lunedì 15 dicembre 2014

LA VOLGARITÀ (di Piero Nicola)

  La volgarità è cosa sudicia per definizione, cosa attinente al comportamento che si allontana dal buon nome. Per meglio definirla, prendo due sue componenti: l’immodestia e l’impudicizia. Queste certificano la volgarità essere un aspetto del male. Colui che la pratica riesce degradato rispetto al costume onesto.
  Pudore significa il ripudio di un atteggiamento che provoca il male ed è disonorevole, significa il rifiuto di manifestare azione o sentimento che siano fomiti di scandalo, ad esempio, un gesto che esprima vanagloria o che possa così interpretarsi. Il pudore vieta di compiere qualcosa suscettibile d’indurre a cattivi sentimenti; in particolare, vieta di esporre una parte del proprio corpo che, nuda, ci avvilisce, essendo fonte di corruzione del prossimo o di disgusto oltraggioso.
  L’inverecondia comporta simili malefatte, anche perpetrate con la parola. Tra le esibizioni o espressioni scandalose, che suscitano il legittimo biasimo, l’avversione o, al contrario, la malizia, risaltano quelle sessuali. Lo stimolo e la funzione sessuale sono, da Adamo in poi, all’origine di problemi per la coscienza, dunque occasione di rendersi colpevoli, perciò sono oggetto di ritegno e di segretezza, mentre la loro qualsiasi mostra viene ripresa con ragione, poiché genera almeno il turbamento.
  Ė quindi pacifico che la volgarità nelle sue diverse forme non sia un fenomeno relativo, meramente psicologico, per il quale in determinate condizioni di usanze o di liberazioni interiori il suo danno scompare. La coscienza di esso permane indistruttibile e rivela che il filone da cui scaturisce può essere soltanto coperto nel suo crescente svolgimento, ma non eliminato. Sorse con l’uomo il sentimento del ritegno riguardo alle scostumatezze. Riguardo ad esse, furono educazione e galateo. Se esiste il bene e il male - come esiste il bello e il brutto in eterno, quasi concordemente per chiunque, sicché un atto generoso e un bel volto hanno per opposto un atto egoista e un volto ingrato – dev’esserci quanto appartiene all’una categoria e quanto appartiene all’altra. La volgarità si accompagna alla malizia, all’insolenza, al delitto; stride con la purezza. La purezza fa a pugni con le sudicerie, con loro sarebbe un bimbo in un lupanare.
  Ciò non toglie che vi sia chi preferisce il lupanare alla casta dimora o chi pretende di conciliarli, entrambi qualificandosi abbastanza. E soltanto il sofista tenterà di giustificare la volgarità con l’affrancamento dalle inibizioni, con l’innocenza nell’indecenza, e via di seguito.
  La volgarità, avendo scansato la mano pòrta dalla finezza, essendo un darsi allo sfogo impuro freddamente o spavaldamente, resta una scelta maligna. Analogamente l’impazienza radicata è vizio, mentre la pazienza è virtù. Analogamente il peccato è un volontario trasgredire; e la sua azione è nociva quand’anche sia assolta dalla buona fede o da una giusta causa. Dall’errore del peccato scaturisce la nocività.
  I bei modi – s’intende – non certificano sempre la correttezza di chi li adopra, ma chi adotta le maniere sgarbate è positivamente indegno, specie quando costui disconosce il valore delle buone maniere.
  Appurato che a un certo segno di scurrilità e di procacità corrisponde un livello di degradamento, valutiamo la condizione individua e comunitaria nel nostro tempo col metro di questa forma di maleducazione.
   La volgarità odierna nelle sue varie espressioni, a cominciare dal linguaggio, possiamo ritenere che sia soprattutto un vezzo, un’abitudine accettata, un fatto del costume disinibito, libertario e talvolta protestatario? Se anche così fosse, l’essenza venefica del comportamento permane, come prima abbiamo osservato. Tuttavia non si può dire che la faccenda proceda in questo modo. Alla dilagata volgarità va congiunta un’adesione ad essa tutt’altro che scarsa, ingenua e innocente. Il compiacimento, il cedere alla sua tentazione sono lungi dal potersi escludere.
  Non si nega l’animo onesto e ammirevole di un semplice, di un popolano o d’un contadino. Essi non saranno fini, non avranno una lingua proprio castigata, saranno a loro modo incivili, e però non troppo; rispetteranno le garbatezze di un ceto più in alto del proprio. In una società normale, il loro stato avrà pure una regola delle relazioni informata a decenza, un binario del rispetto di sé e degli altri.
  Orbene, quel genere di relativa indecenza è scusabile e avviene che si concili con un’elevatezza di sentire, con la probità, in quanto non potrebbero aversi educazione e usi maggiormente gentili e garbati. Ogni condizione sociale ha la sua guida per il comportamento costumato, il quale avrà un sufficiente grado di concordanza intima e manifesta nei singoli. Ma stiamo parlando di ciò che dovrebbe essere, e che alquanto fu; benché la maggioranza degli individui sia stata inferiore a quella guida, pur avendola riconosciuta pubblicamente. D’altro canto, i pochi bennati, idonei alla rettitudine, dovettero attraversare una minore incomprensione.
  Siccome le classi sono fra loro comunicanti e dipendenti dal tono impresso, dall’esempio offerto da chi abbia ascendente sulla vita pubblica e possa dirigerla secondo il suo potere e il suo volere, risponde a dignità che quanti per nascita e condizione stanno più in basso riconoscano la superiore gentilezza, non già l’ipocrisia e la finzione, ma la franca cortesia e la forma elevata, fatta per lo spirito consono, che volentieri essi apprezzeranno. Non affermo che i rapporti siano mai stati proprio in questi termini, tuttavia ce ne volle perché la maggioranza li calpestasse.
