domenica 27 luglio 2014

Rivelazione e storia, il pensiero cattolico dopo lo storicismo

Nei giorni 7 e 8 del marzo 2014, per iniziativa di mons. Ennio Innocenti, autorevole teologo romano e instancabile organizzatore di manifestazioni anticonformistiche, si è svolto in Roma un convegno di studi su Rivelazione e Storia. Le coraggiose iniziative di Innocenti  hanno per finalità dimostrare che il pensiero cattolico sopravvive alla congiura del silenzio, all'autolesionismo del clero modernizzante, e alle esternazioni aeronautiche e telefoniche dell'alta gerarchia vaticana.
 Innocenti osa addirittura attaccare il card. Kasper, "cosiddetto teologo che è andato a scuola dal teorico del cristiano anonimo [Karl Rahner] e ora si mette a fare il teorico del cristiano medio, è in ginocchio, sì, ma davanti all'idolo. Ignora che il dovere di amare Dio totalitariamente è un dovere per tutti. E' stato preferito accucciarlo con l'incenso? Così sia".
 Al convegno hanno partecipato numerosi studiosi fra i più qualificati protagonisti della resistenza cattolica al nichilismo post-moderno, Antonio Livi, Christian Ferraro, Michele Malatesta, Pier Paolo Ottonello, Arturo A. Ruiz Freites, Paolo De Lucia, Ilaria Ramelli, Rafael Breide Obeid ecc.  
 Nella introduzione al volume Innocenti ricorre alla filosofia rosminiana (meditata in conformità con l'insegnamento di Pier Paolo Ottonello) per rispondere alla domanda sulla possibilità di pensare una rivelazione diretta e personale di Dio. 
 Sostiene Innocenti: "Dio lo posso pensare soltanto a partire da una sua qualche somiglianza con me. Comincio a pensare di Lui infinito per l'esigenza di fondare il mio essere finito. Nell'idea del mio essere colgo la concretezza del mio essere, la sua sussistenza e - insieme - la sua finitezza e la sua apertura all'infinito: è l'inizio ideale d'un viaggio all'infinito, ma subito penso al fondamento di questo inizio, all'essere assoluto. C'è evidentemente un'intesa tra la mia mente e il mio essere: l'essere pervade la mente e si svela alla mente come essere, è il suo oggetto mentale che si proietta su tutte le varie forme dell'essere".
 Il prof. Christian Ferraro definisce le fonti del suo avvincente intervento, "Rivelazione e Storia: note sulla possibilità di un incontro", dichiarando che la sua riflessione s'ispira a due scritti di Cornelio Fabro, "Sui presupposti del problema della storia" (datato 1952) e "Essere e storicità" (datato 1959).
 Ferraro esordisce rammentando che "la metafisica ha un punto di arrivo: l'esistenza di un ente che è l'ente per essentiam, vale a dire un ente che non è propriamente un ente ma l'essere stesso sussistente (ipsum esser subsistens) . Siccome però il nostro intelletto ha come oggetto l'ente, esso non sarà in grado di considerare questa nuova realtà emersa se non come causa e principio estrinseco dell'ente".
 Ora l'uomo non è in grado di conoscere che cosa sia in se stesso il principio estrinseco dell'ente: "non ha modo di saperlo a meno che questo stesso principio primissimo, che giustamente chiamiamo Dio, assuma l'iniziativa di darsi a conoscere così come Egli è. Quando questa decisione si attua ha luogo ciò che si chiama Rivelazione. ... La Rivelazione è tutta in funzione di una donazione di Sé stesso e di una comunione con Lui, che Dio stesso vuole instaurare ... Anche se la Rivelazione ha come protagonista sia nel contenuto sia nel suo attuarsi lo stesso Dio che si dà a conoscere, essa ha come destinatario l'uomo. Il destinatario però riceve questa Rivelazione nella Storia".
 La storia non è il semplice scorrere del tempo ma è propriamente  il divenire nel tempo della libertà umana.
