabile sentenza di Paolo VI: il nome della pace è sviluppo.  
 Lo sviluppo dell'economia e della società palestinese è l'unica soluzione atta a frenare quel risentimento dei palestinesi che è stato coltivato e incrementato dagli agenti dell'estremismo e dai seminatori di odio pseudoreligioso.     
 Un piano Marshall per la Palestina è la sola impresa seria che l’Europa deve avviare, se intende scongiurare l’incombente tragedia di una guerra dal profilo apocalittico.
 D'altra parte, l’Europa ha interesse alla pace, ma non ha i titoli e l'autorità necessari a stabilire dove sta la ragione storica.
 Sarebbe un gesto folle mettere l’ermellino della sapienza giuridica sulle spalle dell’Europa e mandarla a sentenziare in Medio Oriente.
 Stretta dai pensieri duellanti  tra destra e sinistra, il tribunale europeo non saprebbe produrre un qualunque giudizio.
 Conviene dunque rinunciare al giudizio e tentare la via dell’azione a sostegno dello sviluppo in Palestina. C’è un'opportunità per la pace, quando si mettono da parte le chiacchiere e si percorre l'onesta via del fare.

Piero Vassallo





[1]             Cfr. Israele, il diavolo a prescindere,  in Aa. Vv. , Non perdiamo la testa Il dovere di difenderci dalla violenza dell'Islam", supplemento al Giornale, maggio 2014.
[2]             Cfr.:Perché Stalin creò Israele, prefazione di Luciano Canfora, introduzione di Enrico Mentana, Sandro Teti editore, Roma 2008
[3]             Cfr. Giovanni Paolo II e Vittorio Messori, Varcare le soglie della speranza, Mondadori, Milano 1995.

giovedì 23 ottobre 2014

ADDOLORATI E NELL’INTIMO SERENI (di Piero Nicola)

Dolenti in letizia sembra un controsenso. Eppure questo è il sentire dimostrato dai cattolici più veri: dai Santi. Essi non si crucciano a causa delle proprie pene, che sanno di meritare per quel che possano essere peccatori; anzi le sofferenze se le procurano onde condividere la Passione e aggiungervi qualche loro merito a vantaggio del prossimo.
  Essi sono consapevoli che, assolto il nostro compito, qualunque cosa avvenga è giusta, sottostando alla divina Giustizia, che interviene nelle cose del mondo o permette che accadano.
  I Santi condividono i dolori dei Cuori di Gesù e di Maria per il male perpetrato da tutti gli uomini, per le loro malvagità, per i loro vizi, per i tradimenti dei figli della Chiesa, che contribuiscono alla perdita delle anime. Se si preoccupano della propria carne inferma, nessuno potendo mai essere certo del glorioso ingresso nell’aldilà, umilmente profittano con perseveranza della grazia speciale (che Dio ha voluto largire a loro immeritevoli) al fine d’un altrui beneficio e di raggiungere degnamente il termine di questa valle di lacrime.
  Ora, mi è avvenuto di leggere un articolo in cui si riferiva il giudizio d’un apprezzato teologo sulla infallibilità o sull’inerranza (distinzione sottile ma notevole) della Chiesa nel procedere alla canonizzazione. Il teologo avrebbe concluso che Papi e Concili non diedero definizioni con le quali dichiarassero infallibili le proclamazioni dei Santi. Da ciò l’autore dello scritto ricava una conseguenza sconcertante. Che importa a noi se la persona messa sull’altare da un processo canonico ci induca al dubbio sulla sua santità? Che importa se non fu un autentico modello di vita cristiana, degno della unanime venerazione dei fedeli, poiché non si esclude un errore nella valutazione della Chiesa?
  In generale, la questione appare delicata e la rimettiamo a chi abbia l’autorità per trattarla: l’autorità e la facoltà concesse, Roma non essendosi ancora pronunciata al riguardo. Cionondimeno, possiamo esporre alcune considerazioni ragionevoli sull’argomento, che implica insegnamenti edificanti e consolanti, usciti da esperienze concrete in cui si è manifestato il soprannaturale e conformi alla sacra dottrina.
  È vero e giusto che la Rivelazione si chiude con gli Apostoli del Nuovo Testamento, che nessuno in seguito vi aggiunse alcunché. Dunque le testimonianze dei santi sarebbero superflue, di esse possiamo non tenere conto, ma resta il fatto che esse ci furono, che Dio intervenne in loro con grazie e con miracoli del tutto simili a quelli operati con gli Apostoli; e Dio non inganna.
  Se di alcuni prodigi e profezie è forse lecito dubitare, di altri le prove scientifiche non mancano. Spesso i Pontefici addussero la santità dei membri della Chiesa come una delle certificazioni della santità e credibilità di Essa presso atei, eretici e infedeli, resistenti o disposti alla conversione.
  La purezza dei miracolati testimoni del Signore - dopo l’Apocalisse di san Giovanni - non fu necessariamente esente da errori dottrinali (anche questo la Chiesa ha stabilito), tuttavia la loro esistenza dovette essere esente da scaldalo per le pie anime. Bisogna che Dio, dandoci i Santi, abbia inteso aiutarci con grazie straordinarie, manifestate tramite loro.
  D’altra parte, la Scrittura insegna che il demonio può operare prodigi (vedi quelli di Simon Mago) e che, specie nei tempi ultimi, alcuni rivestiti di apparente santità inganneranno quanti non siano abbastanza preparati a riconoscerli.

