sabato 30 agosto 2014

Dedicato a quanti leviter credunt aut iudicant

I dubbi suscitati dall'augurio di lucrare benefici spirituali, rivolto da papa Francesco I agli islamici partecipanti al ramadan, dileguano non appena si rammenta che sotto l'etichetta (piccola etica) e sotto l'avventurosa affabilità non si trova una teologia seriamente intesa a contraddire il severo e indeclinabile giudizio di san Tommaso intorno a Maometto e alla sua sgangherata dottrina.
 Papa Francesco I sta tentando, di attirare su di sé l'antipatia incombente sul clero verboso, gongolante e immodesto, che celebra se stesso e le macchinose novità introdotte dall'avventizio e deprimente concilio Vaticano II.
 In altre parole: il nuovo, simpatico e avventuroso stile di Francesco I non può agire contro le verità stabilite dai sommi interpreti della Scrittura e della Tradizione. Tanto meno può alterare il giudizio cattolico sui tenebrosi errori diffusi dagli avversari del Cristianesimo
 Tradotto dall'illustre padre Ceslao Pera o. p., il brano del Dottore comune, estratto dal Liber de Veritate catholicae fidei (I, 6, 41g) è proposto alla lettura e all'informazione degli ultrà ecumenici, che rifiutano di misurare le distanze abissali tra la fede cristiana e l'errore islamico.
 La lettura del testo tomasiano è specialmente raccomandata al chiarissimo raggio di mezzaluna, il professore Franco Cardini, duce dei cammellieri sull'asfalto e pastore dei rinoceronti al galoppo ecumenico tra la destra estinta e tramutata in eternit nel tossico Forteto.
 E' dedicata inoltre ai vescovi, ai preti e ai monaci di triste formazione sessantottina.
 Sostiene dunque San Tommaso: “Coloro i quali introdussero partiti basati su dottrine erronee, procedettero per una via contraria a quella seguita dal magistero divino, come è evidente in Maometto, il quale attirò i popoli con la promessa di piaceri carnali, alla cui bramosia istiga la sensibilità inferiore. Egli dette precetti conformi alle promesse, accondiscendendo alla voluttà carnale; ai quali precetti è ovvio che si obbedisca da uomini carnali. Né produsse documenti di verità, se non quelli che facilmente possono essere conosciuti da ognuno mediocremente sapiente, per naturale ingegno; che anzi le verità che insegnò, le mescolò con molte favole e falsissime dottrine. Non usò segni, fatti soprannaturalmente, coi quali, solo, si rende testimonianza alla divina ispirazione, mentre l’operazione visibile, che non può essere se non divina, mostra il dottore di verità, come spiritualmente ispirato, ma disse di essere mandato i potenza di armi: segni questi che non mancano anche ai ladroni e ai tiranni. Né, da principio, gli credettero uomini sapienti nelle cose di Dio, esperimentati nelle cosa divine e umane, bensì uomini bestiali del deserto, affatto ignoranti di ogni divina dottrina, per mezzo dei quali, con la violenza delle armi, costrinse gli altri alla sua legge. Nessun oracolo dei precedenti profeti, rappresentanti autentici del Magistero divino, gli rende testimonianza, che anzi deprava quasi tutti i documenti del Vecchio e del Nuovo Testamento, con favoloso racconto, come è evidente a chi dia una scorsa al Korano; perciò con astuto consiglio non lasciò leggere ai suoi seguaci i libri del Vecchio e del Nuovo Testamento affinché, per mezzo loro, non fosse accusato di falsità. Così è evidente che coloro, i quali prestano fede alle sue parole, credono con leggerezza – leviter credunt”.
 I giudizi di San Tommaso furono in seguito confermati da un dotto e intrepido domenicano, Ricoldo da Montecroce (1243-1320) il quale si era recato in Oriente con l'intento di evangelizzare gli islamici [1].
 Convinto della buona fede dei maomettani, il domenicano tentò di avviare con loro un dialogo costruttivo, ma fu tosto deluso dalla reazione acrimoniosa e feroce dei suoi interlocutori.
 Fece allora un passo indietro ed approfondì lo studio della lingua araba e la conoscenza del Corano, giungendo presto a conclusioni opposte a quelle buoniste/ottimiste nutrite all'inizio della sua infelice avventura ecumenica.
 Ritornato a Firenze nel 1300, dopo dodici anni di tormentati viaggi nelle terre invase, che lo convinsero dell'impossibilità del dialogo con i maomettani, sviluppò le tesi dell'Aquinate e scrisse un fondamentale saggio sui Saraceni.
 Nel testo sono elencate "le quattro categorie di persone che aderiscono all'errore di Maometto: La prima è quella di coloro che sono divenuti Saraceni in forza della spada, e che ora, riconoscendo il loro errore, ritornerebbero sui loro passi, se non avessero paura. La seconda è rappresentata da quelli che furono adescati da diavolo e finirono per credere vere le menzogne. La terza è quella di coloro che non vogliono abbandonare l'errore dei loro genitori, e dicono di attenersi ai loro padri dai quali invece discordano per il fatto che al posto dell'idolatria hanno scelto la setta di Maometto. La quarta è quella di coloro che per il gran numero di donne concesse e per le altre licenze preferirono questo errore all'eternità del secolo futuro"
 Di seguito Ricoldo elenca le cause dell'impossibilità del dialogo con i maomettani, ad esempio la favola che "Mosé e i Profeti hanno profetato su Maometto" ipotesi sostenuta dalla voce secondo la quale "i Giudei avrebbero corrotto le Leggi di Mosé e i Profeti, i Cristiani il Vangelo". Informazione in certo modo smentita da Maometto, il quale, come si legge nel Corano, suggerì ai suo seguaci di chiedere consiglio a "coloro che prima di voi hanno letto il Libro ... dunque al tempo di Maometto i libri dei Giudei e dei Cristiani non erano corrotti e non è possibile dire che lo furono in seguito".
 Contraddittori e ridicoli sono altresì numerosi passi del Corano, ad esempio quello in cui si afferma che i Giudei e i Cristiani si salveranno e di seguito "nessuno si salverà se non coloro che sono nella legge dei Saraceni", e quello in cui si ingiunge ai fedeli di usare soltanto parole miti con gli infedeli e più avanti "ordina di uccidere e di depredare coloro che non credono".
 L'analisi del Corano dimostra infine l'incompatibilità di fede e ragione in corsa nei testi maomettani, un vulnus che ha giustificato la devastante teoria di Averroé intorno alle due verità, quella dei filosofi e quella dei religiosi.

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 Non è peraltro fondata l'opinione secondo cui i giudizi di San Tommaso e di Ricoldo, oggi sarebbero superati dalla teologia volante, con la funambolica opinione di Karl Rahner, squillante tra le righe infelici del Vaticano II e indirizzata all'immaginaria folla dei cristiani anonimi".
 Ovviamente l'uomo non può conoscere il giudizio di Dio. L'esortazione dell'Alighieri, "non creda donna Berta e ser Martino per vedere un furare, altro offerere vederli dentro al consiglio divino; ché quel può surgere e quel può cadere (Par., XIII, 118 ss), segna il limite della conoscenza umana.
 Se non che l'impossibilità e l'illiceità del giudizio ultimo non indeboliscono il giudizio teologico al quale ci obbliga il Decalogo: non avrai altro Dio all'infuori di me. E la nozione maomettana di "dio" è totalmente, irreparabilmente all'infuori della verità di Dio.

