giovedì 4 luglio 2013

CRONACA DI UN VIAGGIO TRA “INCUBO” E “TEOLOGIA” (di Paolo Pasqualucci)


Presentazione di:  PIERO VASSALLO, Un treno nella notte filosofante, Solfanelli, 2013, pp. 195, E. 15.

Dando brillante saggio delle sue ampiamente sospettate capacità letterarie, Piero Vassallo, rinverdendo il nobile genere letterario del romanzo filosofico, ci offre “un viaggio satirico/nostalgico” nella confusa visione del mondo dei “perdenti” ossia della destra italiana, scomparsa nel nulla e, ciò che più conta, in quella distorta e demenziale dei “vincenti”: del “politicamente corretto” attualmente prevalente.  “Nelle sferzanti caricature – recita la presentazione dell’opera – il lettore attento non avrà difficoltà a riconoscere i protagonisti italiani del concorde delirio in atto tra il fantasma della rivoluzione e la parodia della reazione”. Satira, dunque.  In forma di “cronaca di un viaggo tra incubo e teologia”, come da sottotitolo. 
[L’incubo del Neopensiero] Il viaggio “nella notte filosofante” è dunque un viaggio nell’incubo.   I protagonisti si incontrano per caso in un treno notturno, che viene improvvisamente dirottato e bloccato in una stazioncina fuori mano, in zona rurale e montana.  I viaggiatori vengono sequestrati dalle Entità, che li sottopongono ad un corso di rieducazione-iniziazione alla loro ideologia, il Neopensiero.  Le Entità avrebbero preso il potere durante la notte, anche se  solo in una parte della nazione.  Dopo varie peripezie, il gruppetto dei viaggiatori – uomini e donne – riesce a fuggire dall’incubo, verso la realtà dove governa “l’Imprenditore d’Affori”, uomo nuovo pieno di buone intenzioni anche se il suo programma concreto troppo spesso sembra “ispirato alla canzonetta oggi qui domani là” (p. 175).  Egli rappresenta tuttavia un male sensibilmente minore a petto del dominio del Neopensiero.  In realtà, la vera salvezza viene solo dalla fede (pp. 193-194).  Questa in modo assai succinto la trama dell’opera.  Il protagonista principale, Simeone, accademico nella piena maturità ma non ancora anziano, prende il treno per andare a leggere una conferenza su Arnold Geulincx, filosofo fiammingo del Seicento, cartesiano sfegatato.  Ma il senso vero della conferenza è: “il declino della ragione occidentale”.  Alla stazione lo assalgono ricordi e riflessioni, che preludono a temi essenziali del libro, vertenti sull’implosione e lo sfarfallamento della cultura della destra (tema sul quale Vassallo ha dato negli anni un contributo rigoroso, fondamentale) e sulla crisi della Chiesa cattolica, argomento anch’esso da lui già indagato e qui approfondito.
[Un naufragio totale]  “Lo splendore dei sogni si rovesciava nel grigiore dei risultati. Ma…si profilava la maturità cioè la disposizione a contemplare la vita oltre la raggiante illusione” (p. 9).  Era tempo di bilanci, ormai, non scevri da nostalgie.  La vecchia stazione ottocentesca, grigia sotto la pioggia, che celebrava “con esoterica squisitezza la copula del romanzo gotico con la vertigine babilonese”, con il suo contorno di mendicanti malati e di “disturbati”, gli appare all’improvviso come una sinistra allegoria che “svela il soggiacente disastro”.  Quale?  “L’eclissi della Cristianità, la diserzione dei chierici, la discesa del rito nella farsa, lo scisma universale della cosa pensante, il naufragio del lavoro nella palude bancaria, il fiume del sangue versato dai pacificatori, la catastrofe antropologica, l’impero dei gabellieri insaziabili.  Agli occhi della mente attonita di Simeone apparve un sacerdote olandese, che saliva, travestito da Batman, all’altare improvvisato nella pista del Vaticano II….  La sempiterna, molesta vanità, vanitas vanitatum et omnia vanitas, l’uggia delle cattedre et giacobine et liberali et leniniste et qualunque altra cosa, riapparve nell’estensione lampante di un corpo di vagabondi alla deriva” (pp. 10-11).
Il naufragio di tutto, dunque.  Una delle cause principali “l’eclissi della Cristianità” provocata dalla “diserzione dei chierici” conseguita al Vaticano II, il Concilio “pastorale” che, senza proclamare nuovi dogmi, ha tuttavia rovesciato come un guanto l’immagine stessa della Chiesa Cattolica, della Chiesa visibile.