  Ma un presunto santo che errò e, in definitiva, insegnò l’errore e fece positivamente il male della Chiesa, costituisce uno scandalo più evidente di quello dato dai falsi profeti, uno scandalo  inaccettabile. Dalla sua vita non si trae per nulla quel bene della pace interiore, offerto con certezza dai benedetti di Dio, i quali continuano a mostrarne la gloriosa giustizia su questa terra tormentata e causa di tormento soltanto per i peccatori non in Grazia di Lui.

Piero Nicola

mercoledì 22 ottobre 2014

Un partito di cattolici, per uscire dal cono d'ombra incombente sulla vita italiana

Oltre il Gulag mediatico

Un partito di cattolici, per uscire
 dal cono d'ombra incombente sulla vita italiana

 Il completo stravolgimento dei princìpi indeclinabili e il conseguente exitus della destra esangue hanno amareggiato i giovani refrattari alle mutazioni avventurose e ai demenziali funambolismi, inducendoli a cercare rifugio e consolazione nella lettura dei testi della genuina ancorché censurata e calunniata tradizione italiana.
 Nella misura in cui procedeva la decrescita politica di An e del Pdl, partiti intossicati dalle contraddizioni affastellate da liberali e neodestri, si è costituita, sfuggendo allo schiaffo dei censori/silenziatori, una scuola di pensiero finalizzata al riscatto della filosofia italiana.
 Motore della nuova scuola è l'opera di Cornelio Fabro, il geniale filosofo tomista, che ha indicato il percorso da seguire in vista della confutazione degli errori generati dall'eresia luterana e dall'ateologia hegeliana.  
 Nei tormentati anni Settanta, Fabro ha dimostrato di possedere anche il coraggio necessario a suscitare la resistenza alla massa manipolata dalla trionfante setta cattocomunista: memorabili sono i suoi saggi e le sue conferenze sulla trappola del compromesso storico e sui deliri della teologia progressista.
 Svanita la chimera sguinzagliata dalla "destra" tele-porno-liberale, si sta affermando una nuova e vivace generazione di studiosi, un'avanguardia renitente alle lezioni surreali e transessuali, che sono impartite dalla padrona dell'abbaiante Dudù.
 Si sta costituendo una scuola reazionaria di pensiero, immune dall'invincibile passione per l'ammucchiamento trans-ideologico, furia attiva negli ostinati frammenti e nelle schegge cineree della destra a mente pluricamerale.
 Grazie all'instancabile, generosa attività di alcuni collaudati pensatori e organizzatori culturali, ad esempio Massimo Anderson, Giulio Alfano, Fausto Belfiori, Fabio Bernabei, Pucci Cipriani, Roberto De Mattei,  Patrizia Firmani,  Pietro Giubilo, Maria Guarini, Paolo Pasqualucci, Primo Siena, Tommaso Romano, Angelo Ruggiero, Luciano Salera, sta crescendo una nuova generazione di qualificati testimoni dei princìpi tradizionali.
 Nel rinnovato laboratorio, attivo nonostante la congiura del silenzio e il circostante vuoto politico, si segnalano in special modo Fabio Bozzo, Danilo Campanella, Valentino Cecchetti,  Roberto Dal Bosco, Matteo D'Amico, Gianandrea de Antonellis, Rodolfo De Mattei, Alessandro Fiore, Elisabetta Frezza, Rosalia Longo, Siro Mazza, Paolo Rizza, Ascanio Ruschi,   Giuseppe Testa,  ecc.                     