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 Negli anni Novanta, Fabrizio Gualco, un sagace studioso formato alla scuola di Pier Paolo Ottonello, dopo aver dimostrato che “la Bibbia non è il Corano e il Dio biblico non è il Dio coranico”, ha citato un testo di Karol Wojtyla, che dissolve il dubbio suscitato dal bacio sul Corano: “Chiunque conoscendo l’Antico e il Nuovo Testamento, legga il Corano vede con chiarezza il processo di riduzione della Divina Rivelazione che in esso è compiuto[2].
 Benedetto XVI dal suo canto ha citato Emanuele II Paleologo, il quale dopo aver accusato di ateismo il suo interlocutore maomettano [3], gli rinfacciava di non poter immaginare “qualcosa di peggiore e assolutamente disumano, di ciò che egli [Maometto] fa prescrivendo che attraverso la spada si faccia largo quella fede che lui stesso proclamò. Credo che occorra esprimerlo nel modo più chiaro possibile. Di tre cose una ha costretto con la forza che avvenisse: o che si avvicinassero alla legge gli uomini di ogni angolo della terra, o che pagassero tributi e che svolgessero inoltre le attività degli schiavi o che, senza fare nessuna di queste due cose, venissero loro mozzate le teste con la spada, ed è questa, invero, la cosa più assurda. Perché? Dal momento che Dio non sa gioire delle stragi e il non agire secondo ragione è alieno da Dio. [4].
 L’imperatore bizantino concludeva, pertanto, che la dottrina islamica è in conflitto con la ragione oltre che con la misericordia: “Ciò che tu dici per poco non si spinge oltre l’irrazionalità.
 Di qui l’obiezione che l’imperatore rivolge al persiano “La fede è frutto dell’anima e non del corpo, e a chi conduce verso la fede occorre una lingua virtuosa e un retto pensiero, non la violenza, non la minaccia, non l’azzannare e il terrorizzare”.
 Quando il Paleologo rivolgeva queste parole all’interlocutore islamico Bisanzio era sotto lo schiaffo dei turchi, che l’avevano ridotto l’impero a poche, aride strisce di terra. Tuttavia il fondato timore della feroce ritorsione turca non forzò l’imperatore a contorcersi nell’auto censura. Il testo del Paleologo, infatti, smentisce le stucchevoli leggende intorno alle contorsioni del pensiero bizantino e dimostra che i bizantinismi abitano altre regioni dello spirito.
 Davanti all’incombente aggressività islamica, la Cristianità contemporanea ha elaborato una debole strategia, che è purtroppo condivisa e applaudita dai (numerosi e influenti) teologi ammaliati dal falso ecumenismo.
 Monsignor Rino Fisichella ha indicato la via da percorrere senza esitazioni: “Ragione e fede devono riprendere inevitabilmente il loro cammino comune. Benedetto XVI, a più riprese, ha ribadito che questa strada non solo permette al cristianesimo di essere fecondo nella via dell’evangelizzazione, ma consente anche ai non credenti di accogliere il messaggio di Gesù Cristo come ipotesi carica di senso e decisiva per l’esistenza[5].
 Anche Monsignor Brandmüller, in un articolo pubblicato nella rivista "La fiaccola", rivendica la verità storica, che il buonismo mediatico vorrebbe affondare nella melassa: “Mentre il Cristianesimo si è diffuso nei primi tre secoli, nonostante le persecuzioni e il martirio, in contrapposizione per molti aspetti al dominio romano – e comunque introducendo una netta separazione della sfera spirituale da quella politica – l’islam si è imposto con la forza di una dominazione politica”.
 Da questo rilievo discende un giudizio sulla jihad islamica opposto alle opinioni diffuse dagli intellettuali militanti sotto la bandiera bianca: “L’uso del termine jihad nella tradizione islamica - compreso quello che ne viene fatto oggi – è sostanzialmente univoco e indica la guerra in nome di Dio per difendere l’islam, un obbligo per i musulmani maschi adulti. Ci sostiene dunque che l’accezione di jihad come guerra santa costituisce una sorta di deviazione dalla vera tradizione islamica non dice la verità. La storia mostra purtroppo come la violenza abbia caratterizzato l’islamismo fin dalle origini, e come sia stato lo stesso Maometto a organizzare e a condurre sistematicamente le razzie nei confronti delle tribù che non volevano convertirsi e accettare il suo dominio”.
 Anche la rappresentazione dell’islam mite e tollerante nei confronti dei popoli del Libro (ebrei e cristiani), ai quali sarebbe consentito il tranquillo esercizio del culto, è risolutamente contestata da Brandmüller: “Nella realtà la situazione era molto meno idilliaca: cristiani ed ebrei potevano sopravvivere solo se accettavano il dominio politico musulmano e una situazione umiliante, aggravata dall’obbligo di pagare imposte sempre più pesanti”.
 Quanto alla sharia, Brandmüller dimostra che il suo fondamento è la triplice ineguaglianza: tra uomo e donna, tra maomettano e non maomettano, tra libero e schiavo: “La differenza più forte tra cristianesimo e islamismo è a proposito di un tema centrale come la concezione dell’essere umano. Lo dimostra il fatto che molti paesi islamici non hanno accettato la dichiarazione dei diritti dell’uomo promulgata dalle Nazioni Unite nel 1948, o l’hanno fatto con la riserva di escludere le norme che contravvenivano alla legge coranica, cioè tutte”.
 Il realistico ritratto dell’islam, il cui vertice speculativo è rappresentato dai tagliatori di teste, avvalora la tesi sulla scarsa consistenza del c. d. “islam moderato”. Tesi accreditata da un autorevole esponente dell’Istituto Affari Internazionali, Mario Arpino.
 Nel volume “Cento opinioni Sulla pace e sulla guerra dopo l’11 settembre”, edito da Mursia, Arpino, attesta, infatti, che gli islamici, da lui incontrati nelle conferenze internazionali, ritengono che il termine “moderato” sia un’offesa per i veri seguaci di Maometto. Moderato, dunque, significa non più islamico.
 Di seguito, Arpino rivela che, durante gli incontri con gli occidentali, i moderati ripetono continuamente che “L’islam politico dei terroristi è deviazione dalla vera interpretazione moderna, che esiste”. Ma aggiunge immediatamente che “essendo l’ambiente degli incontri per lo più laico, non sono rimasto del tutto convinto che ciò sia davvero il sentimento comune”.
 C’è da augurarsi che il giudizio dei teologi medievali (confermato da pontefici contemporanei) e le chiare puntualizzazioni di Brandmüller e di Arpino, destino nelle autorità religiose e politiche una più realistica e allarmata considerazione dei problemi posti dalla strisciante invasione islamica. Dio vuole che l'uomo viva e si salvi, non che rimanga nell'errore e che in esso sia in qualche modo confermato da incauti e sbiaditi testimoni della verità cristiana.

Piero Vassallo


[1] Il testo di padre Ricoldo è stato pubblicato nel 1992 da Nardini editore in Firenze. Il curatore e commentatore dell'opera, Giuseppe Rizzardi, nutrito di opinioni largamente "ecumeniche", tentò di correggere i giudizi dell'intransigente padre Ricoldo, senza peraltro ottenere risultati significativi.
[2] Cfr.: “Assisi: una preghiera, due modi d’intendere Dio (e l’uomo)”, in “Ragion politica”, 8 Ottobre 2004.
[3] Cfr.: Emanuele II Paleologo, “Dialogo con un persiano”, prefazione di Rino Fisichella, Introduzione, traduzione e note a cura di Francesco Colafemmina, Rubettino, Soveria Mannelli 2007, pag. 44.
[4] Dialogo con un persiano”, op. cit., pag. 65.
[5] Cfr.: “Dialogo con un persiano”, op. cit., pag. 16.


venerdì 29 agosto 2014

Gli Spagnoli sterminarono più briganti del Re d’Italia (di Paolo Pasqualucci)

CONTRO I MITI FABBRICATI DAI NEOBORBONICI

Gli Spagnoli sterminarono più briganti del Re d’Italia

Paolo Pasqualucci  ripropone e commenta una pagina  tratta dalla “Storia del Regno di Napoli” di Benedetto Croce.

