martedì 25 novembre 2014

FISICA SCHIZOFRENICA - II : DIFESA DI NEWTON DA CRITICHE INFONDATE (di Paolo Pasqualucci)

Abbiamo visto, nell’intervento precedente, pubblicato domenica 16 novembre 2014 in questo blog, che la soluzione del grave impasse nel quale si trova la fisica attuale viene ricercata dagli scienziati  nella verifica sperimentale di una teoria molto complessa, alla quale si sta lavorando da molto tempo:  la “gravità quantistica”[1].  Si tratta di interpretare la forza di gravità alla luce della meccanica quantistica ossia della fisica delle particelle, cosa rivelatasi finora impossibile. Dal punto di vista dell’uomo della strada, si può comunque cercare di comprendere come si sia arrivati alla necessità di coniugare quella meccanica con la forza di gravità.  Ma occorre ritornare a Newton e farsi un’idea dei problemi cui la fisica si trovava di fronte dopo di lui; problemi che Einstein, secondo un’opinione ancora diffusa, avrebbe risolto una volta per tutte.  Come presenta  il prof. Rovatti la contrapposizione tra Newton ed Einstein?

1. Dallo spazio “vuoto” di Newton a quello “pieno” di Einstein. Con la sua legge di gravità, Newton cosa aveva dimostrato?  “Newton aveva cercato di spiegare la ragione per la quale le cose cadono e i pianeti girano.  Aveva immaginato una “forza” che tira tutti i corpi l’uno verso l’altro:  l’aveva chiamata “forza di gravità”.  Come facesse questa forza a tirare cose che stanno lontano l’una dall’altra, senza che ci fosse niente in mezzo, non era dato sapere, e il grande padre della scienza si era cautamente guardato dall’azzardare ipotesi.  Newton aveva anche immaginato che i corpi si muovessero nello spazio, e lo spazio fosse un grande contenitore vuoto, uno scatolone per l’universo.  Un’immensa scaffalatura nella quale corrono diritti gli oggetti, fino a che una forza non li faccia curvare.  Di cosa fosse fatto questo “spazio”, contenitore del mondo, inventato da Newton, neppure questo era dato sapere”[2].
Da questa presentazione (alquanto sintetica) della gravitazione universale scoperta da Newton, si comprende che Newton non era riuscito a spiegare come facesse la forza di gravità “a tirare le cose che stanno lontano l’una dall’altra, senza che ci fosse niente in mezzo”.  E nemmeno perché si dovesse ritenere lo spazio una specie di “grande scatolone vuoto”, che non si riusciva a capire di cosa fosse fatto.
A questi interrogativi, secondo il prof. Rovatti, avrebbe compiutamente risposto Einstein, dopo la scoperta del campo elettromagnetico nella seconda metà dell’Ottocento, dovuta a Faraday e Maxwell. “Il campo è un’entità reale diffusa ovunque, che porta le onde radio, riempie lo spazio, può vibrare e ondulare come la superficie di un lago, e “porta in giro” la forza elettrica.  Einstein era affascinato sin da ragazzo dal campo elettromagnetico […] e presto capisce che anche la gravità, come l’elettricità, deve esser portata da un campo:  deve esistere un “campo gravitazionale”, analogo al “campo elettrico”; e cerca di capire come possa esser fatto questo “campo gravitazionale” e quali equazioni lo possano descrivere.  E qui arriva l’idea straordinaria, il puro genio:  il campo gravitazionale non è diffuso nello spazio:  il campo gravitazionale è lo spazio.  Questa è l’idea della teoria della relatività generale.  Lo “spazio” di Newton, nel quale si muovono le cose, e il “campo gravitazionale”, che porta la forza di gravità, sono la stessa cosa”[3].
Intuizione indubbiamente geniale.  “È una folgorazione.  Una semplificazione impressionante del mondo:  lo spazio non è più qualcosa di diverso dalla materia:  è una delle componenti “materiali” del mondo.  Un’entità che ondula, si flette, s’incurva, si storce.  Non siamo contenuti in un’invisibile scaffalatura rigida:  siamo immersi in un gigantesco mollusco flessibile. Il Sole piega lo spazio intorno a sé e la Terra non gli gira intorno perché tirata da una misteriosa forza, ma perché sta correndo diritta in uno spazio che si inclina.  Come una pallina che rotoli in un imbuto:  non ci sono misteriose “forze” generate dal centro dell’imbuto, è la natura curva delle pareti a far ruotare la pallina.  I pianeti girano intorno al Sole e le cose cadono perché lo spazio si incurva”[4].

