giovedì 2 ottobre 2014

Conservatorismo omofilo e progressismo liberista (di Luigi Copertino

E’ notizia di questi giorni che la nuova fidanzata di Silvio Berlusconi, l’avvenente Francesca Pascale, visitando in compagnia del sig. Glauco Guadagno, alias Vladimir Luxuria, il Gay Village, ha dichiarato ufficialmente che Forza Italia farà sua la questione dei “diritti civili” degli omosessuali compresa quella del matrimonio tra persone dello stesso sesso con tanto di possibilità di adozione di figli.
Secondo la Pascale anche Berlusconi è d’accordo. Forza Italia aprirà un apposito dipartimento interno per i “diritti civili” dei gay (1).
In Italia siamo bravi ad imitare quanto, prima di noi, fanno all’estero ed a tale esterofilia non sfugge neanche il centro-destra. L’allineamento dei liberal-conservatori italiani all’omofilia, infatti, segue quello già inaugurato da Cameron in Inghilterra. Il partito conservatore inglese ha, infatti, aperto da tempo al riconoscimento del matrimonio tra gay. I maligni, per la verità, dicono che l’apertura di Cameron si è resa necessaria per via del fatto che l’alta società inglese è talmente avvezza, e non da oggi, alle trasgressioni sessuali omo-erotiche che il vecchio partito della classe dominante ha dovuto prendere atto della miserabile realtà umana, nascosta dietro la facciata ipocrita del moralismo anglicano di stile vittoriano, di una élite la quale, del resto, è nata dalla stessa incontenibile lussuria di Enrico VIII.
In questa virata del conservatorismo liberale verso il relativismo etico affiorano, finalmente con chiarezza, le basi individualiste – che non possono non portare ad esiti nichilisti – proprie anche al conservatorismo di matrice anglosassone, ponendo così fine all’equivoco che ha irretito in Italia i cattolici di sensibilità conservatrice e tradizionalista che, in nome della difesa dei “principi non negoziabili” (e che tali certamente sono), hanno finito per avvallare l’Occidente liberale nella sua inquietante ed ambigua proiezione globale.
Dopo questa virata annunciata dalla Pascale, che, vista la incipiente demenza senile ed erotomane del Cavaliere, è ormai la voce ufficiale di Berlusconi e ha un peso decisivo in Forza Italia, possiamo immaginarci la faccia dei tanti teocons italofoni i quali, militando in associazioni catto(old/neo)cons, da “Alleanza Cattolica” alla sezione italiana di “Tradizione Famiglia e Proprietà”, da “Lepanto” a CL versione terzo millennio, hanno contribuito a schierare la sensibilità di vasti settori del cattolicesimo politico a sostegno del conservatorismo euro-occidentale ed, in casa nostra, del centro-destra berlusconiano.
Chissà se, quando si tornerà a votare, potremo vedere la bella scenetta dei Massimo Introvigne, dei Marco Respinti, degli Andrea Morigi, dei Luigi Amicone, dei Rocco Buttiglione, delle Daniela Santanché, dei Maurizio Gasparri, dei Roberto De Mattei, che insieme a Luxuria intoneranno il noto inno “Meno male che Silvio c’è!”.
Magari circoleranno anche libri del tipo “Il Paradiso degli omosessuali” frutto delle fatiche letterarie di note penne catto-conservatrici (2).
Per il momento possiamo solo constatare che mentre organi mediatici di riferimento di tali ambienti catto-cons, come “La Nuova Bussola Quotidiana” ed “Il Timone”, sembrano tacere, sono altri organi di stampa del centro-destra, da “Il Foglio” di Giuliano Ferrara a “Il Giornale” o “Libero” (per il disappunto, immaginiamo, in quest’ultimo caso, del suo editorialista Antonio Socci, tanto ottimo scrittore cattolico in cose religiose e storico-religiose quanto pessimo invece in quelle filosofico-politiche che sembrano, per lui, tutte ridursi soltanto ad un anticomunismo da anni ’50), a suonare i peana, o almeno dare spazio, al permissivismo conservatore, con tanto di decantazione della tollerante “sana laicità” di cui l’Occidente sarebbe debitore al Cristianesimo e che lo distingue dall’Islam “terrorista”.
