sabato 20 dicembre 2014

Domenico Giuliotti, la fede prima della modernizzazione

 L'appiccicoso rosolio, distillato dagli ecumenici alambicchi del Vaticano II, mentre intontiva la fede di sempre e rovesciava spruzzi luterani sulla sacra liturgia, ha spalmato un oblio risentito e collerico sugli autori del Novecento cattolico, colpevoli di essere stati testimoni di una fede capace di alzare la voce una ottava più in alto della ronzante/frusciante chiacchiera mondana.
 La censura delle voci maschie e inflessibili degli scrittori fedeli ha messo sul palcoscenico ecclesiale il concerto di una teologia timida e stordita e perciò incline ad applaudire gli squillanti vizi di mente, che accompagnano la   inavvertita decomposizione del mondo moderno.
 Consapevole della putrefazione in atto nel cuore infetto della modernità fu invece lo scrittore  toscano Domenico Giuliotti (1887-1956), cattolico sordo alle vane chiacchiere dei modernisti e perciò immune dagli entusiasmi progressivi, in festa rivoluzionaria già nei primi anni venti del secolo sterminato.
 Giuliotti fu un autore capace di resistere e di reagire con virile fermezza alle seduzioni urlanti nei proclami sovietici, fruscianti nelle favole americane e squillanti nelle pochade degli espressionisti tedeschi.
 Al proposito si affaccia alla memoria la notizia del discredito rovesciato dai novisti sulla fortezza - virtù cardinale screditata e quasi vampirizzata dalla  teologia imbelle, che sbandiera una filologia addomesticata dai disertori dal tomismo.
 Il capolavoro di Giuliotti, L'ora di Barabba, pubblicato nel 1920, è il manifesto incendiario di un cattolicesimo capace di esprimere, in un italiano corretto e scintillante, la refrattarietà e l'irriducibilità della fede alle sirene di mondo moderno, che non ha mai nascosto le sue tare e le sue laide magagne.
 In tutte le opere  di Giuliotti, peraltro, il lettore d'oggi potrebbe trovare e raccogliere i giudizi che producono le difese immunitarie, indispensabili ai fedeli refrattari, in fuga dalla torbida/soffocante slavina, che trasporta la rumorosa farneticazione dei neomodernisti e dei neo-preti.
 In modo speciale è utile e raccomandato ai fedeli turbati e sconcertati dal can-can liturgico oggi in pittoresco atto, l'avvincente, commovente saggio di Giuliotti, Il ponte sul mondo Commento alla Messa, edito dalla benemerita Amicizia Cristiana, stamperia che opera in Chieti per la difesa della indeclinabile tradizione cattolica dalle insidie del clero sincretista.
 Giuliotti, al pari dei suoi coraggiosi editori, incarna la figura del cristiano rigido, cioè refrattario alla molliccia ginnastica del buonismo, il fedele la cui intransigenza dispiace a Francesco I, interprete della dottrina dolcificata/dinoccolata, ultimamente prigioniera delle insipienti chiacchiere venerate da una platea  che identifica la verità evangelica con le flessioni  del tango e le squallide omelie dei comici.
 Nelle pagine di Giuliotti si leggono, infatti, le proibite ragioni di quella fedeltà alla vera liturgia cattolica,  turbamento e scandalo dei pii corridori lanciati sulla pista, che ha per traguardo la mondanizzazione della dottrina antimondana per antonomasia.
 Nel 1932, quasi anticipando la descrizione delle nebbie fatte cadere sulla Santa Messa dalla infelice riforma di Annibale Bugnini (1912-1982), Giuliotti scriveva: "La Messa, per moltissimi, immersi nell'ignoranza religiosa, è come un affresco che altri afferma prezioso, ma che agli occhi annebbiati di chi lo guarda, appare tutto coperto di un fitto strato di polvere. Ho tentato di dissipare quella nebbia e di far vedere il dipinto".
 La Santa Messa non è la commemorazione di un lontano e drammatico evento ma la ripetizione incruenta del sacrificio di Gesù Cristo sulla Croce: "L'altare è la mensa mistica e il Monte Santo, la Tavola del convito umano e divino e l'Ara pel Sacrifizio unicamente accetto al Creatore del mondo. Tutto l'edificio della Chiesa è stato costruito per l'altare; e l'altare a sua volta è stato costruito per la Messa".
 Nella Messa preconciliare, infatti, il sacerdote, invece di avvicinarsi a un anonimo, traballante tavolino, si preparava alla salita dei tre scalini, che lo separavano dall'altare, purificando il proprio intelletto e la propria volontà. I fedeli si univano spiritualmente al sacerdote: "Ogni pensiero profano cancellato, dileguato, annientato. La mente, il cuore, l'anima staccati da tutto, purificati, mondi, concentrati in Dio. Ma ciò unicamente ci sarà possibile con l'aiuto di Cristo".
 In luogo di una preghiera finalizzata all'umiliazione dell'io, la nuova liturgia offre deprimenti canzonette e sbiadite orazioni. I tre scalini che avvicinavano all'altare sono aboliti e ridotti a passi anonimi. L'umiliazione è addolcita a beneficio dei sacerdoti e dei fedeli. In compenso la chiese si svuotano.
 In una recente intervista l'autorevole cardinale Burke, pur lodando lo splendido, avvincente canone della Messa detta di San Pio V, ha ammesso che anche il nuovo canone è valido.

 In nessun modo possiamo respingere il giudizio dell'illustre e coraggioso ecclesiastico. Tuttavia, leggendo il magnifico scritto di Giuliotti, non possiamo negare, nessuno può seriamente nascondere che la sapiente bellezza dell'antico canone è stata diminuita e quasi obnubilata da una riforma indirizzata alla conquista delle congreghe protestanti, affondate nella melma luterana e di tutto bisognose fuorché di concessioni alla loro sgangherata liturgia e alla loro esangue, ateologica teologia.

Pietro Vassallo

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