[L’incubo della Nuova Teologia, che fa rinascere la teosofia, il “Dioniso indiano”]  Ma l’incubo della Nuova Teologia, quella del Neomodernismo che ha invaso la Chiesa visibile dal Concilio sino ad oggi, riappare continuamente durante il “viaggio”, vero e proprio tema di fondo.  Nel vagone ristorante Simeone trova un vecchio compagno degli ideali di gioventù, ora avvocato professionalmente realizzato,  con il quale si inizia “il filosofare”.  Riandando innanzitutto al passato, che è quello dell’ambiente culturale e delle aspirazioni della destra italiana neo e postfascista, ma anche cattolica, nelle sue diverse sfumature, sottoposte ad impietoso vaglio critico.  Non dal punto di vista “democratico”, si capisce, ma da quello dell’intellettuale di destra tornato alla religione dei Padri, al Cattolicesimo fedele alla Tradizione della Chiesa.  Per tal motivo, l’amico avvocato lo accusa di “clericalismo”.  L’avvocato impersona in modo moderato il laicismo di destra.  E come risponde Simeone?
““Cattolico […] Cattolico Hyksos, se posso dire così.  Non clericale.  I clericali sono opportunisti e cleptomani.  Non tutti, voglio dire.  Ma…il mio trasbordo comunque è avvenuto in un periodo difficile per la Chiesa.  Osservatori esterni […]  non potevano valutare la gravità della crisi cattolica, in atto dopo l’ottobre del 1962 [mese d’inizio del Vaticano II].  Gli esclusi vedevano solo la baldoria democristiana.  Simeone, invece, aveva frequentato gli ambienti curiali, dove uomini di sofferta esperienza parlavano di sfacelo.  Simeone si era legato ad ambienti bersagliati dal sarcasmo di una folla intelligente e in perenne fregola.  La stampa a larga tiratura li umiliava con tiri feroci.  Gli assedianti replicavano riversando dotte citazioni greche e latine nelle pagine inarrivabili delle loro riviste […]  Vaticanisti, scolarchi bolognesi, spretati e teologi mittel-europei contestavano l’esagerazione tradizionalista.  Ma la piena del fiume calamitoso, sul quale il giubilante aspersorio dei progressisti versava la spumeggiante acqua della banalità, era davanti a tutti” (pp. 25-26).    E va meditato questo fulminante accostamento tra Giuliano l’Apostata e il Vaticano II:  “L’imperatore era un ellenista intento a ricostruire la sinagoga, in sfida a Gesù Cristo.  A modo suo Giuliano ha anticipato l’ecumenismo del Vaticano II” (p. 46).  Il concetto dardeggia all’interno della discussione nel vagone ristorante (si sono nel frattempo aggiunte altre persone) che raggiunge il suo punto chiave nella critica al falso concetto di tradizione di Julius Evola, al suo mefitico e nello stesso tempo risibile tradizionalismo neopagano, che tanti guasti ha prodotto nell’ambito della destra, soprattutto tra i giovani (pp.  39-47).  Ma Evola è rimasto nel ghetto culturale della destra mentre del suo ispiratore, l’ancor più tenebroso  Guénon – un logorroico ciarlatano erudito, uno che arzigogola su simboli ed “illuminazioni”, che sembra credere nell’esistenza dei teosofici “superiori occulti” nascosti nel Tibet – si è ora appropriata la sinistra del neopensiero, che ne pubblica le opere nelle serie pastello di Adelphi (ivi).  Sono lontani anni luce – sottolineo – i tempi nei quali György Lukács, il famoso filosofo marxista ungherese del secolo scorso, ne La distruzione della ragione poteva passare al setaccio con sprezzante sicumera l’irrazionalismo nel “pensiero borghese”, cominciando  da Schelling per concentrare poi il tiro su Nietzsche.  Non è proprio l’opera omnia di Nietzsche che hanno pubblicato gli intellettuali comunisti fondatori della Adelphi?  Una ben triste parabola discendente, anche se a ben vedere inevitabile, quella che da Nietzsche porta a Guénon e alla teosofia.  Una parabola che ben riflette il dissolversi della Rivoluzione sociale in quella… sessuale.
