domenica 16 novembre 2014

FISICA SCHIZOFRENICA - I : IL “TRENO COSMICO” DI EINSTEIN (di Paolo Pasqualucci)

1.  La fisica è in crisi.  “Uno studente universitario che assista alle lezioni di relatività generale il mattino e a quelle di meccanica quantistica il pomeriggio non può che concludere che i professori sono citrulli, o hanno dimenticato di parlarsi da un secolo:  gli stanno insegnando due immagini del mondo in completa contraddizione.  La mattina, il mondo è uno spazio curvo dove tutto è continuo; il pomeriggio, il mondo è uno spazio piatto dove saltano quanti di energia”.  Il paradosso è, continua l’Autore, “che entrambe le teorie funzionano terribilmente bene”. Ognuna nel suo campo, si capisce.   Ma può la fisica mantenersi in questa visione radicalmente dualistica della realtà, nella quale si contrappongono due modi opposti di intendere lo spazio?  Non può.  E difatti, ci informa l’Autore, “un gruppo di fisici teorici sparsi per i cinque continenti sta laboriosamente cercando di dirimere la questione.  Il campo di studio si chiama “gravità quantistica”:  l’obiettivo è trovare una teoria, cioè un insieme di equazioni, ma soprattutto una coerente visione del mondo, in cui la schizofrenia sia risolta”.
Chi si esprime in questo modo è il prof. Carlo Rovelli, illustre fisico teorico, membro di prestigiose istituzioni scientifiche internazionali, direttore di un importante gruppo di ricerca di fisica teorica all’Università di Aix-Marseille, in un agile e appassionato libretto appena pubblicato da Adelphi, intitolato Sette lezioni di fisica [1], pervaso comunque da un profondo ottimismo sul futuro della fisica.  Si tratta della “espansione”, per forza di cose assai limitata, di sette articoli a carattere divulgativo scritti di recente per il Domenicale de Il Sole-24 Ore.  In effetti, il lettore avrebbe gradito anche una maggiore “espansione” per quanto riguarda la spiegazione di certi importanti concetti. Ad esempio, accennando alla teoria della relatività ristretta, il prof. Rovatti si limita a questo scarno rilievo:  “la teoria che chiarisce come il tempo non passi uguale per tutti:  due gemelli si ritrovano di età diversa, se uno dei due ha viaggiato velocemente” [2]
Ma perché la fisica si trova in una situazione di “schizofrenia”?  Perché non riesce più a fornire un’immagine coerente del mondo?  E come mai ci troviamo di fronte a due concezioni del tutto opposte dello spazio?  Per capirlo, può esser utile risalire alle origini, alla einsteiniana teoria della “relatività speciale” o “ristretta” del 1905, elaborata per rispondere ai problemi che la velocità della luce sempre costante nel vuoto poneva alle rilevazioni di tempo connesse a certi esperimenti, come quelli (falliti) di Michelson e Morley, volti a dimostrare l’esistenza dell’etere. La tesi di Einstein è che la simultaneità non può esser assoluta per tutti gli osservatori di un determinato evento ma relativa al sistema di riferimento (in quiete o in moto) nel quale si trovi ciascun osservatore.   Con questo “relativismo” si è iniziata di fatto la decostruzione dell’immagine unitaria del mondo.  Con una teoria ristretta ad un sistema di riferimento in moto di traslazione lineare ed uniforme rispetto ad un sistema di riferimento in quiete.  Uniforme, questo moto, perché con direzione e velocità costanti; di traslazione lineare, perché non rotatorio. La einsteiniana teoria della “relatività generale” (del 1916) è invece una teoria della gravitazione che mira ad integrare e superare quella newtoniana. Qui compare lo “spazio curvo”, assente dalla prima teoria, ove lo spazio era ancora piano (“piatto”, secondo l’anglomania dominante).  L’esperimento mentale del quale si è servito Einstein, per fondare il principio della “relatività ristretta”, concerne dunque la percezione della simultaneità di eventi fisici tra loro simultanei, percezione fondamentale in fisica per la misurazione del tempo degli eventi naturali.  Dal reciproco confronto di osservatori posti  in un sistema di riferimento in quiete e in uno in moto lineare uniforme rispetto ad esso, Einstein concluse (cosa all’epoca sconvolgente) che l’evento simultaneo per un sistema di riferimento non poteva esserlo per l’altro.  Vediamo perché.