 La vastità e l'efficacia dell'impresa avviata dai nuovi protagonisti sono dimostrate  dal costante sviluppo delle riviste e dei siti d'indirizzo tradizionale e dagli ingenti cataloghi delle case editrici d'indirizzo anticonformista, che agiscono, in ordine sparso, nell'area in cui si sta attuando il risveglio postconciliare della coscienza cattolica.
 Sfortunatamente la vivace attività culturale delle nuove avanguardie è frenata e quasi vanificata dall'assenza di un partito politico, in cui i nuovi interpreti dell'autentico pensiero italiano,  potrebbero avviare un circolo virtuoso tra sapienza tradizionale e buona politica.
 E' possibile una sinergia finalizzata al superamento delle ideologie crepuscolari, una circolazione che, nel recente passato, è stata severamente vietata dall'allergia alla filosofia, affezione purtroppo militante con vigore degno di miglior causa in An e in Forza Italia.
 Non è pertanto vano l'augurio che abbiano finalmente successo le iniziative finalizzate alla fondazione di un partito idoneo a interpretare fedelmente ed efficacemente la cultura cattolica vivente nei laboratori attivi in quasi tutte le città italiane.
 L'attesa di un'iniziativa politica di segno chiaramente cattolico non esclude l'attenzione al rinnovamento avviato dai protagonisti attivi nelle schegge destre, sopravvissute alla catastrofe a tre teste (Fini-Bossi-Berlusconi) e in special modo al promettente Matteo Salvini, che sembra seriamente intenzionato ad archiviare il progetto secessionista/frazionista.
 Al proposito non è lecito nascondere ai potenziali amici che il nodo che i militanti nei frammenti destri debbono risolvere è l'accettazione del fondamentale giudizio di Augusto Del Noce sul potere esercitato dal totalitarismo della dissoluzione nella politica postmoderna.
 Deve essere chiaro che dalla fossa thanatofila & pederastica, in cui è precipitata l'illuminata illusione dei rivoluzionari moderni, non si esce inseguendo la musica dei serpenti ecumenici a sonagli.
 Ettore Bernabei ha ricostruito la storia originale dei fallimentari compromessi attuati dalla democrazia cristiana, a cominciare dall'intesa di De Gasperi con il serpentino Raffaele Mattioli.
 Pertanto la preferenza deve essere accordata alle iniziative condotte da esponenti politici indenni dalla febbre compromissoria e dal parodistico ecumenismo,cioè capaci di agire in sintonia con studiosi qualificati dalla fedeltà agli indeclinabili principi della dottrina sociale della Chiesa.
 L'intransigentissima verità cattolica non paga i traditori: può essere talora aggirata dall'illusione pseudo ecumenica mai sottomessa all'avventurismo degli apprendisti stregoni.
 Piuttosto che all'impossibile e indesiderabile rifondazione democristiana o a progetti anacronistici di stampo asburgico o borbonico, si deve pensare a un'iniziativa condotta dai giovani e meno giovani esponenti della destra cattolica associati a politologi di sicura formazione tomista.
 Solamente da una tale combinazione può avere inizio un movimento adatto a sfidare il disordine che ruggisce nel perfetto oscuramento del bene comune, nello smarrimento della gerarchia cattolica e nella violenta contrarietà dalla finanza dispotica alle legittime aspirazioni del popolo italiano.


  Piero Vassallo

lunedì 20 ottobre 2014

NESSUN ATANASIO NEL SINODO PEGGIORATIVO (di Piero Nicola)