[Ricordi d’infanzia e di gioventù, purificatori]  Ma il “viaggio” non è solo “filosofico”.   Simeone è assalito anche dalla “nostalgia” ossia da ricordi d’infanzia, che non scadono nel sentimentale, come spesso accade in circostanze del genere, e rappresentano una pausa nel ritmo incalzante della critica e della satira.  Nel ricordo, anche l’autocritica di passati pregiudizi, come nel capitolo intitolato Il ragioniere Brambilla (pp. 115-121).  Tra le più belle del libro sono, a mio parere, le tre paginette e mezzo intitolate Una sognata ascensione all’infanzia (pp. 57-60).  “Ascensione” di chi nel 1945 aveva sì e no dieci o dodici anni e proveniva da una famiglia che si era trovata dalla parte “sbagliata” della guerra civile.  “Dopo i lunghi anni dello sfollamento” in un montuoso retroterra, “Simeone era ritornato alla vita di città.  Contrariamente alla speranza, a lungo coltivata, non accadde nulla di strabiliante.  Le strade urbane erano più larghe, orlate da marciapiedi lastricati e quasi puliti.  Belli i tram, il verde bottiglia, orlato del tricolore, correvano su rotaie scintillanti, ma, nell’afa, l’olio da freni emanava l’odore della formica arrosto.  Terminata la prima corsa nauseante, decise di evitare i tram, per quanto possibile”.   Chi non ricorda quei tram, nelle nostre città, che rinascevano lentamente dopo l’Apocalisse che si era abbattuta sull’Italia nel biennio tremendo del Castigo, della duplice, crudele invasione straniera e della guerra civile?  Quel verde bottiglia che ricordava lo sfavillare degli scarabei?  E quel terribile ed inspiegabile odore sui binari, l’estate?  La città è il luogo-simbolo del difficile ritorno alla pace, nella Nuova Era Democratica.  “Dopo l’ora della cena la gioventù si agitava in una danza sguaiata e funambolica, detta bughi-bughi.  Garrivano le rosse bandiere e quelle a strisce e stelle.  Gli alfieri della licenziosità avanzavano intrepidi.  Le malattie specifiche al seguito.  Si intravvedeva già l’inferno musicale di Theodor Wiesengrund Adorno.  Direttamente dal salotto iniziatico, entrò nella storia d’Italia l’umbratile figura di Ferruccio Parri.  Trasmesso per radio, il discorso del primo ministro spaventò la maggioranza degli italiani, ma il nuovo stile non tardò a diffondersi nella minoranza rivoluzionaria.  La piazza dava infatti segnali inequivacabili di democratica dignità:  quale ringraziamento per gli aiuti alimentari dall’Argentina, austeri cortei democratici gridarono:  “Puttana fascista!”, all’indirizzo di Evita Peron in visita di cortesia” (pp. 58-59).
Qualche tempo dopo, l’occasione di una partita di calcio fra ragazzi, in periferia, riporta Simeone in solitaria passeggiata sulle colline dove era vissuto da sfollato.  “La memoria risaliva con ansia alacre, fra cardi pungenti e erbe assetate”.  Dai ricordi dell’ingrato lavoro dei contadini “montanari ostinati nella valle a gola di lupo”, balza improvvisa l’immagine della “maestra giovane” nella scuola di montagna, che li infiammava raccontando le storie degli eroi italiani: Francesco Ferrucci, Ettore Fieramosca, Giovanni dalle Bande Nere, Veniero, Montecuccoli, gli studenti di Curtatone, via via sino al plumbeo presente del 1944.  Scomparsa improvvisamente nel nulla, la maestra.  Ma si seppe poi che i partigiani comunisti l’avevano messa al muro perché “spia fascista”, un mese prima della fine della guerra.   Era questa l’etichetta infamante che all’epoca si usava per giustificare esecuzioni sommarie e puri e semplici omicidi.  “Improvvisamente l’immagine della maestra lo raggiunse e gli camminò a fianco, persuadendolo a rallentare il passo.  Nevicava e un pallore mortale illuminava il viso della ragazza.  Al tempo della scuola non poteva misurare la bellezza maliosa, che adesso gli faceva battere il cuore infantilmente. “L’uomo non è stato creato per la morte, perciò, in alto, il dolore si estingue.  La neve attutisce i colpi della vita.  La neve è silenziosa, come la memoria dell’eterno”.  Simeone non poteva articolare parola.  I pensieri e le lacrime gli gonfiavano il cuore” (pp. 59-60).