Coi criteri dunque che i tempi comportavano, e che il carattere e la capacità, il grado di cultura della nazione dominante consentivano, col meglio e col peggio che i frequenti cambiamenti dei viceré e il loro vario animo e la varia capacità si tiravano dietro, i sovrani di Spagna governarono l’Italia meridionale, ed esercitarono quelle cure per il benessere e per l’interesse generale delle quali nessun governo si dispensa mai del tutto.  Così durante il periodo viceregnale la città di Napoli fu assai ingrandita e prese la forma che serba al presente, e fu provveduta di opere e di edifizi pubblici, che sono ancora tra i più grandiosi; e, se assai meno si provvide alle provincie, pure qualche strada venne restaurata e si fecero o riferecero ponti, e sulle coste furono erette torri di difesa, con le quali, a mezzo di segnali di fuoco, si aveva avviso in ventiquattr’ore di qualsiasi periodo minacciante.  Non riuscirono con ciò i viceré a impedire le incursioni dei barbareschi; come, del resto, non vi si riuscì in tutto il Mediterraneo fino al secolo passato [con la conquista europea dell’intero Nord Africa]; ma vi lottarono contro e le raffrenarono e le contrastarono, e in alcuni periodi con grande vigore, come nel governo del secondo duca di Ossuna; e una volta le galee napoletane assediarono e presero Durazzo, nido di corsari, e un’altra volta giunsero fin nel Bosforo e ne portarono via navi e dignitari turchi.  Certo, molti abitatori del Regno venivano rapiti e menati schiavi e poi riscattati con ingenti spese (onde le pie fondazioni per la redenzione dei cattivi); ma anche nel Regno abbondavano schiavi turchi, pei quali si dové perfino ordinare che portassero a segno distintivo la testa rasa col ciuffo[1].  Non riuscirono neppure i viceré a sradicare la delinquenza, e soprattutto il banditismo o brigantaggio, che era quasi un’istituzione alla quale il governo stesso faceva ricorso, come al tempo della guerra del Lautrec, e più volte in altre occasioni[2], e sulla quale contava il duca di Guisa[3] per estendere il suo potere sulle provincie; e di continuo vi ricorrevano i baroni, che ne erano manutengoli.   Ma anche il banditismo apparteneva all’Europa tutta in quei secoli, quantunque nell’Italia meridionale, come in altri luoghi meno frequentati dai traffici e meno civili, fosse più grave; e, a ogni modo, i viceré non lo lasciarono indisturbato, gli procedettero contro spesso con sforzo di energia, nella seconda met­à del cinquecento disfecero le bande di re Marcone in Calabria, che aveva costituito una sorta di governo ed esigeva i tributi locali, e quelle di Marco Sciarra in Abruzzo.  Ma era, come si diceva, l’idra sempre rinascente;  e già il viceré Toledo confessava, nel 1550, di aver fatto morire per giustizia diciottomila [18.000] persone, e che “non sapeva più che fare”[4]; e simili statistiche con migliai di afforcati e decapitati e arrotati misero fuori i seguenti viceré, quasi a dimostrazione del loro buon volere[5].   Tuttavia, dopo il 1647, la lotta fu condotta con maggiore coerenza e persistenza, troncando, come si è visto, le relazioni tra banditi e baroni, compiendo regolari spedizioni militari, ponendo taglie e castigando I favoreggiatori; le quali cose portarono l’effetto che tra il 1683 e il 1688, viceré il marchese del Carpio, il grande brigantaggio fu fiaccato in tutte le provincie, e anche nei montuosi Abruzzi, e non ricomparve se non dopo un secolo in conseguenza di nuovi commovimenti politici e sociali”.


[B. CROCE, Storia del Regno di Napoli (1925), Laterza, Bari, 1966, pp. 131-132.  Frasi tra parentesi di PP].


I “nuovi commovimenti” furono quelli apportati dall’invasione francese rivoluzionaria, in conseguenza della quale si produssero fatti simili a quelli già vistisi all’epoca dell’invasione degli spagnoli, chiamati inizialmente in soccorso dagli Aragonesi:  l’esercito si sfasciava, molti capi tradivano, eredi dei fedifraghi baroni di un tempo, privi del senso del bene comune e dello Stato, come i loro remoti antenati longobardi; solo i ceti popolari si sollevavano in difesa del re, ma in modo tumultuoso e disorganico, che in certe zone rurali trapassava a guerriglia, degenerando rapidamente in brigantaggio.
Questo “schema” si è ripetuto tre volte nella storia del meridione d’Italia, a partire dalla fine del Quattrocento, tralasciando per ora l’epoca anteriore (Manfredi non perse la battaglia di Benevento per colpa del tradimento sul campo di un suo parente?). 
Vorrei che i neoborbonici spiegassero al pubblico questo mistero: perché i meridionali in generale, dall’Abruzzo alla Calabria (la Sicilia fa caso a sé) non combatterono quasi mai bene inquadrati negli eserciti regolari della loro monarchia, battendosi invece bene ed anche eroicamente nelle rivolte popolari e nella guerriglia? Battendosi bene, da un punto di vista strettamente militare, anche come briganti ossia come banditi (ferocia a parte, largamente documentata, che provocava le ben note e feroci rappresaglie).
Inoltre, battendosi benissimo negli eserciti imperiali spagnoli (le famose “truppe napoletane”) e in quelli di Napoleone (la cavalleria napoletana, per esempio).  E anche negli eserciti dell’Italia unita, del Re d’Italia si sono forse battuti male? Nemmeno per sogno. E allora?
Mia interpretazione, del resto non isolata e che già troviamo in Croce: mancava la classe dirigente, una classe dirigente che avesse il senso dello Stato, del dovere, della cosa pubblica, capace di comandare un esercito nazionale, assumendosene le relative responsabilità, innanzitutto morali. Quando scoccava l’ora della verità, erano in troppi a pensare al proprio “particulare”, anche se non tutti, ovviamente. Del resto, questo male del “particulare” che prevaleva sul bene comune, era un male diffuso in tutta l’Italia preunitaria, non solo in quella meridionale.
E sull’esaltazione del “particulare” regionale e regionalistico ha voluto puntare la nostra attuale Repubblica, dopo il disastro del 1943-45, con i risultati che vediamo.
Per resistere ai mali del presente, che minacciano la sopravvivenza etnica stessa del popolo italiano, meridione incluso, vogliamo tornare all’antico “particulare”, arbitrariamente idealizzato e trasformato anzi in vero e proprio mito?  Neoborbonici ed antiitaliani in generale:  voi non dite il vero quando volete far credere nell’esistenza permanente di un diffuso sentimento di fedeltà ai Borbone, dall’Unità ad oggi.
È vero: Napoli era la città più monarchica d’Italia ma rimpiangeva i Savoia non i Borbone. I Borbone non li pensava nessuno. Si sentiva Napoli fedele al Re d’Italia, unitamente a quasi tutto il Sud, che aveva combattuto nel Regio Esercito, facendo il suo dovere sino al tragico epilogo finale.
La nostalgia per i Borbone, trasformati in mito, è fenomeno recente ed artificiale, nato anche come reazione alle offese insulse e agli scriteriati atteggiamenti antimeridionali di un altro antiitaliano doc:  Umberto Bossi.