2. Le teorie di Einstein si inseriscono in modo originale in una tradizione di pensiero.   Sappiamo, tuttavia, che le particelle subatomiche, i quanti di energia, hanno bisogno di uno spazio piano o euclideo per muoversi, che a loro non serve la supposta curvatura dello spazio[5].  Allora la grande intuizione di Einstein si è rivelata inutile, visto che non può applicarsi al mondo subatomico, il quale, ormai è accertato, costituisce la struttura stessa della materia?  E nemmeno al cosmo, visto che anche su larga scala, ci dice l’astrofisica, la luce viaggia in linea retta e lo spazio appare piano, euclideo[6].  E non è forse vero che finora nessuno è riuscito a dimostrare che il campo elettromagnetico “porti” anche la forza di gravità? Newton ha dimostrato che la forza di gravità agisce istantaneamente a distanza (cioè in t = 0) mentre l’onda del campo elettromagnetico non può superare la velocità della luce:  non potendo agire istantaneamente, come può allora “portare” la forza di gravità? Ma perché Einstein ha sentito il bisogno di fare del campo elettromagnetico un campo gravitazionale curvo?  Sarebbe del tutto errato ritenere le teorie di Einstein sbocciate all’improvviso, in una sorta di deserto, di colpo illuminato dal suo genio di sconosciuto venticinquenne.  Quest’immagine di Einstein fa parte del mito di Einstein.  In realtà, quando apparve negli Annalen der Physik del 1905 il suo famoso articolo che esponeva la teoria della relatività ristretta, egli era già da tempo apprezzato collaboratore della rivista. Il direttore, il grande Heisenberg, lo stimava, pur non conoscendolo ancora di persona. 
L’idea dello “spazio curvo” era già implicita nel modo in cui era inteso il campo elettromagnetico dal suo scopritore, Faraday: composto da “linee di forza” curve, sul tipo delle linee geodetiche.  La curvilineità dello spazio è un portato del concetto di campo elettromagnetico esteso (da Einstein) a tutto lo spazio, in quanto tale.  Altri aspetti della teoria della relatività generale furono anticipati da Lorentz e Poincaré, anche se fu poi Einstein ad operare la sintesi, con le sue personali intuizioni. Inoltre, l’idea che non ci sia distinzione tra lo spazio e la materia che si trova in esso, ovvero che il vuoto (vacuum) non esista, perché lo spazio sarebbe in ogni dove sempre pieno (in termini einsteiniani, avente ovunque una densità maggiore di zero),  risale addirittura ai Presocratici, fu teorizzata a fondo da Aristotele e di nuovo riproposta da Cartesio.  Ad essa si accodarono Spinoza, Leibniz, Kant.  Einstein, che considerava Cartesio un precursore quanto alla sua concezione dello spazio, vi introduce la variante, non da poco, della curvatura costante dello spazio, costituito da “campi” continui di energia e di materia, sfera increata ed illimitata anche se finita, retta da un’immanente razionalità che egli poteva anche chiamare “Dio”, qualche volta, ma (precisò) nel senso di Spinoza (Deus seu Natura, panteismo radicale).  L’immagine del tutto come sfera è comunque ben presente nel pensiero greco.  Per Parmenide il tutto “…è compiuto da ogni parte, simile a massa di ben rotonda sfera, a partire dal centro uguale in ogni parte”[7].
Invece con Newton lo spazio si apre all’infinito, ed è indipendente dalla materia che contiene. Newton si inscrive nella tradizione di pensiero  che concepisce lo spazio come vuoto in sé ed infinito, presente sin da Democrito ed Epicuro (“gli atomi ed il vuoto”).  Secondo la famosa definizione di Newton, “lo spazio assoluto, per sua natura senza relazione ad alcunché di esterno, rimane uguale e immobile”[8].  In questo spazio, spazio del cosmo, assolutamente indipendente dalla materia e dall’energia, si muovevano i corpi celesti, si esercitava la forza di gravità.  Secondo Newton, l’identificazione cartesiana di “estensione” e “corpo” avrebbe reso impossibile il moto stesso dei corpi. Il prof. Rovatti scrive che Newton “aveva immaginato una forza che tira tutti i corpi uno verso l’altro”, in uno spazio da intendersi come un immenso “scatolone vuoto”.  In realtà Newton, che non era un visionario, questa forza l’aveva calcolata, servendosi anche delle dimostrazioni di Galileo.  Forse sarà interessante e fascinoso vedere come aveva fatto, sempre nell’ambito di un’esposizione alla nostra portata.