[L’Ultrarivoluzione per restaurare la “Cultura Originale”] Dai ricordi, che si sovrappongono alla discussione sulla crisi dei valori, di colpo nell’Ultrarivoluzione.  Niente sangue e ammazzamenti, almeno all’inizio.  Un sequestro.  Un terzetto di rivoluzionari, indossanti un bracciale con la falce, il martello, la swastika, porta Simeone e i suoi compagni in certe costruzioni (chiamate Collana d’Armonia) vicino ad un vecchio paese, dove cominceranno la loro rieducazione.  Nel paese, pieno di imposto simbolismo rivoluzionario, c’è una statua a Pol-Pot,  “l’ecologico massacratore asiatico”; una piazza dedicata a Wilhelm Reich, lo “psichiatra deragliato”, sessuomane morto pazzo, che farneticava di “energia orgonica”; la Finestra panoramica Gilles Deleuze, etc.  L’insieme dà un’impressione surreale e dadaista.   “Questa notte, prima dello sciopero, c’è stato un cambiamento radicale. […] È in atto un processo di restaurazione della Cultura Originale.  L’Occidente cristiano è al tramonto.  Lo dice la parola stessa, occidente-cadente […] La radio, intanto, ha annunciato che la schiavitù dei consumi è abolita.  Le Entità stanno scrivendo il nuovo codice dei valori.  Per il loro adattamento gli specialisti hanno studiato ogni dettaglio…un programma virtuoso e piacevole.  Oggi stesso ascolteranno la prima lezione di ecologia dura” (p. 67).  Naturalmente Simeone tenta di protestare.  Nascono discussioni.  Un rappresentante delle Entità, così apostrofa Simeone.  “Lei è un caratteristico prodotto del kalî-yuga! Perciò rimane sordo al suono del neo pensiero.  Noi propiziamo il ritorno all’età dell’oro.  Noi la correggeremo, noi la ricreeremo.  La faremo uscire dalla caverna teista, a calci se sarà necessario! Ne parleremo, il tempo per aggiornarla non ci mancherà.  Domani s’inaugura il corso di educazione metapolitica.  Inizieranno i professori Gamballarghi e Ceneretti, che commenteranno la grande opera di Gilles Deleuze, Diventare molteplici” (p. 81).  La Nuova Età è ormai alle porte.  “Le forze reattive saranno eliminate dalla trasmutazione.  L’unione di Dioniso ed Arianna è prossima.  Noi scioglieremo il crampo di tutte le muscolature genitali.  L’uomo guarirà dalla lue monoteista.  Diventerà un’onda nell’oceano divino.  Anche lei si arrenderà alla nostra arte” (ivi).
Comincia la “rieducazione”.  Assistiamo ad un’esposizione in chiave brillantemente satirica dell’ideologia strampalata che sorregge il “politicamente corretto” dominante, il cui scopo ultimo tuttavia non fa per niente ridere, visto che mira a fare degli italiani tanti “scettici illuminati ed integrati” (p. 74).  Tale scopo si può raggiungere solo sradicando del tutto il Cristianesimo dai cuori e dalle menti.  Ma non siamo alla riedizione delle campagne ateistiche della Rivoluzione Francese o dei regimi comunisti di un tempo.  Elemento essenziale della lotta contro la vera religione è lo scatenamento della superbia dell’uomo, per spingerlo (alla maniera degli gnostici) alla rivolta contro l’ordine naturale istituito da Dio.  I sequestrati devono indossare “una tuta color coloniale”, abitare in baracche dal tetto di lamiera, prendere orribili pasti “biologici” in comune serviti da “inservienti scalzi e vestiti d’arcobaleno”, sotto lo sguardo delle Entità o comunque di loro rappresentanti, con le relative “omelie” di “professori” all’uopo designati; sorbirsi “seminari” che illustrano il neopensiero.
[Apologia della Trasgressione]  Il “sovrano della mensa” sta appollaiato su di un sedile rialzato dal quale, circondato da ospiti d’onore, controlla la comunistica refezione:  un piccolo uomo non più giovane, dal viso scarno, cupo e distante, coltissimo e celebre intellettuale, critico letterario e famoso editore.  Il tutto sembra una sinistra parodia dei pasti in comune nei conventi di un tempo.  Le letture fatte ad alta voce durante la refezione non sono tratte dai Vangeli ma dai testi di Nietzsche, mentre “l’omelia” di un iniziato, che saluta i nuovi ospiti, esalta “le nozze di Nomos e Adikia” ossia l’incontro degli opposti e contrari:  della Norma e della sua Trasgressione, alla maniera degli gnostici antichi.  “Ora sappiamo che qualsiasi separatezza delle due dimensioni è dia-bolica.  Il segreto dei nostri cuori muove verso l’accogliente donarsi, che accende il fuoco della promessa.  I nostri cuori hanno formato un arcipelago che sovrasta le tempeste cristiane e naviga verso l’eterno…”(p. 88).  I compagni di mensa già residenti nel centro di rieducazione svelano ai nuovi arrivati le fonti della filosofia che ispira il centro stesso:  le ricette della pessima cucina loro somministrata sono state scritte nel XVIII secolo dall’abate Deschamps, uno dei teorici del comunismo utopico, nemico del matrimonio.  “Affinché nessuno potesse godere i favori esclusivi di una bella, concepì un regolamento che rendeva obbligatorio esercitare al buio il comunismo sessuale e/o bisessuale” (p. 90).  E difatti la cerimonia di iniziazione (per soli volontari, peraltro sempre numerosi) che avrà luogo in forme farsesche e granguignolesche quale momento clou dell’educazione al nuovo pensiero e stile di vita, si terrà in modo simile, riproponendo “l’incubo” degli “usi deplorati dall’Alessandrino negli Stromata, gli usi del paganesimo più decadente (p.93; pp. 153-159).