Si è detto e ripetuto che il Concilio Vaticano II ha scritto proposizioni gravemente erronee, nocive per il bene delle anime, confermate e persino accresciute, sino ad ora, dagli insediati sul soglio di Pietro e dai loro dipendenti. Si è stabilito ciò in forza della facoltà razionale di ogni uomo, in forza del principio di non contraddizione. O denunciamo ciò che chiaramente contraddice la fede o la guastiamo. 
  Insegnamenti e prassi ascrivibili alla gerarchia che figura essere della Chiesa sono, da tempo, in netto contrasto con articoli di fede. Basti la dottrina sul diritto alla libertà religiosa. Per principio, essa assegna all’errore e agli erranti che lo propagano diritti che spettano soltanto alla Verità, e con questo essa nega direttamente un dogma definito e stabilito ex cathedra da Papa Pio IX, nell’enciclica Quanta cura e nel Sillabo.
  Per eccepire sull’eresia oggettiva o materiale costituita dal concetto di diritto alla libertà religiosa instaurato dalla post-moderna usurpazione del Magistero, bisognerebbe abbandonare la conoscenza e la logica.
  Inoltre, chiunque può sincerarsi dell’incompatibilità del magistero e degli atti successivi a Pio XII con definizioni dogmatiche di Concili e di Pontefici del Magistero precedente. Sicché alcuni tradizionalisti tra più contrari al sedevacantismo si vedono costretti a chiedere dove mai stia, dove mai sia finita la Chiesa.
  Ma se l’evidenza mostra tanto sfregio recato al sacro Deposito e tanto male conseguentemente procurato alle anime, ne deriva la perduta credibilità e autorità di chi lo ha commesso e di chi lo sta commettendo.
   Sicché potremmo trascurare le ultime e più recenti proposizioni erronee rilasciate dal Vaticano e dai suoi satelliti col sinodo sulla famiglia appena concluso nella sua prima sessione. Per respingere l’errante perseverante, ovunque agisca, è sufficiente un solo grave e venefico abuso del Vangelo. Del resto, l’albero cattivo naturalmente produce altri frutti bacati.
  Viceversa, partendo dai suddetti punti fermi, esistono due validi motivi per ancora confutare ed accusare.
  Il primo è il dovere di persistere nell’offrire il bene della sana dottrina a sé stessi e al nostro prossimo. Le eresie sono sempre servite a sciogliere i dubbi e al perfezionamento dogmatico.
  Il secondo, complementare al primo, è il dovere di smascherare le arti, insidiose soprattutto per la massa sprovveduta, con cui si spaccia il velenoso errore per opera buona.
  Evitiamo di annacquare il vino rivenendo a un’analisi dettagliata dei detti e dei misfatti. Consideriamo subito come farisaicamente si dica di mantenere e rispettare il Deposito della fede, e lo si tradisca coi vecchi provvedimenti e con quelli ora previsti, ossia mediante un procedimento pastorale che distrugge la Legge del Signore.
  Anche questo fatto toglie ogni possibile autorità a chi pretenderebbe di averla compiendo simili inganni e a quanti vorrebbero che essa sussistesse in lui.
  Siccome è dato accertare che i finti pastori si sono da se stessi screditati a motivo dei loro errori e comportamenti, che causano la rovina della Fede e il male degli uomini, coloro i quali già sono sulla buona strada, avendo rilevato errori e male azioni, sarebbero pure tenuti alla coerenza, cioè ad andare in fondo all’esame e alle deduzioni, sarebbero in obbligo di accusare e di rifiutare chi è causa della peggiore delle sciagure: chi dovrebbe essere il vicario di Cristo per l’umana salvezza, mentre è agente effettivo del demonio, a prescindere da qualsiasi giudizio sull’anima sua.
  In proposito, giova ricordare che la Chiesa, per mandato divino, fu investita del potere di giudizio rispetto alle colpe pubblicamente commesse, prevedendosi anche il delitto di eresia e le relative punizioni. E se è vero che oggi nessuno può assumere siffatto ruolo di giudice, è pur vero che i colpevoli materiali di affermazioni e di azioni eretiche hanno dovuto apprendere le contestazioni loro mosse da vescovi e porporati, e tuttavia persistono nell’orribile cammino intrapreso.
  Torniamo alla complessiva confutazione dell’ultimo cattivo insegnamento.
  Un comunicato Ansa del 18 ottobre 2014, ore 16 e 28, riporta la sintetica risoluzione del sinodo sulla famiglia appena concluso nella sua fase dell’anno corrente:
  “Cristo ha voluto che la sua Chiesa fosse una casa con la porta sempre aperta all’accoglienza, senza escludere nessuno. Siamo perciò grati ai pastori, fedeli e comunità pronti ad accompagnare e a farsi carico delle lacerazioni interiori e sociali delle coppie e delle famiglie”.
  Una proposizione più blasfema e falsa di questa si incontra raramente nella storia ecclesiastica. Non ravvisarla significa aver perduto la bussola della dottrina cattolica e del raziocinio. Chi l’abbia tollerata tralasciando di rigettarne gli autori e di separarsi da loro è divenuto complice nel tradimento di Nostro Signore. Dunque, prendiamo atto che in questa sorta di concilio si è verificato lo stesso fenomeno dell’ultimo concilio: aggiustamenti ingannevoli, mezza verità, mezza menzogna e omissione colpevole dell’essenziale, aventi un effetto peggiore della menzogna più facilmente impugnabile. E nessun novello Atanasio nell’assemblea dei padri.