2. Riassunto del famoso esperimento mentale “banchina-treno” di Einstein.   Un osservatore M si trova esattamente a metà di una banchina ferroviaria, le cui estremità chiameremo A (a sinistra per chi guarda) e B (a destra).  Due fulmini scoccano simultaneamente in A e in B.  M li vedrà contemporaneamente, per lui essi saranno effettivamente simultanei.  Perché?  La luce viaggia a velocità costante nel vuoto, a 300.000 km/s (299.792,458 km/s, coprendo 9.463 miliardi di km in un anno)[3].   Considerando irrilevante la resistenza dell’aria, dobbiamo dire che i raggi di luce provenienti simultaneamente dal fulmine caduto in A e da quello caduto in B, percorrono entrambi la stessa distanza per raggiungere l’immobile osservatore M.  Percorrendola entrambi alla medesima velocità costante, giungeranno simultaneamente in M, incontrandosi.
Supponiamo adesso che un treno “molto lungo” stia viaggiando a fianco della medesima banchina con la “velocità costante v” da sinistra (estremità A della banchina) a destra (verso l’estremità B della stessa) per chi guarda, dalla posizione dell’osservatore M.  M si vede passare davanti questo treno.  Nel treno è seduto un passeggero che, quando i due fulmini si abbattono, si trova per combinazione proprio alla stessa altezza dell’osservatore M sempre in piedi a metà esatta della banchina.  Diremo che si trova nel punto M’ esattamente speculare ad M.  M’ vedrà anch’egli simultaneamente i due fulmini?  Avrà la medesima percezione della simultaneità dei due eventi posseduta da M, fermo a metà della banchina?  Einstein sostiene di no. E perché no?  Trovandosi in moto, M’, rispetto alla banchina, “si muove rapidamente verso il raggio di luce che proviene da B [dall’estremità della banchina verso la quale sta correndo il treno] mentre corre innanzi al raggio di luce che proviene da A [estremità opposta della banchina].  Pertanto M’ vedrà il raggio di luce emesso da B prima di vedere quello emesso da A.  L’osservatore che si trova sul treno riterrà pertanto che il lampo di luce in B ha avuto luogo prima del lampo di luce in A”.  Si trae allora la seguente conclusione di carattere generale:  “gli eventi che sono simultanei rispetto alla banchina non sono simultanei rispetto al treno e viceversa (relatività della simultaneità); ogni corpo di riferimento (sistema di coordinate – treno o banchina che sia, etc.) ha il suo proprio tempo particolare:  un’attribuzione di tempo è fornita di significato solo quando ci venga detto a quale corpo di riferimento tale attribuzione si riferisce” [4].
Tutto a posto, dunque, semplice e geniale.  Ci troviamo di fronte ad una audace intuizione che vuol costituirsi come vera e propria legge di natura per ciò che riguarda la nostra percezione temporale di eventi naturali tra loro simultanei.  Questa legge Einstein la ricava immaginando di paragonare tra loro le esperienze visive effettuatesi in un sistema di riferimento rigido (immobile) ed in uno in moto lineare uniforme rispetto ad esso.  Essa vuol valere indiscriminatamente per tutti i sistemi rigidi e per tutti quelli in moto lineare uniforme, reciprocamente in relazione tra loro, come nella connessione banchina-treno assunta a paradigma. 