   [Fonti del Neopensiero]  Al di là delle allegorie e dei simboli, degli eventi simbolici che popolano con indubbia efficacia descrittiva e polemica l’incubo, che vive di dottrine e stati d’animo e non di fatti realmente accaduti (p. 187), è necessario (anche senza poter esaurire i molteplici spunti presenti nel viaggio) presentare al lettore le principali dottrine che, in un apparente disordine  vengono a costituire il mosaico del neopensiero.  Innanzitutto, l’utopismo a sfondo materialista e sensista del Settecento illuminista, con la sua intrinseca, volterriana irreligiosità.  Poi, l’immancabile Marcuse, che “ha riciclato il delirio di Nietzsche coprendolo con un’etichetta di sinistra” (p. 91).   Marx, in quanto “posseduto dall’ebrezza del nulla” (ivi), ovvero il nucleo nichilista e distruttivo del marxismo, dottrina che esalta l’odio di classe, la violenza come metodo di lotta e di governo, nemica acerrima del matrimonio, della famiglia, della religione, di una visione normale della società, che proclama destinata a dissolversi nell’impossibile società senza classi del futuro; nucleo nascosto in una filosofia della storia apparentemente positiva, perché auspica il riscatto delle classi più umili e si mostra ottimista sulla “magnifiche sorti e progressive” dell’umanità. La teosofia, impersonata dal mito del Tibet (“la tecnica tibetana trasporta al di là delle regole morali, perfino al di là della fantasia più accesa”, p. 93), e quindi dal buddismo tantrico, quello della “magia sessuale”, dal ripescaggio di autori come Guénon, con i suoi vaneggiamenti sull’uomo che si ricrea liberandosi della fede nel vero Dio con l’appropriarsi una nascosta sapienza (orientale) originaria, supposta madre di tutte le religioni positive, sapienza che in realtà non è mai esistita, se non nelle menti di gnostici, massoni, occultisti, venditori ambulanti di ogni sorta di esoterismo.
[La ribellione “germanica” contro Dio] Ma con queste ultime pseudofilosofie e laiche pseudoreligioni siamo già al momento terminale dell’involuzione che conduce al neopensiero.  Il contributo principale sarebbe stato quello offerto dal “pensiero germanico”.  Inteso come?  Come quel pensiero che ha posto, più di altri, l’esigenza della necessità della libertà dell’uomo di fronte a Dio (p. 99).  Ora, questa “libertà” piena di superbia e spirito luciferino, viene esposta (nel seminario “psicoattivo” organizzato dal prof. Gamballarghi, noto “psicopompo” al servizio delle Entità) in modo  solo apparentemente bizzarro, cioè attraverso l’opera di Wagner. Il quale “fa dire a Wotan che ‘è ridicolo asservire i servi del destino:  divino sarebbe creare un uomo libero, che solamente compisse quanto io voglio’.  Ecco svelati i protagonisti della commedia teologica messa in scena dagli autori dell’Antico Testamento e dai metafisici:  un dio che vuole obbedienza e un uomo che può obbedirgli o disobbedirgli […]  Avendo intuito la radice dell’inganno, Marcione [l’eretico padre degli gnostici e dell’antisemitismo] postulava una divinità silente e abissale, cioè opposta al dio che ha dettato la legge a Mosé.  Solitamente non ci pensiamo, ma la civiltà cristiana è nata dall’inganno svelato da Marcione e dalla divina diade Bakunin-Wagner.  La finalità dei nostri seminari è per l’appunto liberarvi dall’inganno teologico […] Le leggi stesse con le quali un dio afferma la sua sovranità, lo traducono in prigionia della libertà concessa alla creatura […] Wotan vuole che la creatura libera voglia liberamente quello che lui, Wotan, vuole tassativamente e infallibilmente […] L’eventuale rifiuto di obbedire abolirebbe la trascendenza degli dèi” (pp. 99-100).  Abolirebbe in realtà gli dèi e la religione stessa, la sua necessità:  “Wotan, gli dèi e i semidei del Walhalla si dissolvono per l’eternità, schiantati dall’ignoranza invincibile e santa di Sigfrido” (p. 102).  Wagner si incontrerebbe allora con Spinoza.  Continua a spiegare lo psicopompo:  “il cammino della libertà spirituale comincia quando si coglie l’ispirazione marcionita (dove marcionita significa anticattolica) della dottrina wagneriana.  Il problema dell’umanità contemporanea è capire che il bene e il male sono destini.  Ovvero che il male consiste nell’essere. In questo senso è decisivo l’audace accostamento, osato dall’editor mirabilis Rosati, della sensualità pagana di Wagner all’irenismo etico di Spinoza […]  Spinoza aveva dimostrato che è sufficiente un atto del pensiero per spezzare le catene della dipendenza dal dio.  Questa è la grande scoperta dello spinozismo e del wagnerismo:  il fato esclude  che la libertà dell’uomo conosca l’ineffabile volontà divina, dunque postula una libertà ignara, e perciò impossibilitata sia a obbedire che a disobbedire […] Tramontati gli dèi, l’uomo si ritrova nella perfetta solitudine e nella gioiosa indifferenza al bene e al male.  L’orizzonte decreazionista ultimamente disegnato da Simone Weil ”, in altro luogo del romanzo definita con rara efficacia “pitonessa neocatara”(pp. 100-102; p. 85).