3.  Inerzia e gravità.  Come agisce la forza di gravità?  La sua famosa anche se difficile formula l’abbiamo tutti studiata a scuola:  “due corpi esercitano una forza reciproca che varia secondo l’inverso del quadrato della distanza tra di loro e in maniera direttamente proporzionale al prodotto delle loro masse”.  Ciò significa che “un corpo reagisce all’azione di una forza accelerando ossia variando la sua velocità ogni secondo in modo inversamente proporzionale alla sua massa”[9].  Questa definizione presuppone, come sappiamo, il principio d’inerzia, già ben intuìto da Galileo, anche se non ancora come moto rettilineo (“A principiar il moto è ben necessario il movente, ma a continuarlo basta il non aver contrasto”, aveva scritto da giovane, in una lettera; e da vecchio, nell’ultima e più importante  opera, Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze:  “Imagino un mobile lanciato su un piano orizzontale e rimosso ogni impedimento:  già sappiamo che il moto si svolgerà equabile [uniforme] e perpetuo sul medesimo piano, qualora questo si estenda all’infinito”[10].  E perché “basta il non aver contrasto”?  Perché il corpo, venuta meno l’azione della forza che lo ha messo in moto, continua nel suo moto rettilineo uniforme?  “Non lo sappiamo, postillava Feynman, è così e basta”[11].
Secondo la concezione aristotelica, il corpo in movimento, una volta venuta meno l’azione del suo motore o movente, avrebbe dovuto fermarsi, se ogni corpo in movimento presuppone l’azione costante di un motore ovvero di qualcuno o qualcosa che ne causa il moto. Per questo il vuoto non poteva esistere, per lo Stagirita, perché la sua presenza avrebbe interrotto l’azione del movente, richiedente il continuum della materia per mantenersi, e reso impossibile il moto.  Questa concezione del moto, deve esser inquadrata nel suo contesto.  Dipendeva in primo luogo dalla cosmologia dello stesso Aristotele, in parte derivata da Platone, fondata sull’idea che la terra fosse una sfera immobile al centro dell’universo, attorno alla quale ruotavano gli astri (sole compreso, della cui effettiva grandezza – centodieci volte più esteso della terra – non si aveva idea) infissi  o immersi nelle sfere celesti.  Se la terra era al centro del cosmo, ogni movimento di traslazione di un corpo doveva esser concepito in relazione a questo centro, rispetto al quale erano da calcolarsi l’alto e il basso, verso i quali andavano i moti rettilinei, distinti per natura da quelli circolari.  Ad ogni corpo doveva poi attribuirsi un movimento naturale, ma si dovevano anche considerare movimenti per costrizione o contro natura.  Il moto doveva poi considerarsi semplice o composto. Il moto circolare era quello del “corpo primo” ossia dell’etere, costituente l’ultima sfera celeste o cielo delle stelle (ritenute) fisse.  Al sopra di questa sfera c’erano gli dèi, al di là dello spazio e del tempo. Al di sotto del corpo primo c’erano le sfere, anch’esse eteree, contenenti i pianeti che però si muovevano di moto composto, cioè di moto semplice (circolare) coniugato con altri movimenti, cosa che (si rilevò fin dall’antichità) rendeva poco chiara l’idea del moto dei pianeti[12].  
Era questo uno dei punti deboli del sistema e quindi della concezione aristotelica del moto.  Sulla complessa concezione del moto di Aristotele e sull’importanza che la sua Fisica ancora conserva per noi, spero di tornare in futuro. 