 A ragion veduta Ferraro rammenta che nel pensiero greco "la Storia come tale non emerge come problema". E' nella, luce di Cristo, che annuncia il suo ritorno alla fine dei tempi,  che sorge il problema della Storia "in stretto collegamento con quello della libertà e della provvidenza. Qui abbiamo a che fare però con un elemento che è già teologico e soprannaturale".
 Di seguito Ferraro dimostra che il razionalismo cartesiano e quello spinoziano costituiscono un deciso regresso speculativo. La filosofia cartesiana, ad esempio,  riduce il mondo umano all'anima "e un'anima che risulta completamente estranea alle vicende del mondo esterno, tutto regolato secondo le più radicali leggi meccanicistiche. Il rapporto allora fra Dio e l'uomo accade soltanto a livello dell'anima, che è una realtà scarnata. E' chiaro che da questa prospettiva difficilmente possa emergere e farsi sentire il problema della Storia".  
 Hegel, dal suo canto, riconosce che l'idea di libertà è venuta nel mondo mediante il Cristianesimo e perciò tenta di restituire alla Storia la dignità che compete a un problema squisitamente filosofico. Se non che  la filosofia hegeliana, al seguito del pregiudizio immanentista, abbassa la libertà nella scena dell'assoluto immanente, ossia concepisce l'inabitazione di Dio nella ragione umana, "la Storia è allora concepita come il dinamismo stesso della Ragione che ritorna sempre su se stessa. ... Qui non c'è posto alcuno per un intervento di un presunto Dio che non sia la sostanza stessa vivente di questo nostro mondo, il mondo della Ragione".
 La libertà della filosofia hegeliana - intesa quale vertice speculativo della modernità - si è ultimamente rovesciata in quel nichilismo di matrice gnostica, da Hegel apprezzato e lodato nelle lettere a Schelling.
 Di qui il problema di scoprire la via d'uscita da una pensiero disperato, il cui orizzonte è l'assurdo cioè la negazione della bontà del Creatore e l'avversione al creato.
 Ferraro indica la via d'uscita dal vicolo cieco del pensiero moderno nella filosofia di San Tommaso, "che ha portato a fondo l'esigenza del primato dell'atto sul contenuto in un superamento radicale delle prospettive sia aristoteliche sia platoniche, sia dei predecessori che dei pensatori posteriori. ... Per San Tommaso l'esse è l'atto di tutti gli atti e perfino di tutte le forme: ipsum esse est actualitas omnium actuum etiam ipsarum formarum. La forza di questa sentenza è estrema perché qui l'Angelico fa un'affermazione che tradisce i principii più elementari dell'aristotelismo storico".
 Si comprende la straordinaria novità del tomismo quando si rammenta che il pensiero greco ignorava la creazione propriamente detta: nel mondo la filosofia greca contemplava l'opera di un demiurgo, che imprimeva sulla materia increata le idee abitanti in un aldilà superiore.
 San Tommaso, invece, stabilisce che "il genoma dell'ente fa capo all'esse che risulta allora l'unica forma di attualità di tutto l'ente, inclusa la forma".
 San Tommaso, inoltre, pone un limite alla contingenza della creature e afferma che le sostanze spirituali non hanno in sé stesse i princìpi della propria corruzione: "Dio è l'unico essere necessario a sé, perché è l'ens per essentiam, le creature spirituali, inclusa l'anima umana, sono esseri necessari ab alio, perché partecipano all'esse senza avere in se stesse principio interno alcuno di corruzione".
 La conclusione, tratta dal Prologo della Seconda Parte della Summa, è la seguente: "come Dio è principio delle sue azioni così anche lo spirito finito è scaturigine di quelle proprie".  
 Pertanto quando Dio crea uno spirito finito pone una libertà fondata sull'esse quindi totalmente dipendente ma nel contempo realmente libera: "nella partecipazione dell'uomo all'esse c'è una vera dipendenza dell'indipendenza ovvero indipendenza della dipendenza".