[La scomparsa dei “problemi morali” dal nostro orizzonte]  Ma come può l’uomo, dotato da Dio del ben dell’intelletto, non rendersi conto dell’esistenza di una volontà divina le cui leggi devono esser comunque rispettate?  E il mondo, con tutto il suo meraviglioso ordine, si è forse creato da solo?  Non esiste una morale naturale, iscritta nei nostri cuori?  Il peccato originale ha indebolito la nostra mente, rendendola succube delle passioni, non l’ha distrutta.  Volendo, siamo sempre capaci di ragionare.  Ma i sequestrati cercano invano di contraddire lo psicopompo, un torrente in piena, che alla fine crede di metter tutti a tacere sentenziando:  “Ma perché ci perdiamo in sciocchezze?  I problemi morali sono caduti insieme con gli errori della metafisica” (p. 102).   Dalla singolare dottrina del neopensiero esce comunque una constatazione che risponde al vero, nel senso che oggi (e da tempo) non si parla più di “problemi morali”.  Vassallo coglie qui un punto essenziale. Dalle nostre università non sono forse di fatto scomparsi i corsi di “filosofia morale”?  Erano corsi dignitosi, a volte di altissimo livello, che fornivano un quadro esauriente dello sviluppo del pensiero etico, dai Greci in poi.  L’etica, quella vera, è inseparabile dalla religione e dalla metafisica.  Scomparse l’una e l’altra, come può mantenersi un’etica?  Non se ne parla nemmeno più, è evidente.  Anche se, a ben vedere, non si tratta solo di una carenza speculativa e teologica.  Il discorso sui “problemi morali” non può più farsi anche a causa del femminismo, del quale il romanzo (senza prenderlo di petto) evoca tuttavia i presupposti “culturali”, disseminati nelle “omelie” del neopensiero:  l’esaltazione dell’androginia, dell’indistinzione erotica tra il maschio e la femmina, di Apollo e Dioniso in quanto “divinità bisessuate”; il disprezzo della fecondità e quindi del matrimonio, articolato nell’esegesi di oscure e decadenti mitologie orientali (pp. 107-114).  Il femminismo, infatti, ha reso trasgressivi (il termine è usato oggi con compiacimento) i costumi delle donne della nostra epoca, di una parte di loro talmente ampia da sembrare netta maggioranza.  Riaprire il discorso sui “problemi morali” vorrebbe dire (suscitando violente reazioni) esser costretti, tra l’altro, a sottolineare la scomparsa di valori fondamentali della femminilità, intesa (come dev’essere) in senso etico e non meramente estetico: mi riferisco all’assenza evidente di modestia e pudore che, ormai da diversi anni, caratterizza il comportamento di molte donne sin dall’età giovanile.  Come dimenticare le studentesse che nei nutriti cortei invocanti il “diritto” ad abortire o celebranti la “giornata della donna”, riunivano ritmicamente le mani sopra la testa a mimare oscenamente la forma della vulva, che gridavano per l’appunto di voler “gestire” come piaceva a loro? E che dire della singolare ambizione che spinge oggi tante donne a disprezzare il matrimonio, la famiglia e la maternità, per poter competere con gli uomini in tutti i campi, al fine di dominare nelle professioni e nella politica attiva sì da prender un domani nelle proprie mani il governo degli Stati?