Paolo Pasqualucci



[1] PARRINO, op. cit., II, 270.
[2] Per esempio, G. ROSSO, pp. 10-11;  GIANNONE, Storia, XXXVII, 6.
[3][3] Mémoires, p. 175, e passim.
[4] Lettera all’agente toscano, in Arch. stor. ital., IX, 124.
[5] Nel raro vol.:  Governo della campagna dell’eccell. Signor Marchese de los Velez Viceré etc. (Napoli, 1683), è la statistica delle uccisioni e giustizie e indulti di banditi durante quel viceregnato; e, per esempio, pei primi quattro anni (1675-79) vi sono notati 57 capibanditi e 311 banditi uccisi, 17 capibanditi e 131 banditi giustiziati, 913 condannati alle galere, 167 alla milizia, e via.

mercoledì 27 agosto 2014

I piani alti della sapiente pedofilia

I piani alti della sapiente pedofilia

Sotto l’ermellino neopagano

 I buonisti che versano lacrime psicosociologiche sulle disgustose imprese dei pedofili  – uso della prostituzione minorile, commercio di immagini orribili, sevizie e uccisioni rituali di minori – si sottraggono tuttavia all'obbligo di salire alle fonti alte del male.
 Si ha pertanto il sospetto che ingegnosi persuasori/dirottatori inducano l’indagine criminologica ad insistere sulle cause periferiche dell'orrore, l'incontinenza e la protervia della borghesia danarosa e gaudente, l'avidità delle madri mezzane, l'incoscienza delle giovanissime prostitute,  ad esempio.
 Si ha la sensazione che in alto sito si desideri evitare il qualunque avvicinamento ai santuari thanatofili, nei quali una pregiata, insindacabile e intoccabile cultura almanacca e promuove la perversione totale/finale dei popoli cristiani.
 La prima causa delle turpitudini, infatti, è il trasbordo dell'Occidente dalla razionalità cristiana all’irrazionalismo pagano/dionisiaco, una caduta che il potere culturale/oscurantista ha organizzato con scienza squisita, nascondendo la tenebrosa corruzione negli splendori (presunti) della mitologia classica.
 La torbida, elementare ferocia della religiosità arcaica, dopo esser passata attraverso il porno-delirio di uno raffinato squadrone di intellettuali da porcile - Donatien Alphonse François de Sade, Max Stirner, Friedrich Nietzsche, Otto Weininger, Tristan Tzara, Henri Miller, Jean Paul Sartre, Simone De Beauvoir, Georges Bataille, Herbert Marcuse, il metafisico del sesso Julius Evola, Jacob Taubes, Elemire Zolla, Giovanni, Testori, Sergio Quinzio  ecc. - è entrata, a spron battuto, nel circuito della cultura di massa, sotto le vesti giovanili del piacere, riabilitato e festante nella California francofortese e nella Parigi del joli mai
 Dietro il palcoscenico porno-mistico, acclamati dai trombettieri che prosperano sulle rovine della falsa destra e della sinistra a misura del vespasiano, agiscono indisturbate le lobbies dei pervertiti dalle mani pulite, rispettate associazioni culturali per delinquere, invano denunciate dal disperato coraggio del Telefono Arcobaleno. 
 Ora Nume e Lume dell’oligarchia libertina è l'editoria iniziatica, che ha prodotto un’enorme quantità di libri per specialisti aperti in tutte le direzioni del morbido vizio e della tagliente ferocia. 
 L'aggiornato catalogo si estende dai caliginosi testi dell’ateologo Pierre Klossowski (fratello del celebrato pittore di fanciulli Balthus) un autore, che, nella follia di Nietzsche, ha contemplato l’esito meraviglioso della vita orientata al turpe e al subumano, ai saggi di James Hillman, teologo delle malattie mentali  (il suo assioma fondamentale proclama che “la pazzia è una dea”) e apologeta delle divine devianze, connesse alla paranoia, dal californiano Marcuse dal neo-francofortese Taubes.
 Sopra l’armoniosa linea culturale, è collocata la  dottrina tantrica di Mircea Eliade, (ectoplasma buddista, magnificamente smascherato e descritto da Renato Dal Bosco), sapienza il cui messaggio fu  rilanciato dal defunto professor Elémire Zolla:il maestro procede fino al rito supremo, quando introduce una vezzosa e mestruata dodicenne con cui amoreggerà, per coinvolgere alla fine anche il discepolo, che dovrà in seguito offrire una undicenne al maestro” (Corriere della Sera, Cultura e Spettacolo, 6 novembre 1995).
 L’audacia iniziatica di Zolla si arrestava alla dodicenne, e non diceva nulla sull’età e sul ruolo del discepolo invitato.
 Il venerato Roberto Calasso, nell’autunno del 1997, nella prima pagina dell’autorevole Corsera, quotidiano dei benpensanti, interpretava come amplesso sacro la violenza sessuale sui minori: “Il corpo delle ninfe [dodicenni e undicenni] è il luogo stesso di una conoscenza terribile, che dà la chiaroveggenza”.
  Data queste premesse sapienziali non è difficile indovinare l’esito finale: le lezioni oxfordiane di Calasso, presentano, nella cornice della giungla salottiera, la nuova ed estrema spiritualità.
 Oxford è una sede ideale per le prestazioni di quel genere, lo ha sottolineato Massimo Caprara in un capitolo della sua opera (“Gramsci e i suoi carcerieri”) dedicato all’iniziato Piero Sraffa e ai suoi amici.
  Sorprende e provoca disagio quello che un esponente della disgregata e fortunatamente defunta cultura della destra polifrenica, Mario Bernardi Guardi, nella vacua cupidigia di stravaganza, scriveva, nel benpensante quotidiano “Tempo” del 20 febbraio 2000, a proposito del saggio calassiano: “Lolita è un demone immortale travestito da bambina, in un mondo dove i nympholeptoi [termine inconsueto, che indica, nascondendoli nella nube della ricercatezza filologica, i razziatori di bambini a scopo sessuale - i pederasti, quando decidessimo finalmente di abolire il quasi vezzeggiativo e indulgente termine “pedofili”] possono scegliere soltanto tra essere considerati criminali o psicopatici. … Ninfa è il «medium» dove gli dei e gli uomini avventurosi (sic!) s’incontrano”.
 In realtà, Calasso è stato uditore di Jacob Taubes e di Pierre Klossowski, autori che si sono opposti al decalogo di Mosé e alla redenzione di Cristo, lodando e sacralizzando la trasgressione mistica.
 Nell’estate del 2000, i quotidiani hanno ricordato le ributtanti prodezze pederastiche consumate negli asili e vantate, senza ombra di ritegno, da Daniel Cohn-Bendit, uno dei più coerenti discepoli di Taubes.
 Le imprese rivoluzionarie di Cohn-Bendit dimostrano, in modo inequivocabile che la zavorra iniziatica progetta l’affondamento della civiltà  occidentale in una fogna. E’ questa la terra promessa della nuova rivoluzione, promossa dagli stregoni officianti nell'invincibile banca thanatofila? E' questa la via americana alla felicità? E' questo l'orrore che i cattolici non devono giudicare secondo secondo giusto giudizio?