La moderna scienza del moto nasceva parallelamente alla scoperta del moto della terra attorno al sole: bisognava capire come questo potesse avvenire e ciò comportò una nuova concezione del moto dei corpi, che non poteva più esser inteso in relazione ad una terra immobile al centro dell’universo.  Un ruolo fondamentale lo giocò dunque il principio d’inerzia, che affermava una verità apparentemente contraria alla recta ratio.  Infatti, se il movimento è l’effetto di una causa, finita l’azione della causa, come avrebbe potuto mantenersi da solo il suo effetto?  Ma, oltre che dal moto dei satelliti messi in orbita attorno alla terra, il principio d’inerzia è confermato proprio dalla legge di gravità.  Newton apportò una variante significativa al principio, sostenendo che l’unico modo di di far cambiar direzione al moto di un corpo è quello di impiegare una forza.  In tal modo il principio d’inerzia veniva inserito nella dinamica, scienza che indaga il moto studiando le forze che operano in esso (mentre la cinematica lo indaga prescindendo da queste forze)[13].  Se il corpo accelera, allora la forza è stata applicata nella direzione del moto; se devia dal suo corso, la forza è stata applicata lateralmente.  L’intuizione di Newton era nel senso che “una forza è necessaria per variare la velocità o la direzione del moto di un corpo”. La legge che governa questa forza è appunto quella secondo la quale “l’accelerazione prodotta dalla forza è inversamente proporzionale alla massa” o, detto in altro modo:  “la forza è proporzionale alla massa moltiplicata per l’accelerazione.  Quanto maggior massa possiede un corpo, tanto più grande sarà la forza necessaria a produrre una determinata accelerazione”[14].  Inversamente proporzionale – la forza – alla massa, che è la quantità di materia, non al peso, che Newton definisce come “disposizione centripeta, o propensione verso il centro, di tutto il corpo”[15].
Uno dei risultati più importanti dell’applicazione del principio d’inerzia nella legge di gravità, spiegava Feynman, è che non occorre considerare la presenza di una forza tangenziale per tenere in orbita il pianeta.  Infatti, è l’inerzia del corpo a rappresentare già di per sé il moto tangenziale all’orbita, moto che il corpo (il pianeta) terrebbe se non ci fosse l’attrazione esercitata dalla forza di gravità:  senza di essa il corpo partirebbe per la tangente, come si suol dire.  Ora, la deviazione dalla tangente, rappresentata dal moto (in orbita) effettivamente osservato dal pianeta, “è ad angoli retti rispetto al moto e non in direzione del moto stesso” ossia trasversale al moto.  E questo perché, “la forza necessaria a controllare il moto di un pianeta attorno al sole non è una forza attorno al sole bensì verso il sole”[16].  È una forza che attrae verso il sole, una forza che deve attrarre per vincere la forza d’inerzia del singolo corpo.  La realtà dell’inerzia inerente ad ogni singolo corpo in moto è pertanto dimostrata proprio dall’esistenza della gravità, in quanto risultante di due forze:  quella inerente al corpo (del pianeta) e quella attrattiva esercitata dal sole.  Se non possedesse forza d’inerzia, il pianeta andrebbe dritto contro il sole perché mancherebbe una delle due forze necessarie a produrre la risultante costituita per l’appunto dalla sua orbita attorno al sole.