Né possiamo dire che, d’altro canto, brillino per coerenza i rigoristi di certo  tradizionalismo cattolico – quello sempre pronto ad auspicare nuovi regimi di cristianità fondati sul diritto naturale, come se bastasse il monopolio del potere politico ed un bel decreto per rievangelizzare il mondo ex cristiano – dopo le tristi vicende che hanno visto per protagonisti, come nel caso dei Legionari di Cristo e del loro fondatore Marcial Maciel Degollado, i loro vertici.
Tutto questo è detto, da parte nostra, con estremo dolore e non certo per la mera compiacenza del “lo avevo detto”.
Tuttavia non ci è neanche possibile non ricordare a tanti amici di sentimenti conservatori o conservatori-liberali quanto abbiamo spesso, da parte nostra, loro ammonito ossia che l’esito “relativista” del conservatorismo era facilmente prevedibile facendo un po’ più di attenzione al soggettivismo di cui esso, soprattutto in area anglosassone,  si nutre, in particolare sotto quella sua peculiare forma, come nel caso di Edmund Burke, della riduzione della Tradizione ad un mero costituzionalismo “abitudinaristico” o “consuetudinaristico” dagli evidenti connotati storicisti, nel senso che si tratterebbe del diritto costituzionale non scritto in quanto storicamente consuetudinario, ossia sviluppatosi all’interno della vitalistica “kultur” popolare, ed introiettato per abitudine nella coscienza del singolo cittadino/suddito. Una cosa alquanto diversa dal riconoscimento di un Ordine Etico, fondato sul Logos e fondamento del Kosmos, che la coscienza è sì chiamata a riconoscere ma non per abitudine quanto, invece, per accoglienza, alla Luce della Rivelazione, della realtà ontologicamente donativa dell’uomo e del mondo.
Diluendo, come fanno appunto i conservatori, con una forte dose di soggettivismo “romantico” la Tradizione, il risultato non può che essere quello dello scioglimento del consuetudinarismo nel contrattualismo sociale con l’accettazione inevitabile dell’individualismo e di conseguenza del liberalismo, nell’inedita formula del liberal-conservatorismo o, se si vuole, del conservatorismo liberale. In altri termini, nella formula politica old whig e in quella religiosa anglicano-presbiteriana.
Per dirla con Joseph Ratzinger «Il liberalismo economico si traduce sul piano morale nel suo esatto corrispondente: il permissivismo» e viceversa (3).
Certi settori ecclesiastici, anche a causa delle ambigue indicazioni della stessa gerarchia, sono stati indotti, dai loro “cattivi maestri”, a credere che, a fronte del relativismo etico teorizzato e praticato dalla sinistra, difendere la famiglia naturale ed il diritto naturale significa, per contro ed automaticamente, sposare il conservatorismo politico e sociale unito al liberismo economico.
Secondo detto schema la difesa del diritto naturale e familiare fa tutt’uno con politiche liberiste ed antistatualiste laddove il relativismo sarebbe l’inevitabile e sempre conseguente portato di ogni tendenza “solidarista”, se non apertamente “socialista”, tanto nella sua versione statualista-keynesiana che in quella  socialdemocratica (liberal in America).
Un tragico errore di prospettiva, questo, che impedisce di vedere quanto, in fin dei conti, sia il conservatorismo che il progressismo si nutrano della stessa filosofia di matrice individualista.
Chi difende la famiglia naturale, nella sua indissolubilità, e più in generale i “corpi intermedi”, deve chiedersi per quale recondito motivo una società, fondata appunto sulla stabilità familiare, dovrebbe, poi, connotarsi per le sue politiche economiche liberistiche nel tripudio del più dissolvente individualismo e non dovrebbe, al contrario, essere anche socialmente conservatrice nei riguardi dei rapporti di lavoro e dell’economia e quindi rigettare, insieme alla libertà assoluta del mercato, ogni forma di precarizzazione del lavoro, di facilità per le imprese di scaricarsi del “peso” dei lavoratori e di facilità di delocalizzare assecondando una concezione non solo irresponsabile ma anche antinazionale dell’azienda, dunque contraria al diritto di natura dal momento che anche l’“appartenenza nazionale” è appunto “diritto di natura” cui il capitale, non solo il lavoro, deve soggiacere.