[Padre Sergio, il buon sacerdote]  La denuncia del “pensiero germanico” quale protagonista  principale (certo non il solo, bisogna ricordare) dell’attuale decadenza, viene ripresa, nella parte finale del libro, nei ragionamenti affidati a Padre Sergio, figura del sacerdote rimasto fedele alla Tradizione della Chiesa, a cominciare dalla Messa di rito romano antico, e per questo perseguitato e ridotto allo stato laicale.  Sono molto belle le pagine nelle quali viene ricostruita la sua vocazione sacerdotale, fanno rivivere la Chiesa cattolica della nostra infanzia, non ancora inquinata dagli “aggiornamenti” alla modernità (Una vocazione d’altri tempi, pp. 129-135).  Padre Sergio vive in semiclandestinità presso due anziane e distinte sorelle reazionarie, tollerate dalle Entità (pp. 123-127).  Le autorità religiose hanno, infatti, instaurato un “dialogo” anche con le anticristiane Entità.  L’Ordinario competente riteneva “Rosati un non credente aperto al dialogo e alla ricerca della verità.  Al funerale della mamma fu visto piangere […]  Egli mi confidò che stava addirittura pensando di creare una speciale cattedra di testimonianza da affidare a Rosati…la cattedra dei credenti atei” (p. 147).  La parodia della bizzarra e sconclusionata “cattedra dei non credenti” allestita dal defunto cardinale C.M. Martini è efficacissima.  E Padre Sergio non esita a mettere il dito sulla piaga:  “Il malessere ha messo radici nella nostra Chiesa.  Pio XII aveva indicato il pericolo, nella Humani generis.  Troppo tardi.  Intorno a lui molti, e non dico i peggiori, erano già preda delle suggestioni[…] Sua eccellenza ritiene che criticare esaspera i giovani e tradisce la loro sete di giustizia. Forse è per questo che mi hanno destituito e confinato qui:  irritavo i giovani, frenavo i loro impulsi generosi.  La paura, il fumo di Satana, fa apparire gli inesistenti lati buoni delle Entità.  Questi sono i pastori pigolanti al cospetto di un mondo che avrebbe bisogno di udire ruggiti” (pp. 147-148).  È il pigolare e lo squittire di un cattolicesimo che sembra sul punto di esalare supinamente l’ultimo respiro, se non sapessimo che il Capo effettivo della Chiesa è Nostro Signore, il quale saprà ben Lui come intervenire, al momento opportuno.
      [Heidegger pensatore “germanico”, come Heine]  E proprio Heidegger, in una lettera del 1933, riprendendo il tema centrale della rivoluzione conservatrice, “dichiara di voler condurre la cultura nazionalsocialista alla lotta contro lo spirito morente del cristianesimo” (p. 149).  Heidegger non è forse la figura più rappresentativa del “pensiero germanico”?  Ma è giusto dire “germanico” invece di “tedesco”?  Il termine sembra in realtà appropriato poiché indica l’emergere nel pensiero tedesco della  componente “germanica”, così come appare ad esempio nell’invocazione di Heinrich Heine, raffinato poeta e saggista del primo Ottocento, mirante a togliere gli dèi dei Germani (e dell’antichità classica) dall’esilio nel quale li aveva cacciati il cristianesimo trionfante:  toglierli per riproporli contro lo stesso cristianesimo.  Nella sua battaglia contro l’odiata religione, Heine voleva utilizzare in senso culturalmente rivoluzionario “le potenze nascoste del paganesimo classico e germanico”(Reimar Klein).  L’israelita Heine incautamente si adoperava ad esorcizzare gli spiriti tenebrosi della foresta nibelungica.  L’ispirazione “germanica” e quindi irrazionale è evidente in Heidegger, filtrata attraverso Hölderlin e Nietzsche.  “Heidegger – continua Padre Sergio – a chi sa leggerlo attraverso Hölderlin, si rivela l’autore di una mistica vaneggiante. Concepito l’essere primordiale come il Nulla dall’idealismo, immagina la creazione come caduta degli enti nell’inautentico, dove si squadernano le situazioni dell’inganno e della vanità […]  L’imperativo vivere per la morte, significa anzitutto che si deve vivere nel disordine.  Di qui la biografia di Heidegger [e di Sartre e Simone De Beauvoir, aggiungo, la celebre “coppia aperta” che lo considerava un maestro]. L’ontologia negativa genera il culto degli eroi negativi e dei popoli viziosi” (pp. 149-150).  Ma bisogna riaffermare la verità: “Dio è l’ipsum esse”.  Non è l’indifferenziato divenire. Né il Tutto. Né può concepirsi la “morte di Dio”, idea a dir poco ridicola.  “Importante è uscire – dice nelle pagine finali un altro personaggio positivo del libro – dal dilemma dell’imbroglione tedesco in braghe alla zuava:  perché l’essere piuttosto che il nulla”(p. 183).  Alla mortifera spiritualità di Heidegger, orientata verso la morte e il nulla, bisogna contrapporre, afferma audacemente (ma giustamente) Vassallo, la cattolica Edith Stein, “il più luminoso spirito della Germania moderna, che parla di coloro che l’azione santifica [in senso cristiano] strappandoli dalla comunità degli uomini cosiddetti naturalmente ben pensanti” (p. 184).