3. Bertrand Russell ci svela la velocità del “treno”.  Per dare un senso concreto all’esperimento mentale di Einstein, occorrono delle cifre, delle misure.  Nel suo scritto divulgativo, il grande fisico si limita a dire che il treno “è molto lungo” e che “si muove rapidamente a velocità v” lungo la banchina. Il treno deve essere “molto lungo”.  E perché?  E quanto lungo?  E circa la velocità: quanto “rapidamente” deve muoversi il treno verso l’estremità B della banchina?  Deve trattarsi di una velocità molto elevata, ma quanto elevata?
Solo pochi tra i numerosi commentatori e divulgatori della teoria della relatività si sono avventurati a conferire numeri al famoso esperimento.  Tra questi Bertrand Russell, l’eccentrico matematico e filosofo della scienza inglese, tra i primi entusiasti adepti della teoria della relatività, negli anni venti del secolo scorso.  Con qualche piccola variazione, egli ricalca l’esperimento mentale di Einstein, attribuendo al treno una velocità esplicita.  “Supponiamo che vi troviate su un treno che corre verso est su binari perfettamente diritti a una velocità pari a tre quinti della velocità della luce…”.  Niente di meno.  Anche qui abbiamo un osservatore nel treno ed uno fermo lungo la ferrovia.  “Un evento verificatosi lungo la ferrovia nella direzione in cui sta andando il treno, e che l’osservatore [M] fermo [lungo la ferrovia o la banchina] giudica accaduto in questo momento (o meglio, giudicherà accaduto in questo momento quando ne verrà a conoscenza), se si è verificato ad una distanza che la luce può percorrere in un secondo, sarà giudicato dal viaggiatore [M’] come avvenuto tre quarti di secondo fa”[5].  Pertanto, “il viaggiatore antedaterà gli eventi che si verificano davanti al treno di tre quarti del tempo che la luce avrebbe impiegato a coprire la distanza dagli eventi stessi fino all’uomo che sta assistendo, da terra, al passaggio del treno; il quale uomo a sua volta sostiene che quegli eventi si stanno verificando proprio al momento del passaggio del treno (o meglio, lo sosterrà quando la luce proveniente da quegli eventi lo raggiungerà).  Gli eventi che si verificano lungo la ferrovia dietro il treno saranno postdatati esattamente nella stessa misura”[6].
Come “evento”, aggiungo, possiamo ipotizzare un fenomeno luminoso, anche il nostro fulmine.  Il raggio di luce che da esso emana giunge ad M fermo sulla banchina in un secondo di tempo.  Per M’, che va invece a 180.000 km/s (3/5 della velocità della luce, essendo 1/5 pari al 20% della stessa, cioè a 60.000 km/s), esso gli  arriverà in un tempo inferiore, che Russell indica in ¾ di secondo.  Per M’ allora l’evento si è verificato non un secondo prima bensì ¾ di secondo prima, dato che egli sta andando incontro all’evento alla velocità che sappiamo.  Perciò M’ vedrà tutti gli eventi che si verificheranno “davanti al treno” sempre prima di M.  Quegli eventi saranno per M’ sempre anticipati rispetto ad M, fermo sulla banchina, “di ¾ del tempo che la luce avrebbe impiegato” a coprire la medesima distanza nel portare l’informazione dell’evento stesso ad M, sempre immobile davanti al treno che passa.  Per quest’ultimo, l’evento è simultaneo al passaggo del treno davanti a lui perché il raggio di luce lo raggiunge proprio nel momento in cui il treno sta (ancora) passando.  M non sa che è passato un secondo dall’evento, che lui sostiene esser istantaneo (per questo Russell scrive: “o meglio, lo sosterrà quando la luce proveniente da quegli eventi lo raggiungerà”).  Per gli eventi che accadono “dietro il treno” vale il ragionamento opposto.  Ma essi saranno “postdatati” solo da M’ che fugge davanti al raggio di luce a 180.000 km/s, ragion per cui l’informazione dell’evento-fulmine gli giungerà solo dopo che il raggio di  luce che la trasmette l’avrà raggiunto, cioè solo dopo aver viaggiato per un secondo + il tempo impiegato da M’ a percorrere 180.000 km/s in quello stesso secondo.  E quindi alla distanza di 480.000 km dal punto dell’evento luminoso (300.000+ 180.000).
Quale sarà il principio generale ricavabile dall’esperimento mentale?  Che l’osservatore sul “treno cosmico”, come anche viene chiamato il “treno di Einstein”, a causa della sua velocità, che tende ad avvicinarsi a quella della luce, vedrà gli eventi che accadono davanti al suo sistema di riferimento in moto lineare uniforme sempre in anticipo rispetto a M, il cui sistema di riferimento è in quiete, e sempre in ritardo gli eventi che hanno luogo nella direzione opposta a quella del suo moto.  Si conferma che ciò che è simultaneo per M non può esserlo per M’.