Non dovrebbe, infatti, un conservatore opporsi alla globalizzazione ed alla liberalizzazione del movimento dei capitali, se davvero è la stabilità sociale quella che ha a cuore una “conservative mind” e non invece l’utilitarismo antisociale dell’interesse egoistico?
Insomma chi si sente conservatore sul piano etico entra in contraddizione con sé stesso quando, sul piano sociale, inalbera la bandiera del liberismo. Con l’aggravante che l’antirelativismo etico diventa, in tal caso, una farisaica ed ipocrita copertura ad usum plebis, come appunto dimostrano da secoli l’aristocrazia di sangue e finanziaria britannica e quella solo finanziaria americana.
Chi invece, progressista, difende il lavoro stabile, una concezione sociale dell’impresa, critica la globalizzazione e la liberalizzazione dei movimenti di capitale, e vorrebbe una maggiore stabilità sociale anche nei rapporti di lavoro ed economici, dovrebbe chiedersi come si possa pretendere tutto questo e contemporaneamente apprezzare il relativismo etico ossia lo scioglimento facile di ogni relazione familiare, la parificazione a quella naturale di altre forme precarie, quindi revocabili ad nutum, di convivenza, il “contratto a tempo determinato” applicato al matrimonio laddove invece lo si rigetta nell’azienda, la reificazione del feto, reso un “prodotto organico” di cui sarebbe possibile sbarazzarsi come si fa con i residui di qualsiasi produzione, laddove si osteggia giustamente la reificazione del lavoratore da parte del capitale che vuole usarlo e poi gettarlo via come uno straccio.
Il progressista, preoccupato degli attacchi sempre più virulenti al Welfare, dovrebbe avere il coraggio di ammettere apertiis verbis che è stato proprio il relativismo etico, ciecamente propugnato dalla sinistra, a consentire la debacle finanziaria dello Stato sociale permettendo alle forze liberal-conservatrici di riacquistare terreno fino allo smantellamento quasi totale del Welfare.
Prendiamo, ad esempio, il sistema pensionistico, grande e meritoria conquista di civiltà. Nato in un mondo di solidi legami familiari e di civica solidarietà sociale, esso si reggeva, fino a pochi anni fa, sul metodo a ripartizione che consentiva a tutti, appunto solidaristicamente ossia indipendentemente da quanto versato da ciascuno al fondo pensione statuale (in Italia, l’Inps) in proporzione del proprio reddito, di avere, dopo una vita di lavoro, una pensione pari, o quasi, a quella massima goduta dai più abbienti. Il metodo a ripartizione funzionò fino a che, grazie a flussi demografici costanti nella popolazione, il numero di chi usciva dal lavoro per la pensione ed il numero di chi invece, giovane, entrava nel mondo del lavoro, cominciando a versare contributi previdenziali alla cassa comune, rimase pressoché in equilibrio e tendenzialmente alla pari. Sicché ciascun giovane lavoratore sosteneva un vecchio pensionato potendo aspettarsi a sua volta che un domani un altro avrebbe sopportato il peso della sua vecchiaia.
Insomma un sistema di solidarietà intergenerazionale che aveva per presupposto la stabilità della famiglia. Ma, successivamente, a partire dalla rivoluzione antropologica permissivista e individualistico-libertaria del ’68, stretto da scelte politiche scellerate che, per motivazioni clientelari, acconsentirono alle cosiddette “baby pensioni”, ossia a privilegi per particolari categorie che così anticipavano di parecchio l’età pensionabile, e contemporaneamente dallo sfaldamento della base contributiva dovuto alla disarticolazione dell’istituto familiare con conseguente crollo demografico, l’equilibrio tra lavoratori attivi e lavoratori pensionati si ruppe e ciascun lavoratore in attività venne a trovarsi a sostenere anche tre pensionati, con conseguente squilibrio finanziario nella sostenibilità del sistema di Welfare pubblico.
Questo tracollo, causato dal permissivismo etico, ha rimesso in gioco quelle forze liberiste che mirano allo smantellamento del sistema previdenziale pubblico, in nome del libero mercato (nel caso di specie, il mercato delle assicurazioni e quello dei fondi pensioni privati che poi sono anche parte di quei “mercati finanziari” alla continua ricerca di occasioni speculative per accrescere le bolle finanziarie al fine di assicurare ai propri soci il dovuto ed al tempo stesso far lucrare agli azionisti i massimi e più subitanei possibili guadagni).