  Cristo prescrisse ai suoi che recavano l’annuncio della Nuova Alleanza di ritirarsi da coloro che non li avessero accolti. E non si sofistichi - aggiungendo errore a errore - con il proselitismo diventato in questo secolo disdicevole. Egli prescrisse che il Vangelo fosse predicato tal quale sino alla fine dei secoli. Chi non lo riceve e non si fa battezzare è perduto. Lo stesso vale per chiunque contravvenga alla Legge salvifica.
  San Paolo dichiara il dovere dell’ammonizione e che gli ammoniti, pure con il debito riguardo, se non intendono correggersi saranno considerati alla stregua dei pagani.
  La Chiesa, come società perfetta, sempre applicò la Legge divina, secondo cui l’errante o il peccatore pubblico veniva ammaestrato e invitato a correggersi o a convertirsi; in mancanza di che avveniva la scomunica, l’espulsione dal Corpo mistico.
  Poiché esiste – ed è perfettamente logico e reale che esista – una legge inderogabile e un potere che la fa rispettare, dire che questo potere tiene “la porta sempre aperta all’accoglienza” è falso del tutto. Nessuna società tollera giustamente in sé le mele marce, ed esse sempre ci sono.
  La vaghezza dell’espressione, una volta di più adoperata (l’uso dell’indeterminazione è un abuso adoperato specie all’ultimo concilio) aggrava l’errore. Esso penetra a fondo negli animi impreparati a diffidare. L’ambiguità evitabile dissimula la verità, che può e deve essere detta. L’ambiguità è peggiore dell’errore, quando lascia campo ad esso, lasciando che esso lavori subdolamente. Così agisce il demonio, che non si espone al rifiuto con proposte chiare.
  Non sarà una scusa valida l’aver messo in atto espressioni ambivalenti onde permettere alle parti in contrasto di accettarle. L’ambiguità, evitabile e perciò colpevole, risulta qui delittuosa e foriera di rovina. Di essa approfittano quanti ne fanno l’uso peggiore, non già gli onesti. Lo si è ben visto con il Vaticano II.
   La bella “accoglienza” che non esclude nessuno è una finzione, è una prospettiva truffaldina (nemmeno Bergoglio potrebbe permettersi di accogliere benevolmente i nemici, infatti non lo fa, però fuori luogo!) e consiste in una disposizione che consente di accogliere chi, per legge divina, non deve essere accolto. Non esistono forse nemici di Cristo nelle coppie e nelle famiglie che resistono alla sua dottrina? Basta non indagare, non interrogarli? L’omissione - tra le altre del documento sinodale – della precisa richiesta di riparazione comandata da Dio, condizione essenziale dell’accoglienza, è una mancanza prettamente eretica e imperdonabile.
  Sia per l’opposizione dei vescovi più sani, sia per l’astuzia spiegata sopra, la risoluzione torna a parlare di condizioni poste ai divorziati e risposati prima d’essere ammessi ai sacramenti della Penitenza e dell’Eucaristia. Ma tali condizioni furono stabilite e applicate nei secoli in conformità con principi dogmatici irrevocabili, valevoli sempre. Prevedere di cambiarle, di adattarle, significa violare il dogma, offendere Cristo, significa considerare mutevole la condizione morale dell’uomo o considerare per lui giuste cause scusanti o attenuanti che non esistono.
  Tutto questo è provato dal documento, dove recita:
  “Una Chiesa credibile è quella che sa accogliere e che è in grado di comprendere i mutamenti della società”.
  “Altri [padri] si sono espressi per un’accoglienza non generalizzata alla mensa eucaristica, in alcune situazioni particolari e a condizioni ben precise, soprattutto quando si tratta di casi irreversibili e legati a obblighi morali verso i figli che verrebbero a subire sofferenze ingiuste”.
  Occorrerebbe “tenere ben presente la distinzione tra situazione oggettiva di peccato e circostanze attenuanti, dato che l’imputabilità e la responsabilità di un’azione possono essere sminuite o annullate a seconda di fattori psichici o sociali”.
  Concezioni inammissibili, come quella sulle unioni di omosessuali, e ammesse dal presidente Bergoglio.
  “Non esiste fondamento alcuno per assimilare o stabilire analogia, neppure remota, tra unioni omosessuali e il disegno di Dio sul matrimonio e la famiglia”. “Gli uomini e le donne con tendenze omosessuali devono essere accolti con rispetto e delicatezza”.
  Che l’uomo sia differente dalla donna in ordine al sesso e alla sua funzione procreatrice salta all’occhio. L’ovvio andava riconosciuto. Ma è stata un’occasione per ripetere implicitamente l’accettazione di pratiche abominevoli e per ribadire un’accoglienza che è obbligatorio far sottostare a premesse inderogabili: non peccare almeno pubblicamente, evitando lo scandalo, e dimostrazione di sani propositi.
  No alla rigidità e no al buonismo, predica il moderatore, e lascia la porta aperta all’abuso, poiché la pratica infallibile è stata scardinata. Ed egli osa chiamarla scritto ostile e ne disprezza la lettera, come faceva Lutero.
  “La Chiesa non ha paura di mangiare e bere con le prostitute e i pubblicani”. Ma egli mangia e beve con loro trascurando di convertirli o di redimerli. Troppa, detestabile differenza!
  La stampa riferisce che gli è stato tributato un applauso di cinque minuti.