 Ferraro sostiene che tale è la costituzione primigenia della libertà: "Proprio perché sgorgante dall'umana libertà la storia conserva radicalmente la possibilità della novità e pertanto l'apertura a qualcosa di nuovo come strutturalmente sarebbe, infatti, una divina rivelazione. La storia poi, nella sua marcia non si fa avanti nella maniera completamente anarchica, ma neanche in nella forma della razionalità hegeliana e comunque si trova completamente sotto il dominio dell'Ipsum esse subsistens, che la governa con la sua Provvidenza rispettando e fondando l'umana libertà. ... Proprio perché Dio crea per manifestare e comunicare la sua bontà l'apertura originaria ad una Rivelazione costituisce la più profonda identità della Storia, che allora, alla luce della fede, si trasforma nel luogo specificamente umano per la conquista dell'eterna beatitudine".

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 Formulata con magistrale chiarezza e sostenuta da una straordinaria sapienza teologica e filosofica, la relazione di monsignor Antonio Livi, è concepita quale confutazione delle avventurose tesi proposte da teologi, che "conservano il lessico tradizionale mentre eliminano materialmente e formalmente i princìpi primi dai quali discende la specifica maniera di argomentare della teologia".
 Al proposito dei teologi modernizzanti, Livi sostiene che "abbandonando il metodo specifico della vera teologia, la falsa teologia perde di vista il rapporto intrinseco e pertanto necessario che esiste tra il dato rivelato - identificato formalmente nelle definizioni dogmatiche - i praeambula fidei, ossia quelle verità naturali, sia metafisiche che morali, che Tommaso d'Aquino aveva individuato come premesse razionali dell'atto di fede nella nella rivelazione (fides qua creditur) e condizione logica per comprendere l'annuncio dei misteri soprannaturali". 
 Il criterio, che abbaglia i teologi modernizzanti è un'opinione del monaco tedesco Elmar Salmann, "un luogo comune relativistico per il quale il cristianesimo ha bisogno di diversi approcci apparentemente antagonistici".
 In realtà, obietta Livi, "sono compatibili con la verità della Rivelazione solo quegli schemi concettuali che rispettano di fatto la razionalità del messaggio rivelato e il suo rapporto intrinseco con le verità naturali accessibili a ogni destinatario della Rivelazione stessa, ossia con ciò che la filosofia moderna denomina il senso comune".
 "In un contesto ecclesiale di perdita dei criteri fondamentali della recta ratio e di ingiustificata avversione alla razionalità metafisica" è inevitabile l'avvio di un una precipitosa gara alla conquista del primato nel settore del bicameralismo mentale. 
 Risultato della diserzione dal senso comune è "lo sviluppo di una teologia con le medesime modalità concettuali e a volte con i medesimi procedimenti dialettici con i quali Hegel e Schelling avevano praticato la loro filosofia religiosa  ... che pretende di trasformare la Rivelazione in un teorema razionalistico".
 Livi avvia un serrato confronto tra l'unica vera teologia e la filosofia pseudo-cristiana dell'idealismo, fonte delle bizzarre/sontuose opinioni diluvianti nei testi diffusi dall'editoria d'indirizzo neomodernista e accolti festosamente da una sbigottita e desistente gerarchia.
 Infatti i nuovi teologi, ispirati dal sofisma di Salmann, "dialogano disinvoltamente con tutti i pensatori atei del loro tempo e si vantano di trovare sempre maggiori spazi di condivisione con essi, riconoscendo anche di avere, al pari di essi, una diretta dipendenza dai capiscuola della filosofia religiosa di stampo idealistico".
 Conseguenza della contaminazione idealistica e l'affondamento della teologia sedicente ecumenica nelle sabbie mobili del relativismo: "l'impiego delle categorie dialettiche dello storicismo hegeliano rendono impossibile la pretesa cristiana di una dottrina religiosa definita una volta per sempre (semel pro semper) e annullano la premessa metafisica della trascendenza assoluta di Dio come creatore del cielo e della terra, la cui Parola è allo stesso tempo verità assoluta e mistero insondabile".
  Nel dialogo con gli aggiornati interpreti dello hegelismo i teologi modernizzanti sono costretti ad abbassare le difese immunitarie e a sottovalutare l'indirizzo nichilistico dei più rigorosi continuatori dell'idealismo. In Massimo Cacciari, in Andrea Emo e in Eugenio Scalfari la dialettica hegeliana si rovescia nell'affermazione del "primato del nulla, da quale l'essere proviene e al quale necessariamente fa ritorno, il che comporta l'identificazione del progresso con la nientificazione".