Per il momento tali forze sono riuscite a soppiantare il metodo a ripartizione con quello a contribuzione, per il quale ciascuno, individualisticamente, otterrà una pensione meno che proporzionale, dato il calcolo che ora è fatto mediamente sull’intero arco della vita lavorativa, a quanto versato in termini di contributi previdenziali, ed ad introdurre, benché al momento solo come complementare a quello pubblico, il sistema delle assicurazioni previdenziali private. Ma non si può escludere che in un futuro, forse neanche tanto lontano, le forze neoliberiste riusciranno ad eliminare completamente il sistema previdenziale pubblico in favore del sistema assicurativo privato, sicché della propria pensione ciascuno sarà responsabile sulla base della propria individuale capacità contributiva. Inutile dire che chi non riuscirà a versare nulla, o verserà poco, andrà ad aumentare le fila dei vecchi e degli indigenti davanti alle mense della Caritas.
Un discorso analogo potrebbe farsi per il sistema sanitario pubblico, anch’esso nato in un mondo di solidi legami sociali ed ora travolto, in favore della sempre più presente, ma per pochi, sanità privata, dal tracollo demografico che ha ristretto la base fiscale e contributiva sulla quale si reggeva originariamente il sistema.
La sinistra progressista deve fare un “mea culpa” grande quanto la catena himalayana per aver accettato il radicalismo libertario permissivista o, come lo chiamava Augusto Del Noce, neoborghese trasformando i suoi partiti storici in partiti radical-chic di massa.
La destra liberal-conservatrice, fino alla attuale svolta “libertaria”, e la sinistra social-progressista si sono spartite il peggio del relativismo, etico e sociale, assegnandosi reciprocamente, l’una all’altra, la rappresentanza politica ed elettorale di una metà del medesimo “individualismo auto-deterministico” che sta alla loro radice. Ma, sempre fino alla virata permissivista ora in atto nel campo conservatore, hanno anche fatto proprio, specularmente, quanto di meglio vi è nell’“antirelativismo”, anche in questo caso assegnandosene, reciprocamente, ciascuna la rappresentanza politica di una metà.
Sorge, a questo punto, spontanea una domanda: non sarebbe stato compito e missione storica, in questo tempo, del Cattolicesimo politico opporsi a questa artificiale suddivisione e rivendicare a sé, contemporaneamente, sia l’antirelativismo etico che l’antirelativismo sociale e proporre una politica fondata inseparabilmente e paritariamente tanto sui “principi etici non negoziabili” quanto sul “solidarismo sociale” nella miglior tradizione cattolico-sociale, che non è solo “sussidiarista” ma anche “comunitarista” e pertanto non repellente nei confronti della statualità intesa nel suo giusto e riconosciuto ruolo di Comunità politica?
Ma, tornando alla questione principale di questo intervento, se la svolta libertaria nel campo conservatore arriva solo ora, non bisogna dimenticare che quella verso l’accreditamento del neoliberismo nel campo progressista l’ha anticipata. Non certo in Italia – dove anzi la vediamo configurarsi, contestualmente alla svolta etico-permissivista nel centro-destra berlusconiano, soltanto in questi giorni nel PD renziano, con il contemporaneo mal di pancia della vecchia, anche in senso generazionale, sinistra catto-comunista (bersaniani-civatiani-vendoliani) – ma all’estero sì.
A partire, ad esempio, dal neolabour di Tony Blair in Inghilterra, che tanto piaceva alla City finanziaria, e dal clintonismo negli Stati Uniti, che aboliva la Glass Steagall Act permettendo la libera attività speculatrice da parte delle mega banche trans-nazionali tipo Goldman Sachs, fino al neosocialismo libertario di Zapatero in Spagna, che contenendo le rivendicazioni salariali favorì l’afflusso di capitali finanziari ed il formarsi di bolle speculative, poi drammaticamente esplose, ed alla socialdemocrazia tedesca di Schröder che con le riforme Hartz, le stesse che oggi Renzi propone per l’Italia, ha precarizzato il mercato del lavoro a solo vantaggio del capitale – lavoro che così torna ad essere, contro l’auspicio del buon Leone XIII a fine XIX secolo, soltanto una merce liberamente quotata sul mercato come ogni altra merce.