  Perciò gli ottimisti disposti a consolarsi o a compiacersi di vedere il bicchiere mezzo pieno, perché il partito dei prelati più ortodossi ha ottenuto dei risultati, si disingannino: come quel partito, essi farebbero il gioco della malizia eretica.

Piero Nicola

domenica 19 ottobre 2014

L'ipoteca comunista sul Novecento cattolico

Perché non possiamo dirci antifascisti
L'ipoteca comunista sul Novecento cattolico

 La complessità e la varietà delle scuole di pensiero e degli stati d'animo in circolazione durante il ventennio scoraggiano il qualunque tentativo di definire con esattezza il pensiero prevalente nelle dottrine del fascismo [ad esempio il neo-idealismo che informa la dottrina proposta da Giovanni Gentile e il neotomismo che qualifica la dottrina di Carlo Costamagna] e ancor più di unificare i moventi e le ragioni delle adesioni al regime.
 Fascismo rimane pertanto un concetto generico e sfuggente, che si presta purtroppo alle più infondate interpretazioni e ai più bizzarri e intrepidi usi.  
 La variegata maggioranza degli intellettuali del Novecento italiano, ad ogni modo, aderì senza motivazioni o riserve di scuola al regime fascista.
 Tra il 1922 e il 1943 condivisero o nutrirono simpatia per la politica di Mussolini i futuristi, i neoidealisti, i nazionalisti, i vociani, i dannunziani, i pirandelliani, i nietzschiani, i neopagani, i maghi eleusini, i ginnasti tantrici e, insieme con loro, autorevoli pensatori e studiosi cattolici, quali Agostino Gemelli, Nicola Petruzzellis, Carmelo Ottaviano, Pietro Mignosi, Michele Federico Sciacca, Armando Carlini, Amintore Fanfani, Giulio Bonafede, Guido Manacorda, Domenico Giuliotti, Piero Bargellini ecc. 
 Poche e fragili le eccezioni al consenso totalitario: alcuni intellettuali adamantini, che la vulgata al potere giudica assolutamente refrattari, ossia Benedetto Croce, editore di una rivista stampata sulla carta assegnata dal duce, il sentenzioso Norberto Bobbio, scrittore di suppliche al bieco tiranno, Giacomo Noventa, collaboratore del Frontespizio e banditore  dell'intesa dei cattolici con i fascisti, Cesare Pavese, autore di un diario segreto, nel quale si legge il consenso alla rivoluzione sociale proposta dai fascisti dell'ultima ora.
 L'analfabetismo in camicia nera è dunque un argomento che naufraga nel ridicolo, quando  la cultura del ventennio è messa al confronto con la patetica, umiliante ristrettezza dell'opposizione italiana al fascismo.
 "Fascismo", infine, diventa una parola jettatoria e ricattatoria, quando è usata dai poteri forti, dagli iniziati   e dagli orfani di Marx per scongiurare il rischio rappresentato dalla temuta presenza di cattolici fedeli alla tradizione nazionale cioè in sintonia con l'Italia di San Francesco, di San Tommaso d'Aquino, di Santa Caterina da Siena e di San Pio X.
 Esito della ridicola mitologia televisiva intorno alla selvaggia ignoranza dei fascisti è la fumante coda di paglia, che gli strateghi comunisti e laicisti hanno applicato ai democristiani e ai preti pavidi, al fine di neutralizzarli, addomesticarli e modernizzarli.
 Dal fumo di quella resistente coda esce l'estenuazione del pensiero cattolico cioè l'incauta apertura alla modernità degli illuminati, fedeli a Jacques Maritain e ai suoi interpreti degasperiani e/o dossettiani.