4. Qualche dubbio sul valore dell’esperimento di Einstein.  Ma proprio da questi numeri sorgono, a mio avviso, dei problemi.  Riflettiamo attentamente.   La distanza che la luce “può percorrere in un secondo” è pari a 300.000 km, poco meno della distanza dalla terra alla luna.  Dovremmo quindi credere, (per conferire significato quantitativo, cioè matematico, misurabile, all’esperimento) che un osservatore a terra sulla “banchina”, il nostro M, possa veder coincidere con il passaggio del treno (che va a 180.000 km/s) un lampo di luce che esplode a 300.000 km di distanza, situato quindi nello spazio extraterrestre.  E chiaro che no, non possiamo.  Inoltre, quanto deve essere lungo il treno, che Einstein definisce “molto lungo”, saettante a 180.000 km/s?  Quando M’ riceve l’informazione della caduta del fulmine davanti a lui, egli si trova di 180.000 km spostato rispetto a M fermo sulla banchina, incontrando il raggio di luce dopo che esso ha percorso solo 120.000 km verso di lui (300.000-180.000 km/s, velocità di M’).  Ma se il raggio di luce viene percepito da M “mentre il treno sta passando davanti a lui”, ciò significa che il treno deve esser lungo almeno 180.000 km, ed anzi di più se M non vuol esser condannato a vederne nient’altro che la coda.  Ciò significa che la banchina deve essere di uguale lunghezza ed anzi maggiore.  Ricevendo sulla banchina l’informazione del fulmine caduto all’estremità della banchina stessa, dopo un secondo, allora M si trova su una banchina lunga 300.000 km, distanza percorsa per l’appunto dalla luce in un secondo di tempo.  E se viene ad M anche l’informazione sul fulmine caduto simultaneamente all’altra estremità della banchina, sempre in un secondo di tempo, allora la nostra “banchina” deve esser lunga 600.000 km, dato che M vi si trova nel punto mediano, come si è più volte ripetuto.  Con questi ordini di grandezze immaginare un effettivo osservatore umano e una normale stazione ferroviaria sembra del tutto assurdo.
Né i commentatori né Einstein spiegano in genere perché il treno debba andare a quella velocità, autenticamente astronomica.  Perché – ipotizzo – se il famoso treno andasse a velocità normale, fosse anche quella di un treno superveloce dei nostri giorni, l’esperimento stesso non si potrebbe fare: il raggio di luce che porta l’informazione del fulmine simultaneamente a M sulla banchina e a M’ su un treno che passa davanti ad M a 250 km/h, sarebbe percepito simultaneamente da entrambi gli osservatori.  E questo lo si può affermare senza bisogno di far calcoli. 
Treno e banchina “cosmici”, dunque.  Ma sistemi di riferimento “cosmici” come possono costituire un paradigma in base al quale elaborare una legge di natura valida anche per gli osservatori umani?  Si sta parlando, infatti, di come il soggetto pensante, situato in sistemi di riferimento diversi, uno in quiete l’altro in moto di traslazione lineare ed uniforme, possano avere o meno una identica percezione della simultaneità di eventi della natura in se stessi simultanei.  Ma se il soggetto (l’io nostro che osserva e calcola) è posto in un sistema di riferimento costituito da un treno “cosmico”, non lo trasformiamo in pura energia?  Non può esistere alcun treno che vada alla velocita di 180.000 km/s, voglio dire nessun oggetto di materia ponderabile che vada a quella velocità:  si disintegrerebbe molto ma molto prima di raggiungerla.  Per non dir nulla dell’eventuale “passeggero” [7].   Come disse Ernst Mach, l’esperimento mentale non può costituire da solo il fondamento di una teoria, esso deve sempre rappresentare “la necessaria condizione preliminare dell’esperimento fisico” [8].  E l’esperimento fisico non deve essere a misura di un osservatore umano in carne ed ossa?  Siamo noi che, servendoci dell’ausilio di strumenti da noi stessi fabbricati, dobbiamo esser capaci di stabilire la simultaneità di eventi che avvengano simultaneamente ovvero la natura oggettiva di ciò che accade nella realtà esteriore.
Bisogna allora chiedersi:  come si possono paragonare tra loro le esperienze di un “osservatore” che va a 180.000 o secondo altri  a 240.000 km/s (basta che non si superi la velocità della luce) e quelle di chi sta fermo sulla banchina: paragonarle al fine di ricavarne una legge di natura valida per entrambi?  I loro punti di vista sono forse commensurabili?  A quelle velocità vanno solo i quanti elementari di energia, le particelle subatomiche, per l’appunto l’energia, in onde e a pacchetti. Dobbiamo allora ritenere che “l’osservatore sulla banchina” e “il passeggero” del treno cosmico siano solo dei simboli o un astratto, impersonale sistema di coordinate?  Ma se aboliamo l’osservatore umano, tutto il discorso ha ancora senso?
 I Fisici sostengono che si è avuta una verifica empirica di questo famoso “esperimento mentale” di Einstein, non coinvolgente naturalmente osservatori umani bensì strumenti molto sofisticati sottoposti a determinati tests, ad esempio orologi atomici portati in volo attorno alla terra. Mi sembra di poter dire, tuttavia, che questa conferma, unitamente a quella relativa alla decadenza di certe particelle subatomiche, i muoni, appare abbastanza oscura ai non iniziati.
Dobbiamo allora ritenere che Einstein abbia torto nel sostenere che, a un soggetto immaginario, in moto ad una velocità prossima a quella della luce nella direzione di un evento luminoso simultaneo ad un altro che accade alle sue spalle, l’evento luminoso verso il quale sta viaggiando  debba apparire prima di quello dal quale si sta allontanando?  No, di certo.  Però, credo sia legittimo chiedersi:  che cosa abbiamo dimostrato, con il constatare, grazie alle capacità visionarie e speculative di Einstein, che, dal punto di vista delle onde di energia che si propagano nello spazio – onde, ripeto, poiché nessun oggetto o soggetto può viaggiare a 180.000 o 240.000 km/s – quanto più sono vicine alla velocità della luce, tanto meno si può cogliere la simultaneità degli eventi luminosi tra loro simultanei, se queste onde stanno viaggiando verso di uno e allontanandosi dall’altro?  Forse che il punto di vista dell’energia deve esser preso in considerazione per contrapporlo a quello del soggetto umano, al fine di dichiarare la relatività di ogni sua “attribuzione di tempo”?  Qui “l’attribuzione di tempo” la fa in effetti l’energia stessa (il quanto-passeggero M’ immerso nell’onda elettromagnetica che è in realtà il “treno cosmico”), come se vedesse e pensasse.  Non si cade così senza volerlo in una sorta di animismo?
Un’ultima notazione riguarda la logica interna del principio di relatività “ristretta”.  Sarà per mio demerito, ma non riesco ad immaginarmi una situazione nella quale si attui il viceversa intrinseco al principio stesso.  Einstein, infatti, scrive, come si è visto:  “gli eventi che sono simultanei rispetto alla banchina non sono simultanei rispetto al treno e viceversa (relatività della simultaneità)”.  Quali possono essere, se ho correttamente inteso il senso del “viceversa”, eventi che realizzino una situazione opposta a quella di partenza, vale a dire non simultanei rispetto alla banchina e simultanei rispetto al treno?