Piero Vassallo

domenica 24 agosto 2014

Per una carta del partito cattolico

Un saggio di Paolo Pasqualucci

Per una carta del partito cattolico


L'umiliante naufragio del centro-destra al termine di una spericolata e innaturale navigazione sulle acque spurie dell'ideologia liberalista con tonalità esoteriche, pone il problema di disegnare la figura di un partito politico all'altezza di quella tradizione cattolica, che ha costituito il nobile fondamento della vita e della cultura italiana.
 Per uscire dall'impotenza rovinosa, fatta cadere nella vita degli italiani da politicanti ora abbagliati/intossicati dalle illusioni democristiane e conciliari intorno ai sopportabili errori dei moderni, ora storditi da un tradizionalismo inquinato da fiabe esotiche e da oscene magie, occorre pensare e progettare con  impavido rigore intellettuale un progetto politico non inquinato da suggestioni oniriche.
 Il timore del "si dice" deve cedere il passo a un coraggio proporzionato alla gravità del pericolo incombente e alla frivolezza dei rimedi finora messi in atto dalla politica politicante. 
 La decadenza italiana, leggibile nel numero dei miscredenti e degli eretici inconsapevoli, nei dati sulla denatalità, nelle statistiche sugli esiti catastrofici dei matrimoni e sull'incremento delle tossicodipendenze e dei suicidii, non consente l'esercizio del pensiero dimezzato e smidollato dalla falsa e ingannevole moderazione, che è predicata dai pulpiti della teologia modernizzante e dalle nicchie del liberal-conservatorismo di matrice viennese.
 Ora l'intervento di Paolo Pasqualucci nella disputa intorno alle rovine seminate dalla destra inautentica e velleitaria, è proporzionato (fin dal titolo del saggio edito in questi giorni da Marco Solfanelli: "Per una carta del partito cattolico") alla serietà dei problemi, che hanno turbato i c. d. conservatori italiani, prima di spingerli nella fossa del liberalismo e del libertinismo.
 Il più serio dei problemi emergenti dalle macerie a destra, d'altra parte, è costituito dall'illusione intorno alla radunata in un solo partito di ideologie e teologie fra loro incompatibili. Si tratta della chimera sincretista, che contempla la surreale unità di marciatori discordi, in cammino verso opposti e incompatibili traguardi.
  Il rigore dottrinale di Pasqualucci può e deve essere condiviso da quanti capiscono infine che la via del pensiero intransigente è tanto aspra e difficile quanto priva di alternative non fallimentari e non ridicole. 
 Il problema del quale Pasqualucci propone la soluzione non è la ricostruzione della perdente destra laica, non la rielaborazione in modo nuovo del passato missino o di un centro destra dei cattolici moderati depurato delle sue tradizionali ambiguità, ma la fondazione di una destra cattolica anzi cattolica e nazionale.
 Opportunamente Pasqualucci sottolinea che tale destra "si iscriverebbe solo parzialmente nella destra post-fascista, dato che nel Msi la componente strettamente cattolica costituiva solo una parte del movimento e nemmeno tanto ampia". 
 Il partito, di cui Pasqualucci disegna un'essenziale e ideale figura, si dovrebbe rivolgere alla maggioranza degli italiani che "non sanno più per chi votare, non trovando nelle forze superstiti di centro-destra una difesa anche parziale di certi fondamentali valori cattolici, che anzi ora vengono da quelle forze ignobilmente traditi".
 L'intenzione di Pasqualucci - ovviamente - non è fondare e gestire dall'oggi al domani un partito politico, ma indicare con chiarezza i princìpi che devono guidare l'attività intesa alla formazione di una nuova classe politica capace di condurre un'azione seriamente intesa ad affrontare e risolvere gli angoscianti problemi generati dall'influsso (nella cultura democristiana e in quella delle destre) delle filosofie e delle mitologie anti-cristiane.
 Pasqualucci, pur rammentando che i valori fondamentali del cattolicesimo non sono come tali né di destra né di sinistra ammette che un partito cattolico può essere di destra: "Certamente se la famosa triade Dio, Patria e Famiglia, deve a ben vedere costituire la tavola dei valori fondamentali di un partito veramente cattolico. Si tratta di una triade che, nell'uso tradizionale, è sempre stata considerata di destra e mai di sinistra".
 A ragion veduta Pasqualucci afferma che il partito cattolico "sarà un partito legalitario, perché operante nell'ambito dell'ordinamento esistente, che tuttavia si propone di modificare e riformare in tutto ciò che non sia compatibile con il cattolicesimo e in tutto ciò che appaia superato e ingiusto, da un punto di vista politico, inteso in senso largo".
 La proposta di Pasqualucci disegna un movimento politico finalizzato all'attuazione di un programma arduo ma non irrealistico, ossia paragonabile a quello che il venerabile Pio XII aveva proposto alla indocile e refrattaria Dc di De Gasperi.
 Il saggio di Pasqualucci, in quanto disegna puntualmente la figura di una destra cattolica e nazionale, immune dalle suggestioni del liberalismo, è specialmente raccomandato quale precisa indicazione della via d'uscita dalle strettoie anacronistiche, in cui stazionano i teorici di una tradizione più antica e più vasta della tradizione biblica e gli astratti reazionari, catturati dai sognati/incapacitanti progetti di restaurazioni asburgiche r/o borboniche.


Piero Vassallo

venerdì 22 agosto 2014

Filippo II, l'argine cattolico alla minaccia islamica e all'insidia luterana

Demonizzato dai laicisti, censurato dalla scolastica conciliare
ma il suo esempio è sempre attuale