 Il disarmo della teologia, la confessata capitolazione al cospetto della nuova frontiera dell'ateismo, è ben visibile nei testi di Hans Kung e Klaus Hemmerle, gli ispiratori delle acrobazie vernali travestite da teologia, che sono applaudite e incensate dal giornalismo progressista e tollerata e talora perfino incoraggiate da vescovi paradossalmente consacrati al non vedere e al non sorvegliare. 
 Nell'inflessibile mirino di Livi, sono gli escandescenti catto-hegeliani-severiniani, Giuseppe Barzaghi, Aniceto Molinaro, Piero Coda e Vito Mancuso. 
 Di Barzaghi, esegeta di Emanuele Severino, un alluvionale paroliere, che Fabro definì traduttore del linguaggio filosofico in "abracadabra", Livi cita una inquietante/surreale affermazione della possibilità di parlare di Dio dal punto di vista di Dio: "posto che la filosofia è l'esercizio prospettico che mira a un punto di fuga ... e che anche Dio cade in questa fuga di sguardo la filosofia è costretta a un capovolgimento: perché il punto di fuga è lo sguardo di Dio nel quale ci accorgiamo di essere guardati e in cui guardiamo il nostro essere visti". 
 Livi, a proposito di Coda osserva: "il teologo ignora di proposito ogni differenza epistemologica tra filosofia e teologia e poi anche le differenze dottrinali tra cattolicesimo ortodossia e protestantesimo; inoltre pur non potendone fornire alcuna giustificazione scientifica ... azzarda giudizi storiografici del tutto inaccettabili: come quando racconta di un filone speculativo che unirebbe Meister Eckhart a Hegel, quando si sa che senza Spinoza e senza Kant non si comprenderebbe la genesi dell'idealismo tedesco".
 Di Mancuso, un autore che nel 1997 aveva pubblicato una lucida critica del monismo hegeliano, Livi scrive: "Di fronte al mistero del male, il teologo che all'inizio cercava ostinatamente uno spazio concettuale che valga a riportare in un quadro logico di necessità gli eventi della storia, alla fine non trova di meglio che rinunciare ad ogni razionalità; il mistero della storia diventa così l'assurdo e dall'assurdo del dato rivelato si passa a definire come assurdità, come aporia e come contraddizione tutta la realtà naturale, ragione per cui la metafisica e la logica vanno eliminate dalla teologia".
 Il magistrale intervento di Livi svela l'indirizzo catastrofico del cattolicesimo modernizzante, una scelta avviata dall'evoluzionismo cosmico di Pierre Theilhard de Chardin, "che è quanto di più lontano dalla vera filosofia", e indirizzata al compromesso con il delirio postmoderno, "basti pensare che, da un principio scientificamente errato come quello che Mancuso enuncia affermando che, nel caso di una vita colpita da una grave malattia o da senilità acuta, l'anima razionale-spirituale non c'è più, deriva la legittimazione dell'eutanasia".
 Nel suo puntuale intervento Pier Paolo Ottonello, profondo investigatore della crisi della filosofia contemporanea e geniale inventore di fulminanti neologismi, ci ricorda che "senza la Trascendenza non ha senso né la persona né il cosmo tutto, così senza la rivelazione la storia perde ogni senso sostanziale, smarrendo la sua intrinseca finalità di progresso ... Le risse scientistiche predominanti nella contemporaneità si riducono ben presto a infimi cascami dell'autentico progresso: a passi di più o meno ampia gittata, sotto il captante alibi delle razionalizzazioni, corrono verso la pancaotizzazione". 
 La vastità del prolasso mentale/morale in atto nella frazione moderata del movimento pro-vita, coraggiosamente analizzato e denunciato da Roberto Dal Bosco ed Elisabetta Frezza, si comprende osservando la parabola discendente della teologia in libera circolazione nelle università cattoliche.

Piero Vassallo                                                                  
 


[L'invio del volume degli atti, edito in questi giorni può essere richiesto a fraternitasaurigarum@gmail.com - tel. 065755119]

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