Paolo Pasqualucci


Prima parte

Terza parte





[1] C. Rovatti, Sette lezioni di fisica, Adelphi, Milano, 2014, p. 48.
[2] Op. cit., p. 16.
[3] Op.cit., pp. 16-17.
[4] Op.cit., pp. 17- 18.
[5] Op.cit., pp. 47-48.  Vedi intervento precedente.
[6] Sul punto, da ultimo:  P. G. Ferreira, La teoria perfetta.  La relatività generale:  un’avventura lunga un secolo, tr. it. C. Capararo e A. Zucchetti, Rizzoli, Milano, 2014, p. 246.
[7] Parmenide, Poema sulla natura.  I frammenti e le testimonianze indirette. Presentazione, traduzione con testo greco a fronte, note di G. Reale, saggio introduttivo e commento filosofico di L. Ruggiu, Rusconi, Milano, 1991, p. 105 (fr. 8, vv.  42-43).
[8] I. Newton, Principi matematici della filosofia naturale, tr. it., introduzione e note di A. Pala, UTET, Torino, 1977, p. 102.  Sul rapporto tra le due contrapposte concezioni dello spazio nell’età moderna, è sempre fondamentale A. Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito (1957), tr. it. di L. Cafiero, Feltrinelli, Milano, 1970.  I capp. 7, 9, 10, 11, sono dedicati a Newton.
[9] R. P. Feynman, The Character of Physical Law (1965), with an Introduction by P. Davies, Penguin, 1992, pp. 14-15.  Vedi inoltre:  Newton, Principi, cit., III, Proposizioni I-IX, tr. it. cit., pp. 616-635.
[10] Citazioni riportate da Alberto Pala in una nota di commento alla newtoniana Definizione III, sul principio d’inerzia:  Newton, Principi, I, Definizione III, tr. it., cit., p. 94.  Qualche anno dopo Galileo, anche Cartesio aveva formulato il principio d’inerzia, in termini formalmente più rigorosi (sempre Pala, op. cit.).
[11] R. P. Feynman, The Theory of Gravitation, in ID., Six Easy Pieces. The Fundamentals of Physics Explained (1965), with an introduction by P. Davies, Penguin, 1995, pp. 89-113; p. 93:  “We do not know, but that is the way it is”.  Richard Feynman, Premio Nobel, spirito acuto e caustico, è stato uno dei padri dell’attuale elettromeccanica quantistica. È scomparso nel 1988.
[12] Per questa sintesi della concezione aristotelica del moto, vedi:  Aristotele, De caelo, con testo greco a fronte, introduzione, testo critico, traduzione e note di O. Longo, Sansoni, Firenze, 1962, le pp. XI-XX dell’introduzione.
[13] R. P. Feynman, op. cit., p. 93, cit.; A. Pala in Newton, Principi, cit., p.94, nota.
[14] R. P. Feynman, op. cit., ivi.
[15] I. Newton, Principi, Definizione VIII, I libro, tr. it. cit., p. 99.  “La forza subíta da un corpo pesante sotto l’influenza della gravità si chiama peso.  Il peso non è una proprietà intrinseca del corpo in questione, come invece è la massa, ma dipende sia dalla massa, sia dal campo gravitazionale in cui il corpo si trova:  ad esempio, il peso di un corpo sulla luna è solo 1/6 del peso che avrebbe sulla superficie della Terra.  Nella pratica quotidiana non si fa nessuna distinzione fra massa e peso, poiché sulla superficie terrestre il campo di gravità è costante, ma trattando argomenti scientifici i due termini non devono esser confusi” (Dal Glossario a cura di U. Tartari in appendice a P. G. Bergmann, Relatività generale e cosmologia.  L’enigma della gravitazione, tr. it. di F. Job, Mondadori, Milano, 1987, p. 207, voce Peso).  
[16] Feynman, op. cit., ivi.

Nessun commento:

Posta un commento