Paolo Pasqualucci

Seconda parte

Terza parte





[1] C. Rovelli, Sette lezioni di fisica, Adelphi, Milano, 2014, pp. 85.  Lo spazio “piatto” è quello euclideo ossia piano (in inglese flat, che significa sia “piano” che “piatto”).
[2] Op. cit., pp.  13-14.  “Velocemente”, ossia a velocità prossime a quella della luce.
[3] Vedi le voci:  Anno luce, Distanze astronomiche in it.wikipedia.org.
[4] Le citazioni tra virgolette, in parte riassumendole con parole mie, le ho tratte da A. Einstein, Relatività: Esposizione divulgativa (1916), tr. it. di V. Geymonat, introduzione di B. Cermignani, Boringhieri, Torino, 1967, pp. 61-62.  La traduzione è condotta sull’edizione inglese, approvata dallo stesso Einstein.  Il volume contiene anche “scritti classici su Spazio Geometria Fisica”.  Le frasi tra parentesi quadre, qui come altrove in quest’intervento, sono mie.
[5] B. Russell, L’ABC della relatività (1925), tr. it. di L. Pavolini, Longanesi, Milano, 1974, p. 77 e 81.
[6] Op. cit., pp. 81-82.
[7] Ricordo che la massima velocità realizzata da una sonda spaziale (Helios 2, nel 1976) è stata di 252.792 km/h in relazione al sole.  E quella di un veicolo con equipaggio di 39.896 km/h (astronave Apollo 10, nel 1969), in relazione alla terra (List of vehicle speed records, en.wikipedia.org).
[8] E. Mach, Über Gedankenexperimenten, in ID., Erkenntnis und Irrtum (1905), ristampa Wissenschaftliche Buchgesellschaft, Darmstadt, 1976, pp. 183-200; pp. 187-189.

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