[L’irriverenza di Vassallo è giustificata] Ma non avrà esagerato Vassallo con l’irriverenza della sua satira, che comunque va sempre a colpire concetti e stili di vita ben precisi, bersagli ben difesi?  Heidegger, considerato ancor oggi il più grande pensatore del XX secolo, non ha forse analizzato in profondità i meandri esistenziali dell’uomo contemporaneo, riscrivendo l’impianto stesso della metafisica, delle “categorie”?  Il fatto è che, nonostante la profondità di certe sue analisi, tutto il suo discorso sembra viziato da un incredibile paradosso, quello di voler dimostrare che “il Nulla è qui”, contro il Dio creatore.  Pertanto, il suo discorso teoretico si avvita su se stesso, avendo bisogno di una terminologia che esprima l’inesprimibile e l’indimostrabile, ossia che “il Nulla è qui”, terminologia fatalmente intrisa di neologismi, alcuni dei quali del tutto incomprensibili persino per i tedeschi.  Ma la montagna partorisce l’inevitabile topolino poiché la dimostrazione dell’esistenza del Nulla viene alla fine trovata nella sensazione del timor panico, dell’incontrollabile smarrimento esistenziale; nel timore, nell’angoscia che spesso senza causa affliggono gli uomini nella loro “cura” quotidiana: tutti stati d’animo che presuppongono per l’appunto l’essere, dimostrando essi con la loro stessa esistenza dentro l’animo nostro che il Nulla non esiste.
Non esagera quindi Vassallo, a parte (a volte) qualche sberleffo di troppo.  E nemmeno quando sembra mancare di irriverenza nei confronti della scienza contemporanea.  “La prossima lezione si terrà domani alle ore sei in punto.  Alla luce della nuova fisica, che osserva il pallone entrare in porta prima che il calcio sia sferrato, il chiarissimo prof. Idro Lapo Ceneretti confuterà il principio di causalità” (p.104).  In effetti, non mancano di certo tra scienziati e filosofi della scienza le elucubrazioni sull’inversione del principio di causalità nell’ambito degli eventi fisici o sull’inesistenza del tempo.  Si tratta di speculazioni che riflettono, in modo a volte per l’appunto bislacco, la crisi nella quale è caduta la fisica da quando, penetrando nel mondo subatomico è giunta a scoperchiare il sostrato della materia, non riuscendo più ad applicarvi le categorie della scienza classica (di Galileo, di Newton) fondate sul senso comune e quindi sul principio di causalità. 
[Leopardi però non c’entra con il neopensiero]  Nell’includere anche Leopardi nella filosofia dello “odio gnostico contro la vita” a causa del suo desolato pessimismo (p. 150), mi sembra, invece, che Vassallo abbia esagerato.  Non direi proprio che il pessimismo di Leopardi esprima lo spirito di ribellione contro Dio e il desiderio di rovesciare tutti i valori che si riscontra nel Nichilismo contemporaneo, del quale il Neopensiero è l’ultima incarnazione. In Leopardi, come sappiamo, v’è una nota del tutto personale: l’infelicità di un individuo piccolo, storto, gobbo, malaticcio, che le donne non degnavano di uno sguardo. Leopardi soffriva anche del clima opprimente dell’Italia della Restaurazione. Non bisogna certamente lasciarsi sedurre dal pessimismo leopardiano che, nella sua radicalità, è del tutto negativo, e inclina a far perdere la fede.  Ma è vissuto dal poeta come uno stato d’animo provocato dalla natura matrigna, che si deve subire, e non si muta in ribellione verso Dio. Anzi gli ispira profonde e poetiche riflessioni sulla caducità delle passioni e delle vicende umane; sulla vanità e falsità delle religioni secolari:  gli ispira insomma la condanna anticipata di tutto ciò che al neopensiero sembra positivo.
La mia è comunque una critica su di un aspetto minore dell’opera.  Che resta validissima, nella sua coraggiosa e più che fondata polemica, per di più letterariamente pregevole, contro il “politicamente corretto” che ci opprime.

Paolo Pasqualucci


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