La verità, la quale poi spiega sia la virata permissivista dei conservatori sia quella liberista dei progressisti, è che nella “società liquida”, come descritta da Zygmunt Bauman, nessun legame può pretendere per sé la stabilità che fu tipica della “società solida”, ossia della società antica tanto pre-moderna quanto, benché in forme artificiali e non più “naturali”, moderna.
Nel post-moderno trionfa l’“Unico” di Stirner – che non casualmente è il pensatore cult degli anarcoliberisti –, trionfa il solipsismo assoluto con i suoi oscuri retroterra “magico-idealisti”. Il “cogito cartesiano” giunge, nell’età postmoderna, al termine della sua parabola storica. Ed, infatti, nella “società liquida” nient’altro trova legittimazione per gli uomini di questa miserabile epoca se non il proprio “io” che si fa signore e giudice di ogni morale,  proclamando inesistente qualunque altra morale se non coincide con la soggettiva manifestazione del proprio egoismo innalzato al rango di “diritto dell’uomo”. Tutto il reale è, idealisticamente, ricondotto all’“io” e di esso viene affermato essere soltanto una manipolabile, a piacimento, proiezione.
Se il mondo è proiezione del mio “io” non c’è, pertanto, nulla che possa intromettersi tra me e la mia libido dominandi, sia che essa si esprima come lussuria sia che essa si esprima come potere finanziario ed economico. Sicché ogni legame, familiare, nazionale o sociale, che è di impedimento alla realizzazione del mio “individualismo assoluto” è da abbattere come violenza che mi si vuol fare, come negazione della mia libertà totale. L’altro da me, cristianamente parlando il “mio prossimo”, diventa, come diceva Sartre, il nemico, l’inferno esistenziale.
Con buona pace di Diego Fusaro, l’alienazione non è nella Trascendenza ma nel suo disconoscimento, nella protervia di false religiosità – quella ideocratica, che si accompagnò alla modernità, quella della merce-feticcio, in particolare nella sua forma di “merce virtuale” quali sono i “prodotti derivati”, che è esplosa nella post-modernità contrassegnata dalla liberalizzazione e dall’egemonia del capitale finanziario – che l’essere umano, naturaliter religiosus, si costruisce da sé quando è privato degli autentici orizzonti rivelati dell’Oltre-immanente, radice, fondamento e anima dell’aldiquà.
L’alienazione, quella vera e definitiva, è soltanto questa ossia il misconoscimento della propria umile condizione creaturale di figli uniti dallo Spirito nel Figlio del medesimo unico Padre, quale fondamento stesso della sola possibile relazionalità non utilitaristica che è concessa all’uomo.
La finanza ed il capitale sono gli agenti post-moderni di tale alienazione – quella dell’homo faber fortunae suae per la quale la vita, i beni e la stessa libertà non sono dono da condividere ma egocentrismo da affermare ed imporre – non meno di quanto nella modernità lo sono stati la volontà di potenza della politica e della tecnologia.
L’unica sovrastruttura, ossia falsa coscienza, esistente è solo quella dell’“eritis sicut Dei”, ovvero la deformazione ontologica del cuore umano sedotto dall’idea dell’auto-deificazione, che nella vicenda storica ha trovato svariate manifestazioni le quali sembrano oggi tutte convergere nell’autoreferenzialità del potere finanziario globale. L’autoreferenzialità, appunto, dell’“io” che, misconosciuta la propria creaturalità, si erge a “dominus” mediante l’adorazione luciferina del denaro-feticcio nella pretesa assoluta sua libertà di azione, contro ogni morale eteronoma alla quale oppone la propria morale autonoma nella rivendicata coincidenza della “verità” e del “bene” con l’utile egoistico.
Questa libertà, tuttavia, è essenzialmente necrofila e porta alla morte dell’uomo, tanto nella sua singolarità quanto nella sua relazionalità.
L’“amore omosessuale”, inevitabilmente infecondo, sterile, privo della stessa possibilità di donare vita – salvo quella artificiale e prometeicamente manipolabile della “provetta” – quindi, in fondo egoistico ed autoreferenziale, fa il paio, come faccia della stessa medaglia, con l’“amore per il denaro dal denaro” altrettanto autorefenziale ed altrettanto sterile ed improduttivo perché socialmente, ed anche economicamente, distruttivo, usuraico, speculativo, infecondo di quel bene che è la dignità di un lavoro onesto e stabile per tutti.