Filippo II, l'argine cattolico alla minaccia islamica e all'insidia luterana

 Dopo l'infelice Concilio Vaticano II, gli storici storditi dalla teologia modernizzante hanno obbedito ai comandi gridati dai biliosi rappresentanti della scolastica laicista e alle lamentose autocritiche recitate dalle condiscendenti sirene dell'ecumenismo da cabaret.
 L'attività degli storiografi fedeli ai nuovi teologi si è pertanto rovesciata, con implacabile e insensato accanimento, in un'attività conformistica, finalizzata  ad espellere dall'elenco dei veri fedeli, le sgradite personalità, che lo spirito del concilio innovatore ha oscurato, in quanto giudicati colpevoli di amore intransigente/intollerante per la Verità cattolica.
 La severa e furente revisione/censura attuata dallo squadrone vaticanista/buonista, è stata compiuta in ossequio ai suggerimenti del potere culturale instaurato dagli atei: gli emblemi della lotta contro il maligno (ad esempio San Giorgio) sono stati sdegnosamente e frettolosamente allontanati dal calendario; i pensatori refrattari e allergici alle viete mode filosofiche, ad esempio Reginaldo Garrigou Lagrange, Cornelio Fabro, Tito Centi, Raimondo Spiazzi e Antonio Livi, pensatori ortodossi, nell'opera dei quali sono esposti gli argomenti - tratti dalla dottrina di San Tommaso - necessari alla confutazione di errori madornali spacciati con arte sottile dalla setta ateista - sono stati deposti nel dimenticatoio e sostituiti da filosofastri hegelianizzanti; gli strenui difensori dell'ortodossia (ad esempio il cardinale San Roberto Bellarmino) sono abbandonati vigliaccamente al tritacarne della storiografia laica o esoterica.
 Alla fatua luce dell'ecumenismo/sincretismo postconciliare, il re ispanico Filippo II (1527-1598), uno dei promotori della coalizione vincente a Lepanto, è stato accusato di adesione all'avventizia ideologia assolutista (diceria che Francisco Elias de Tejada ha dimostrata priva del qualunque fondamento) e  giudicato colpevole della imperdonabile resistenza all'eresia luterana e della cacciata dei musulmani dal suo regno.
 Di recente l'avventuroso criterio, che ha originato la dannazione della memoria del re intollerante, è  messo in dubbio dalle imprese sanguinarie dell'ISIS, nelle quali rifulge la ferocia insensata, che è ispirata dalla falsa religione di Maometto.
 Diventa pertanto  lecita la revisione della storiografia opportunista, che ha infamato la figura del re ispanico in quanto avversario dell'islam e del protestantesimo, disgraziatamente attivo nel pensiero degli apprendisti stregoni d'America, che hanno inventato l'ISIS.
 In uno scenario che rivela i pii limiti dell'accogliente teologia lampedusiana, si può finalmente rammentare, al seguito di Paolo Caucci, di Roberto De Mattei, di Tommaso Romano e di Pucci Cipriani, che gli implacabili denigratori delle imprese compiute dal grande re ispanico avevano nascosto il vero motivo dell'espulsione dei musulmani dalla Spagna del sud, ossia la loro criminogena collaborazione con i pirati, che infestavano le acque del Mediterraneo occidentale e tormentavano gli abitanti dei paesi affacciati su quel mare.
 Aperta una breccia nel muro della storiografia scioccamente ecumenista, sarà forse possibile rammentare i meriti di Filippo II, ad esempio la strenua difese della Cristianità, minacciata dall'Islam e insidiata dalla  della lues luterana e il decisivo aiuto autorevolmente prestato alla consacrazione della riforma dell'ordine del Carmelo avviata da Santa Teresa d'Avila Dottore della Chiesa (1515-1582).
 Gli untori del falso e disgraziato ecumenismo possono strillare a squarciagola contro la memoria del grande re cattolico. Ma la testimonianza della grande Santa soverchia e ridicolizza la loro voce, esaltando la pietà del protettore dei carmelitani scalzi: "Mi fece tanto favore il Re, al presente è don Filippo, molto amico nel favorire i religiosi che vede fedeli alla loro professione, il quale avendo saputo il modo di vivere di questi monasteri ci favorì in tutto" (Cfr. Santa Teresa di Gesù, Epistolario, Edizioni OCD, Roma 1982, pag. 160).
 In una lettera datata 11 giugno 1573, la Santa d'Avila scrive al Re: "La divina Maestà di nostro Signore la conservi per molti anni, quanti sono necessari alla cristianità. E' un gran conforto che nei travagli e nelle persecuzioni di cui essa soffre, Dio, nostro Signore, abbia un così gran difensore e un aiuto così valido per la sua Chiesa com'è vostra maestà"  (Cfr. Santa Teresa di Gesù, Epistolario, op. cit., pag. 195. Per volontà di Filippo II, devoto alla riformatrice del Carmelo, le lettere di Santa Teresa d'Avila sono conservate nell'archivio dell'Escorial).
 Il 4 dicembre del 1957 la santa si rivolge al re per perorare la causa di fra Giovanni della Croce ingiustamente perseguitato.
 Santa Teresa inizia la lettera con una impegnativa dichiarazione: "Io sono fermamente convinta che nostro Signore abbia voluto servirsi di vostra maestà e l'abbia scelto come sostegno per la salvezza del suo Ordine [l'ordine del Carmelo riformato] pertanto non posso fare a meno di ricorrere a vostra maestà per le cose che lo riguardano" (Cfr. Santa Teresa di Gesù, Epistolario, op. cit. pag. 200).
 La riforma dell'ordine carmelitano, appassionatamente sostenuta da Filippo II, fu uno degli atti più significativi della Controriforma, l'impresa che attivò la difese immunitarie della Cristianità impedendo il naufragio dei fedeli nelle acque melmose del protestantesimo.
 Purtroppo la tragica vicenda dell'Invincibile Armata impedì il successo dell'azione intrapresa da Filippo II per arrestare il devastante cammino occidentale della sciagura luterana, mentre la rivolta delle Fiandre impedì la raccolta dei frutti gloriosamente maturati a Lepanto.
 Tuttavia il regno del grande re ispanico costituisce il punto più alto della resistenza agli errori contrapposti, che incombono tuttora sulla Cristianità: dal vicino oriente il cieco fanatismo islamico e dall'occidente la demenziale thanatofilia dei banchieri americani.

 Filippo II rappresenta il modello dell'alternativa cattolica al falso ecumenismo e al delirio teologico in atto. Un magnifico esempio proposto alla qualunque minoranza decisa ad insorgere contro i devastatori clericali della Cristianità. 

Piero Vassallo

martedì 19 agosto 2014

TEOLOGIA DELLA PERFEZIONE CRISTIANA: Invito alla lettura (di Mauro Buzzetti)

Certa bonum certamen fidei
I Timoteo 6,12


Antonio ROYO MARIN
TEOLOGIA DELLA PERFEZIONE CRISTIANA
Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo, 19949 (1987)


Il docente e teologo domenicano Antonio Royo Marin (1913-2005), ha consegnato alla storia della teologia “una” - come la definisce (p. 19), sulla base solida di San Tommaso, trattandosi di un testo preconciliare (la prima edizione spagnola è del 1954) – il testo che ancora oggi rappresenta uno dei vertici didattici del combattimento spirituale cattolico, integrando dottrina ed esempi tratti dalla vita dei mistici.
Oltre alla utilissima Introduzione Generale (1) – per l'inquadramento della materia – e alle altrettanto utili appendici, il testo si articola in 4 parti e in 659 paragrafi numerati progressivamente per agevolare i riferimenti e i richiami:
1) Fine della vita cristiana
2) Principi fondamentali della Teologia della Perfezione
3) La vita cristiana nel suo sviluppo ordinario
4) I fenomeni mistici straordinari
Volendo essere questo solo un invito alla lettura non entriamo nel merito dei temi trattati una sorta di indice sintetico, vista l'ampia articolazione di quello reale, o anche sussidio introduttivo alla materia – e, a seguire, quelli che a parere di chi scrive costituiscono i motivi principali che ne consigliano la lettura e lo studio rispetto ad altri testi di ascetica.

1) Nella prima parte (Il fine, pp. 41-90, in 3 capitoli e una appendice), si chiarisce la relazione tra la propria felicità, la glorificazione di Dio attraverso la propria vita, la configurazione a Cristo e il ruolo di Maria S.S., nella nostra santificazione:
— Il fine della vita cristiana
— La configurazione a Cristo
— La Vergine Maria e la nostra santificazione
Appendice: La Santa Schiavitù mariana

2) Nella seconda parte (Principi fondamentali della T.d.P., pp. 93-342, in 5 capitoli) vengono illustrate quelle nozioni e quei concetti che servono da fondamento per affrontare – nelle due parti successive – le tappe operative, ordinarie e straordinarie, del combattimento spirituale.
L'articolazione utilizzata dal p. Royo Marin è la seguente:
— Natura e organismo della vita soprannaturale
— Sviluppo dell'organismo soprannaturale
— Perfezione cristiana
— Natura della mistica
— Relazione tra la perfezione e la mistica

3) Nella terza parte (La vita cristiana nel suo sviluppo ordinario, pp. 343-1024, in 11 capitoli) l'Autore descrive la parte del combattimento spirituale che chiama ordinaria – per distinguerla da quelle realizzazioni che, in pratica, sono riservate a pochi, ossia sono straordinarie – e che separa in ulteriori due fasi della vita di perfezione:
— libro primo: Aspetto negativo della vita cristiana (negativo da “non fare”) ossia l'eliminazione degli impedimenti alla nostra santificazione;
— libro secondo: Aspetto positivo della vita cristiana, ossia tutto ciò che si deve praticare per giungere alla santità (secondo il progetto di Dio per ognuno).
Il libro primo di questa terza parte si svolge in 6 capitoli:
— La lotta contro il peccato
— La lotta contro il mondo
— La lotta contro il demonio
— La lotta contro la propria carne
— La purificazione attiva delle potenze
— Le purificazioni passive
Il secondo libro si articola in 5 capitoli distinti in due parti:
I) Mezzi fondamentali di perfezione
— I sacramenti (Penitenza, Eucarestia e Santa Messa)
— Le virtù infuse e i doni dello Spirito Santo (sono esaminate le virtù – teologali e cardinali o morali insieme ai doni corrispondenti)
— La vita di orazione
II) Mezzi secondari di perfezione
— Mezzi secondari interni (legati alla persona, di tipo psicologico e fisiologico)
— Mezzi secondari esterni (legati al metodo, che si conclude con una appendice sul discernimento degli spiriti, complementare alla parte sulla direzione spirituale)