  Oggi la regolarità è sconvolta. Vediamo, in breve, come si è giunti allo sconvolgimento del rispetto e della pulizia morale attraverso alcuni cambiamenti indicativi succedutisi negli ultimi sessant’anni, in un crescendo di indotte rilassatezze.
  Negli anni Cinquanta si può dire che una certa castigatezza avesse corretto le trascorse licenze di spettacoli e di pubbliche trivialità. I modelli,  tra i quali i divi del cinema, avevano volti e linguaggio che spiravano decoro, se non eccellenza. Le offese della rivista, dell’avanspettacolo, erano per lo meno confinate nei teatri, e non di rado la censura assolveva il suo compito in ogni dove.
  Potremmo accusarla d’essere stata oppressiva? Può accusarsi di tirannia ciò che frena o inibisce i fomiti di corruzione, dato che, riguardo ad essa, l’uomo è un essere molto indifeso? Essendo un bene che egli sia edificato, agiscono senza dubbio all’opposto le provocazioni degli istinti, le seduzioni dei sensi. In quell’epoca il sentimento popolare (non lo si dovrebbe allegare perché faccia testo quando sia guasto, come ora avviene) mormorava per una canzonetta indulgente verso una prostituta o per una scena di film in cui una donna stuprata dalla soldataglia faceva intime abluzioni in un ruscello.
  Negli anni Sessanta, epoca del notevole sbrigliamento, del varco aperto e delle riverenze a chi solleticava la morbosità o chiamava il pubblico alla lussuria, celebri femmine cantanti, inclusa una di loro eccellente nel virtuosismo, si davano a interpretare, bensì con gli atteggiamenti, dei testi canori che dire boccacceschi è dire poco. Intanto la pornografia entrava nel cinema con vari pretesti di realismo e di espressione, compariva ugualmente su palcoscenici di rottura con i tabù del sesso.
  Gli anni Settanta sono quelli del freno tolto all’oscenità discorsiva, segnatamente femminile. Il gentil sesso sciupò la sua gentilezza usando termini sino ad allora punteggianti la colorita conversazione di maschi compagnoni. Ormai nessuna smorfia, se una ragazza, in mezzo a un’eterogenea compagnia, usa dire che un tizio è sfigato, e adopra la parola sfiga al posto di malasorte o di scalogna, e la parola casino in luogo di pasticcio o di confusione. Figo è diventato per lei quello che era stato un bel fusto. Si noti che quella filza di neologismi, fattisi correnti, era fresca di conio e dalla palese derivazione. Intanto, per la prima volta, sulle comuni spiagge si vedono donne a seno scoperto. E, come era avvenuto con la minigonna, sovente si scopre qualcosa che stava meglio coperto per lo stesso buon gusto artistico spregiudicato.
  Nel periodo successivo le consuetudini non fanno che peggiorare. Non tanto negli aspetti indecorosi e licenziosi, quanto nell’estinzione della dignità che vi sta contrapposta. A un certo punto, furoreggia una danza dieci volte più lasciva del tango e, ormai, se i nudi venissero mostrati nella loro interezza, susciterebbero minor bramosia delle nudità velate e semisvelate che s’incontrano ad ogni piè sospinto, mentre nessuna pellicola si priva di un accoppiamento che suggelli l’amore dei protagonisti. La costante e pretta volgarità ha partita vinta. Nelle scuole, ove dapprima le parolacce venivano esibite soltanto fra i maschi, adesso hanno assunto il diritto di cittadinanza in ogni gruppo, spesso anche tra allievi e docenti. Nelle famiglie l’andazzo è il medesimo. Sull’autobus, le ragazzine pronunciano sonoramente parole irripetibili.
  Di certo lo sfogo nevrastenico ha la sua parte, ma lo sfogo del turpiloquio equivale all’ingiustizia dell’invettiva o dell’insulto, e s’apparenta alla bestemmia. Infatti la bestemmia entra prepotentemente nella volgarità. Nelle pellicole americane si sprecano intercalari e esclamazioni blasfeme che pronunciano il Nome più santo.
  Non deve stupire se alla televisione vige un codice che argina le espressioni sboccate. Si dimostra il vigore del ceppo logorato e falsato. E poi, quanti vecchi formano il pubblico del piccolo schermo! Spesso loro malgrado, essi stanno a disagio udendo sconcezze. Le quali abbondano ugualmente, essendo entrate nella consuetudine e un poco ammorbidite. Sono tutto uno sconcio, molti trattenimenti pettegoli e inchieste, processi che sciorinano panni sporchi, che mettono scientificamente all’onore della normalità le pratiche più sordide, solleticando le basse curiosità e i bassi impulsi.

  Sono trascorsi ormai parecchi anni da quando un noto, e per un verso passatista, conduttore di spettacoli canori riportava alla ribalta vecchi motivi e stagionati interpreti di indubbia abilità. Godette di qualche fortuna; adesso sembra diventato un tappabuchi. Ma, come un quarto di secolo fa, nell’esaltare la maestria musicale dei decenni Sessanta e Settanta del Novecento, si compiaceva di sbeffeggiare la vecchia censura (quasi non bisognasse che ce ne sia sempre una!), tuttora non si scorda di rivangarla con sarcasmi e disapprovazione; e questo plateale dileggio, vastamente condiviso da quelli che rinnegano per giunta il bel canto italiano, è un segno inequivocabile della sconoscenza verso la nobiltà, della connivenza con la sozzura, del coma spirituale di questo secolo, del budello in cui questo popolo si è  inoltrato senza ritorno.

Piero Nicola

Nessun commento:

Posta un commento