Questa è la lezione che conservatori e progressisti, “destri” e “sinistri”, dovrebbero comprendere come necessario ed inevitabile presupposto della ricerca di alternative ad un mondo di liquidità relazionale e di individualismo collettivo.
Senza prima aprire gli occhi su quanto siamo andati dicendo non c’è alcuna possibilità di smascherare e quindi sconfiggere il vero “nemico del genere umano”, il cui suadente sibilare riecheggia, in ogni epoca, sin dall’alba dei tempi.

                                                                                                                Luigi Copertino


NOTE
1)     Naturalmente, onde evitare alla lobby la solita, inutile, stantia fatica dell’alzata di scudi politicamente corretta, diciamo subito che qui non è in discussione il rispetto dovuto alla persona dell’omosessuale in quanto, appunto, essere umano. Né è in discussione il rafforzamento di ogni tutela giuridica contro le violenze psico-fisiche, gli abusi anche verbali e le discriminazioni in ordine al lavoro o all’accesso ai pubblici uffici ed ai servizi pubblici a danno delle persone omosessuali. Ogni genere di persecuzione contro gli omosessuali è non solo ingiusta ma anche stupida. Quel che è qui in discussione è la pretesa, anche questa profondamente ingiusta, degli omosessuali organizzati di far passare la loro condizione (che non è affatto una libera scelta) come qualcosa di normale per trasformare in anormalità l’eterosessualità, fino a voler equiparare le unioni tra soggetti dello stesso sesso a quelle tra soggetti di sesso diverso e ad accampare, contro e nell’incuranza del diritto dei minori ad avere un padre ed una madre, la pretesa di adottare figli. Che gli omosessuali convivano o abbiano forme giuridicamente riconosciute di unione non è la questione centrale. Quel che è la questione dirimente è se tali unioni debbano essere sotto un profilo giuridico identiche al matrimonio eterosessuale con conseguenti diritti e doveri, ad iniziare dalla educazione della prole naturalmente impossibile a concepirsi, per sterilità intrinseca del rapporto, nell’unione omosessuale. I rapporti di dare ed avere come quelli ereditari tra omosessuali possono semplicemente essere regolati, con qualche correttivo al fine di semplificazione e precisazione, con le norme già vigenti del codice civile, ad iniziare dalla donazione. Certamente lo Stato non può sempre tradurre in legge penale quel che è per la morale naturale illegittimo (in certi casi, come ad esempio per l’omicidio, lo Stato invece può e deve tradurre l’illecito morale anche in illecito penale). Ma la pretesa di indifferenza da parte dello Stato rispetto al contenuto umano, ossia alla eterosessualità, del matrimonio non è sostenibile neanche nei termini della laicità, dal momento che quest’ultima non esula dal riconoscimento di quanto la realtà oggettiva delle cose impone. Non a caso, l’omofilia fa leva, per accreditarsi contro ogni evidenza oggettiva, sull’ideologia del gender che pretende, illusoriamente, di fare della sessualità una libera e soggettiva scelta individuale. E con questo siamo già al cuore della questione da noi in questo articolo trattata che è lo svelamento ultimo del soggettivismo come matrice profonda dello stesso conservatorismo, soprattutto se di importazione anglosassone.
2)    L’ironico riferimento è al libro intervista di Rino Cammilleri al banchiere Ettore Gotti Tedeschi «Denaro e Paradiso – I cattolici e l’economia globale», Lindau. Un tentativo di accreditare, contro Max Weber, l’etica calvinista in casa cattolica, facendo risalire al medioevo, dunque ad epoca precedente la Riforma, le radici del capitalismo liberista. Peccato che il maggiore storico dell’età di mezzo, Jacques Le Goff, abbia ritenuto del tutto impresentabile una tale tesi (cfr. J. Le Goff «Il mito del Medioevo capitalista» in Avvenire, del 15.10.2010).
3)    Cfr. Vittorio Messori «Rapporto sulla Fede – a colloquio con il cardinale Joseph Ratzinger», Mondadori, 1993, p. 83.


       www.identitaeuropea.it

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