 A 69 anni dalla morte di Mussolini, il bruciante e ostinato fumo della suddetta coda di paglia, si diffonde ancora ed ispira, ad esempio, la goffa dichiarazione di un autorevole prelato, secondo il quale sarebbe serio ed opportuno rammentare che il Beato Giovanni Battista Montini fu un antifascista sfegatato, ove sfegatato è sinonimo di fanatico. 
 Antifascismo fanatico e progressismo, a prescindere dalla scarsa credibilità della notizia sul viscerale antifascismo di Paolo VI, che a suo tempo apprezzò il Maritain autore di Antimoderno, sono i motori italiani della deprimente scolastica, che ha impoverito e alterato la cultura politica dei cattolici squalificando e incapsulando le idee tradizionali contaminate dalla condivisione fascista.  
 L'antifascismo di prammatica, infatti, ha cancellato dall'orizzonte della cultura cattolica la riforma corporativa dello stato moderno (quale fu  concepita da Giuseppe Bottai e dai suoi collaboratori nella Normale di Pisa), l'intervento dello stato nell'economia e il progetto di far partecipare i dipendenti alla gestione dell'impresa. 
 Trapiantato sul corpo della filosofia politica dei cattolici l'antifascismo ha in seguito prodotto la svolta indirizzata alla censura delle scelte, con le quali i cattolici avevano risposto alle sfide delle rivoluzioni moderne di stampo liberale e socialista.  
 Il marchio antifascista è impresso a fuoco sulla purgante e conformistica ideologia dell'ex fascista don Giuseppe Dossetti, suggeritore dell'avventuroso cardinale Giacomo Lercaro e ispiratore degli scolarchi bolognesi, Giuseppe Alberigo e Alberto Melloni, gli intellettuali che hanno avviato un movimento inteso ad allineare la teologia cattolica al pensiero progressista, declinante nelle torbidezze postmoderne.
 Ovviamente, la confutazione e il rifiuto dell'antifascismo non possono essere indirizzati alla riabilitazione e al riuso della cultura onnivora del ventennio.
 Si deve invece tentare il riscatto delle idee cattoliche - il corporativismo e il superamento della gestione capitalistica dell'impresa, l'intransigenza sul matrimonio, la difesa della maternità - che furono adottate dall'avanguardia fascista e pertanto rifiutate da quella censura resistenziale, che agisce tuttora nel cuore del pensiero catto-progressista.  
 La via d'uscita dalle rovine democristiane/degasperiane/dossettiane, sulle quali è costruita l'attuale subordinazione dei clericali ai postcomunisti e ai radical-chic festanti nel Pd, è pensabile solamente al prezzo di un vero atto di audacia finalizzato alla riappropriazione delle idee cattoliche sepolte sotto la strumentale valanga dell'antifascismo.
 Senza il coraggio della ribellione allo storico ricatto della sinistra, la politica d'ispirazione cristiana non ha altro futuro che la perfetta flessione nel Pd, cioè la capitolazione al furore pederastico, all'allucinazione malthusiana, alla genetica mostruosa, al dissesto sociale e al regresso economico. Un futuro miserabile discendente dalla tenerezza clericale allo striscio fra le righe della nuova teologia, che associa falsa misericordia, disordine strutturale e thanatofilia.


Piero Vassallo