4) Infine la quarta parte che tratta de “I fenomeni mistici straordinari” (pp. 1025-1132, in 2 capitoli e una parte introduttiva):
— Le cause dei fenomeni straordinari
— I fenomeni in particolare

Veniamo ora al nostro “invito alla lettura”.
Abbiamo parlato di vertice didattico per almeno 10 motivi che andiamo a sintetizzare.
1) Intanto lo stile che consente un facile approccio non solo agli studiosi e specialisti (docenti, direttori spirituali e sacerdoti) ma anche a tutti coloro che ritengono rispondere al comando di Cristo <> (Mt 5,48), attraverso un lessico organicamente spiegato, tanto da costituire un glossario fondamentale della materia (1).
2) Il collegamento continuo alla Somma Teologica e alla altre opere minori di San Tommaso, con un riferimento programmatico alla enciclica di S.S. Pio XI “Studiorum Ducem” del 1923 (2).
3) La spiegazione del rapporto organico tra le parti della teologia che introducono o affiancano quelle della Perfezione (e che altri autori chiamano anche Teologia Spirituale o Teologia Ascetica e Mistica): ossia la Teologia Dogmatica (da cui provengono i principi), la Teologia Morale (di cui la T. d. P. costituisce lo sviluppo o il compimento) e la Teologia Pastorale (che insegna come portare tutti – attraverso la direzione spirituale – al combattimento dello Spirito, secondo i doveri di stato e il progetto di Dio su ognuno).
4) I riferimenti – per i possibili approfondimenti e confronti – agli altri autori che trattano gli stessi temi – ricordiamo tra gli altri il p. Reginaldo Garrigou Lagrange o.p. (1877-1964), il certosino Francesco Pollien (1853-1936), il benedettino Columba Marmion (1858-1923) – attraverso la citazione di una vastissima bibliografia, in introduzione generale e delle parti, a fondo pagina e nell'appendice storico-bibliografica.
5) La descrizione progressiva e sistematica del cammino di perfezione, come esemplifichiamo nella sua distinzione tra vita ascetica e vita mistica: <> (p.14).
6) L'utilizzo di una ferrea logica e di una organizzazione scientifica moderna della materia, esemplificata non solo dall'articolazione tomista in oggetto, fine e mezzi ma anche dalla strutturazione in parti, sezioni, capitoli e paragrafi (numerati, come ricordavamo, progressivamente fino al 659).
7) Il chiaro riferimento alla gerarchia delle fonti teologiche (p. 30 e segg.), della dottrina e della Rivelazione: Scrittura, Tradizione, Magistero ordinario e solenne.
8) Il modello cristologico della perfezione (p. 47, La configurazione a Cristo): la perfezione è realizzare con fedeltà il progetto del Padre – glorificandolo con la nostra vita – a cui si oppone il peccato (che frequentemente si manifesta anche come un “nostro progetto buono”, di cui Dio diventa, in modo idolatra, un venerabile strumento).
9) La capacità di sintesi che ad esempio emerge dalla definizione della Teologia della Perfezione: <> (p. 23).
10) Le sue fitte 1214 pagine (sono scritte con un carattere così piccolo che per non perdere la vista servirebbe una edizione di almeno il doppio della foliazione) sono corredate da 3 fondamentali strumenti di ricerca e di approfondimento: il Prospetto Storico-Bibliografico, dove gli autori citati, talora con brevi cenni biografici, e la loro produzione sono articolati per periodo e scuole di appartenenza (pp. 1135-1163), che costituisce una vera e propria, completa storia della spiritualità cristiana per titoli; l'indice analitico (tematico) e l'indice onomastico.

Ringraziamo questo fedele figlio della Chiesa per i bene che ha fatto e farà a tante anime, che riusciranno a vincere il vizio dell'accidia e affrontare un lavoro così utile per la salute propria e del mondo nel quale vivono.

Rapallo, 16 agosto 2014

Mario Buzzetti




NOTE

(1) Nell'Introduzione Generale – pp. 11-40 (in 7 paragrafi) – definisce la terminologia utilizzata, attività indispensabile per il neofita e utile per tutti: vita spirituale e soprannaturale, perfezione cristiana, ambito naturale e soprannaturale, virtù acquisite e infuse, doni dello Spirito Santo, orazione, ascetica, mistica, teologia dogmatica, morale, pastorale, teologia naturale (o teodicea) e soprannaturale, fonti (Rivelazione, Scrittura, Tradizione, Magistero ordinario e solenne), mistica dottrinale e sperimentale, psicologia razionale e sperimentale.
(2) p. 10, <<(…) se qualcuno vuole conoscere a fondo questi e altri punti fondamentali della teologia ascetica e mistica, è necessario che si rivolga, anzitutto, all'“Angelico Dottore”, 29/6/1923, in Acta Apostolicae Sedis (A.A.S.) 15, 1923, p. 320


domenica 17 agosto 2014

Un'abbagliante futurologia

"Il terzo millennio"

Un'abbagliante futurologia

"C'è una trascendenza che accomuna credenti e non credenti: è quella del futuro sul presente, specie quando il futuro viene con il passo della imprevedibile diversità".
Ernesto Balducci

 Mario Pagliai, elegante ed affermato editore in Firenze, propone la rilettura del saggio "Il terzo millennio", scritto nel 1981 dallo scolopio padre Ernesto Balducci, al fine di giustificare l'incontro della speranza cristiana (quale fu ripensata dai teologi modernizzati nel Vaticano II) con l'ideologia californiana e con il mito del progresso, revisionato e ridimensionato dal Club di Roma.
 Nella premessa alla nuova edizione del saggio il presidente della fondazione Balducci, Andrea Cecconi, afferma che "il monito espresso allora da padre Balducci - gli uomini del futuro o saranno uomini di pace o non saranno - appare ancor oggi di una attualità sconcertante, così come il Pontificato di Papa Francesco sembra alimentare la speranza in quella direzione auspicata per la chiesa da Balducci oltre trent'anni or sono". 
 E' probabile che le enigmatiche e/o sincopate esternazioni di papa Bergoglio alludano, in qualche modo, alla chiassosa teologia secolarizzata, che padre Balducci aveva dedotto dall'eterodosso e fulminante pensiero di Teilhard de Chardin. Il celebrato scolopio sostiene, infatti, che "Nessuno come Teilhard aveva reso esplicita la correlazione, fatta poi dal concilio [il Vaticano II], tra il mistero dell'uomo e il mistero di Cristo. La correlazione è, nella visione teilhardiana, vera e propria identità".
 Certo è che la nuova direzione della Chiesa desiderata e auspicata da Balducci non escludeva tassativamente l'incombere di un vago dubbio sulla trascendenza del fine assegnato alla vita umana ("ogni pretesa di dare al sentimento religioso un orizzonte immediato fuori di questo mondo e delle sue concrete contraddizioni mi appare come una variante del principio di morte"), dubbio che si rovesciava  nell'inquietante affermazione della necessità di resistere alla tentazione di compiere atti di pietà: "di anno in anno si moltiplicano le occasioni in cui il credente, proprio perché credente, è costretto a combattere la religione come una delle più subdole minacce al futuro dell'uomo". 
 Nell'orizzonte della nuova, aggiornata cristianità, inoltre, sembra svanire, in una sarcastica risata, la fede nella divina provvidenza: "le costruzioni provvidenzialistiche della storia, come quelle di Agostino, di Dante, di Bossuet e di Hegel [stupisce l'inedito e avventuroso accostamento della teologia/immanente di Hegel alla coscienza storica dei veri credenti] cadono come scenari infantili e con esse cade nel nulla una parte di me, una parte della coscienza occidentale che io avevo assimilato, ivi compresa la coscienza biblico-cristiana in quanto eredità culturale".   
 Padre Balducci era convinto che, prima del Vaticano II, la Chiesa cattolica fosse posseduta dal pessimismo, un vizio di mente che l'aveva resa capace di condannare come apostata il mondo moderno e "di contestare momento dopo momento le tappe della cultura laica".
 La polemica di Balducci sembra indirizzata  contro una realistica e puntuale affermazione contenuta nel Radiomessaggio letto da Pio XII nel Natale del 1956: "Qualche cosa non procede rettamente nell'intero sistema della vita moderna, un essenziale errore deve corrodere la sua radice".
 Pio XII aveva tuttavia affermato (Radiomessaggio nel Natale del 1953) che "è innegabile che il progresso tecnico viene da Dio, dunque può e deve con durre a Dio", pertanto il fedele è "ben lontano dal sentirsi mosso a sconfessare le meraviglie della tecnica".
  Papa Pacelli segnalava un pericolo strisciante sotto l'entusiasmo:  "la tecnica moderna dispiega intorno all'uomo contemporaneo una visione così vasta da essere confusa da molti con l'infinito stesso". Di  tale confusione erano vittime i banditori della cultura laica, strenuamente e irremovibilmente difesa da Teilhard e da Balducci, sordi o refrattari all'insegnamento di Pio XII.
 Il giudizio di Pio XII sull'abbaglio accolto dal pensiero progressista, secondo l'opinione di Balducci, teologo carismatico ma non vedente la trionfale avanzata dell'errore moderno, sarebbe stato corretto e smentito  dalla candida semplicità di Giovanni XXIII, il quale "senza appoggiarsi a nessun argomento di cultura ha scosso la sua chiesa  in profondità semplicemente perché ha rievocato con forza la sua ragione d'essere che è niente più e niente meno che il servizio dell'uomo. Egli ha dimostrato contro i profeti di sventura che la loro intransigenza e la fedeltà alle vere attese dell'uomo sono inconciliabili".
 Il rigore e intellettuale. la fedeltà ai principi e la sana intransigenza sono la pasta di cui sono fatti quei profeti di sventura, che ostacolano la corsa dei profeti verso l'umanesimo senza aggettivi.
 Il servizio all'uomo sembra sostituire il fine tradizionale della cristianità, che è rendere gloria a Dio. Una sostituzione che è coerente con l'ardita e apprezzata [da Balducci] opinione secondo cui la liberazione dal pessimismo arcaico avrebbe avuto lontano inizio dalla insorgenza attuata dai sofisti nel VI secolo a. C., "quando l'uomo sciogliendosi dalla sua originaria sudditanza alla natura e al gruppo tribale, si pose quale misura di tutte le cose".
 Più avanti il sincretismo di Balducci si spinge oltre e tesse la lode delle "grandi visioni del mondo la cui potenza creativa non si è ancora esaurita. In Cina presero forma il taoismo e il confucianesimo, in India, la grande spiritualità delle Upanishad e il messaggio di liberazione del Budda, nell'Iran la predicazione messianica di Zoroastro, tra gli Ebrei il profetismo col suo senso della storia come cammino verso un adempimento".
 A chiarimento del significato che si deve attribuire alla fede nell'uomo misura di tutte le cose, Balducci, affermata la "totale laicità di Gesù di Nazareth", rammenta che "nessuno come Teilhard aveva reso esplicita la correlazione, fatta propria dal concilio, tra il mistero dell'uomo e il mistero di Cristo. La correlazione è, nella visione teilhardiana, così stretta da diventare, nel suo sbocco finalistico, vera e propria identità, in quanto come punto Omega, il Cristo sarà la supercoscienza in cui troverà organica unità un genere umano giunto finalmente al colmo della sua complessificazione. Dalla materia prima alla Supercoscienza unificante, le tappe dello slancio evolutivo scandiscono anche le tappe del Regno di Dio".
 Al lettore già sbigottito da un tale atto di fede nella mitologia teilhardiana desta stupore anche l'affermazione, di bizzarro stampo progressista, secondo cui "le vette illuminate dal messaggio che va oltre di noi, sono le grandi figure degli anni Sessanta - da Guevara a Luther King, da Ho-chi-minh a Mao, da Lumumba a Cabral, da Angelo Roncalli a Camillo Torres". Un passo indietro nel tempo e Lenin, Stalin e Beria sarebbero entrati nel pantheon del nuovo cristianesimo. Forse anche Hitler, sotto un travestimento eco-animalista.
 Balducci, inoltre, non esita a dichiarare che "il '68 è l'anno di nascita dell'homo novus, che ebbe allora la sua epifania pubblica nelle piazze e nelle aule universitarie e la sua legittimazione ideologica nelle enunciazioni di non pochi rappresentanti del sapere antropologico. Accanto al maestro di spiritualità contemplativa Thomas Merton [il monaco che, nel 1968, dichiarò di stimare il buddismo, tacendo sul suo orientamento nichilista] e al più rinomato erede di Marx e di Freud, Herbert Marcuse, possiamo chiamare in causa lo psichiatra Ronald Laing [il fondatore della scuola anti-psichiatrica] "autore del capovolgimento dei concetti clinici di normalità e di follia". Non è forse inutile rammentare che Laing fu l'ispiratore del  movimento rivoluzionario i cui, esponenti affermavano la natura profetica della follia e il carattere demenziale della psichiatria indirizzata alla cura dei profeti (in delirio).    

r

 Il traguardo indicato dall'opera di Balducci "è una fede cristiana che abbia integrato in sé i livelli di sviluppo della ragione moderna e si è divezzata dall'affidare il proprio annuncio alle predisposizioni religiose dell'uomo, dallo stare in agguato, alla periferia del villaggio, per attendere e imprigionare l'uomo deluso in fuga. In seguito a una rilettura del Nuovo Testamento condotta secondo i criteri dell critica storica [modernista?] il credente si trova in grado di spogliare i fondamenti della sua fede dal contesto apocalittico in cui lo hanno tramandato le comunità apostoliche".
 Di qui la teologia ultra-conciliare, "tesa a mettere in accordo il messaggio biblico e l'umanesimo tecnologico". Se non che l'umanesimo tecnologico, negli anni Ottanta, era già dimezzato e costretto a scendere a patti con il pessimismo radicale scritto sulla bandiera ecologista, che sventola sui potenti club malthusiani (abortisti & thanatofili), eredi e continuatori dell'austero Club di Roma . 
 Gli eredi dell'allucinato entusiasmo progressista, profetizzato da Teilhard e incautamente strombazzato da Balducci, devono scendere a compromesso con la severa filosofia dei poteri forti.
 Balducci, ammettendo la possibilità di aver ceduto all'estro utopico, aveva già ristretto l'orizzonte dell'assolutismo teilhardiano.
 Il suo pensiero, di conseguenza, planava sulle speranze fantascientifiche applaudite  dagli ecologisti: "I pannelli solari, i collettori fototermici, simili a grandi specchi che, come quello di Archimede, ruotano in sincronia col sole".
 La ragione di una tale scelta è dichiarata senza timore del ridicolo: "L'energia solare, è stato detto, è di sua natura democratica. Pacificato col sole l'uomo farà pace anche con la terra. E sarà più facilmente in pace perché sarà venuta meno una delle cause determinanti del conflitto tra i popoli: la concorrenza nell'assicurarsi le fonti di energia". 
 Il qualunque osservatore della scena contemporanea, agitata da conflitti sul gas e sul petrolio, non ha difficoltà a misurare l'enorme mole del solare irrealismo, in uscita dalla trasformazione della teologia in fantascienza compiuta da un teologo volante sulle ali delle utopie di Teilhard e del buonismo di Papa Roncalli. 


Piero Vassallo